Julia Jarmond è una giornalista americana che vive a Parigi. Quando suo marito le chiede di trasferirsi nell'appartamento parigino dei suoi genitori, scoprirà un mistero sconvolgente legato alla storia di quella casa. Julia comincerà una lunga indagine storica che riguarderà lo sterminio degli ebrei, e in particolare una famiglia ebrea che abitava nell'appartamento. Di questa famiglia Julia scoprirà la storia della loro figlia Sara, e questa storia sconvolgerà per sempre la vita di Julia.
Esulo momentaneamente dal mio solito genere (il che mi sembra mentalmente salutare) per scrivere ciò che non è una recensione, ma un omaggio a quest'opera altamente poetica, straziante, struggente, e da vedere solo se si hanno i bioritmi in perfetto equilibrio. Spesso ho detto e ripetuto che il cinema francese contemporaneo sembra guidato da un nume geniale che lo illumina ad ogni suo passo, e il regista Paquet-Brenner mi conferma questa sensazione che si rinforza in me di anno in anno. Il film, poi, se vogliamo vederci anche questo aspetto, è molto perturbante, cioè lascia un segno profondo sull'anima dello spettatore, vi si infiltra come una polvere sottile, soprattutto per l'uso modulato di flash-back sulla storia di Sara, e flash-forward sul presente dell'indagine giornalistica di Julia (una Kristin Scott Thomas con accenti drammatico-filosofici da applauso). Ma, ripeto, occorre vederlo se si hanno tutti i valori emocromatici in perfetta linea coi range normotipici, altrimenti si rischia una immunodepressione emotiva immediata. Il film di Paquet-Brenner non lascia scampo allo spettatore, spiattellandogli in faccia in 111 minuti incalzanti più di qualsiasi altro film che abbia visto, tutto il peso del senso di colpa storico di NOI europei nei confronti dello sterminio nazista. Attraverso una ricostruzione storica precisa della Francia degli anni '40, Paquet-Brenner mette in scena il dramma di bambini strappati alle loro madri, reclusi in campi di prigionia, vilipesi e trattati come animali. Per inciso, oltre a dover avere i bioritmi saldi, occorre non avere figli per vedere con un briciolo di "serenità" estetica questo film (io ne ho due di figli, e quindi, vi assicuro, è stata dura...). Gli sceneggiatori, Serge Joncour e Paquet-Brenner medesimo, sembrano quasi guidati da un demone vendicativo nei confronti dello spettatore, poichè decidono di rivoltargli addosso il peso di una storia di agonie che si susseguono, una più straziante dell'altra, proprio perchè sono realmente accadute, sebbene "metaforizzate" all'interno di una "storia" filmica, tratta per giunta da un romanzo (di Tatiana de Rosnay). E' un pò come se Joncour e il regista volessero appositamente accostare poesia e realtà (così come indagine giornalistica e film storico), per ottenere un effetto ulteriormente, iperbolicamente, veritativo circa la "memoria della colpa" dello sterminio degli Ebrei. In questo senso il film pesca molto anche in ambito filosofico, e le ultime parole della giornalista Julia Jordan, possiedono giustappunto un sapore filosofico, etico, che risuona altissimo, in modo quasi assordante, nelle ultime toccanti, definitive sequenze del film. La fotografia di Pascal Ridao è essa stessa pura poesia visiva, basti menzionare le inquadrature in campo medio e dall'alto, di Sara e della sua amica Rachel mentre corrono nel campo di grano, dopo essere fuggite dal campo di smistamento francese, per poi raggiungere la fattoria di Jules Dufaure (un Niels Arestrup grandioso, semplicemente grandioso). Stesso discorso vale per la luce che si diffonde e circonfonde lo spettatore durante le sequenze in cui Sara, già adolescente, cammina sulla spiaggia in Normandia, dopo lo sbarco degli americani. Dicevo all'inizio che il film è anche "perturbante", e mi riferisco ovviamente alla sequenza del ritorno a casa di Sara, quando cioè Sara userà, ahilei, la sua chiave, e scoprirà ciò che vedrete anche voi se andrete a vedere questo film. Ho scritto "ahilei", ma sarebbe meglio dire "ahinoi", poichè quel primo piano di Sara va a cadere dentro la nostra anima con un tonfo il cui eco rimane in noi per giorni interi. "La chiave di Sara" è un grande film sull'Olocausto, o per meglio dire è una sublime poesia che ti strazia il cuore, dall'inizio alla fine. Non lo consiglierei certamente a tutti. Anzi, solo a chi possiede il coraggio di avere paura, ed è in perfetta forma psicofisica.
Regia: Gilles Paquet-Brenner, Sceneggiatura: Serge Joncour, Gilles Paquet-Brenner Fotografia: Pascal Ridao Montaggio: Hervé Schneid Cast: Kristin Scott thomas, Mélusine Mayance, Niels Arestrup, Frédéric Pierrot, Michel Duchaussoy, Dominique Frot, Gisèle Casadesus, Aidan Quinn, Natasha Mashkevich Nazione: Francia Produzione: Hugo Production, TF1, Studio 37, France 2 Cinema Durata: 111 min.
Esulo momentaneamente dal mio solito genere (il che mi sembra mentalmente salutare) per scrivere ciò che non è una recensione, ma un omaggio a quest'opera altamente poetica, straziante, struggente, e da vedere solo se si hanno i bioritmi in perfetto equilibrio. Spesso ho detto e ripetuto che il cinema francese contemporaneo sembra guidato da un nume geniale che lo illumina ad ogni suo passo, e il regista Paquet-Brenner mi conferma questa sensazione che si rinforza in me di anno in anno. Il film, poi, se vogliamo vederci anche questo aspetto, è molto perturbante, cioè lascia un segno profondo sull'anima dello spettatore, vi si infiltra come una polvere sottile, soprattutto per l'uso modulato di flash-back sulla storia di Sara, e flash-forward sul presente dell'indagine giornalistica di Julia (una Kristin Scott Thomas con accenti drammatico-filosofici da applauso). Ma, ripeto, occorre vederlo se si hanno tutti i valori emocromatici in perfetta linea coi range normotipici, altrimenti si rischia una immunodepressione emotiva immediata. Il film di Paquet-Brenner non lascia scampo allo spettatore, spiattellandogli in faccia in 111 minuti incalzanti più di qualsiasi altro film che abbia visto, tutto il peso del senso di colpa storico di NOI europei nei confronti dello sterminio nazista. Attraverso una ricostruzione storica precisa della Francia degli anni '40, Paquet-Brenner mette in scena il dramma di bambini strappati alle loro madri, reclusi in campi di prigionia, vilipesi e trattati come animali. Per inciso, oltre a dover avere i bioritmi saldi, occorre non avere figli per vedere con un briciolo di "serenità" estetica questo film (io ne ho due di figli, e quindi, vi assicuro, è stata dura...). Gli sceneggiatori, Serge Joncour e Paquet-Brenner medesimo, sembrano quasi guidati da un demone vendicativo nei confronti dello spettatore, poichè decidono di rivoltargli addosso il peso di una storia di agonie che si susseguono, una più straziante dell'altra, proprio perchè sono realmente accadute, sebbene "metaforizzate" all'interno di una "storia" filmica, tratta per giunta da un romanzo (di Tatiana de Rosnay). E' un pò come se Joncour e il regista volessero appositamente accostare poesia e realtà (così come indagine giornalistica e film storico), per ottenere un effetto ulteriormente, iperbolicamente, veritativo circa la "memoria della colpa" dello sterminio degli Ebrei. In questo senso il film pesca molto anche in ambito filosofico, e le ultime parole della giornalista Julia Jordan, possiedono giustappunto un sapore filosofico, etico, che risuona altissimo, in modo quasi assordante, nelle ultime toccanti, definitive sequenze del film. La fotografia di Pascal Ridao è essa stessa pura poesia visiva, basti menzionare le inquadrature in campo medio e dall'alto, di Sara e della sua amica Rachel mentre corrono nel campo di grano, dopo essere fuggite dal campo di smistamento francese, per poi raggiungere la fattoria di Jules Dufaure (un Niels Arestrup grandioso, semplicemente grandioso). Stesso discorso vale per la luce che si diffonde e circonfonde lo spettatore durante le sequenze in cui Sara, già adolescente, cammina sulla spiaggia in Normandia, dopo lo sbarco degli americani. Dicevo all'inizio che il film è anche "perturbante", e mi riferisco ovviamente alla sequenza del ritorno a casa di Sara, quando cioè Sara userà, ahilei, la sua chiave, e scoprirà ciò che vedrete anche voi se andrete a vedere questo film. Ho scritto "ahilei", ma sarebbe meglio dire "ahinoi", poichè quel primo piano di Sara va a cadere dentro la nostra anima con un tonfo il cui eco rimane in noi per giorni interi. "La chiave di Sara" è un grande film sull'Olocausto, o per meglio dire è una sublime poesia che ti strazia il cuore, dall'inizio alla fine. Non lo consiglierei certamente a tutti. Anzi, solo a chi possiede il coraggio di avere paura, ed è in perfetta forma psicofisica.
Regia: Gilles Paquet-Brenner, Sceneggiatura: Serge Joncour, Gilles Paquet-Brenner Fotografia: Pascal Ridao Montaggio: Hervé Schneid Cast: Kristin Scott thomas, Mélusine Mayance, Niels Arestrup, Frédéric Pierrot, Michel Duchaussoy, Dominique Frot, Gisèle Casadesus, Aidan Quinn, Natasha Mashkevich Nazione: Francia Produzione: Hugo Production, TF1, Studio 37, France 2 Cinema Durata: 111 min.