Pagine

martedì 27 agosto 2013

The ABCs of the Death, di A. Bettis, A. G. Bogliano, X. Gens, T. Tjahjianto, T.West, et al. (2012)



Un'antologia horror in 26 capitoli, scritti e diretti da altrettanti autori horror del cinema statunitense contemporaneo. 

Dopo aver parlato (abbastanza bene) di "V/H/S", di "V/H/S 2" (piuttosto male) e di "The Theatre Bizarre" (piuttosto bene), rivolgiamoci ora a questa ulteriore antologia horror che vede ben 26 registi di varia provenienza geografica internazionale, riuniti insieme dalla incomprensibile ostinazione del produttore neozelandese Ant Timpson, allo scopo di rappresentare il tema (molto generico) della Morte mediante corti rapidissimi quanto sperabilmente intensi. Il risultato complessivo, va detto subito, è pessimo, a parte alcuni episodi meritevoli di attenzione, che qui andremo a discutere, insieme ad altri che invece vanno solo dimenticati, o, meglio, buttati senza indugio nella spazzatura. Ma cominciamo appunto con la spazzatura, che ci serve qui anche per evidenziare metaforicamente i terribili difetti di un film a episodi che in generale è semplicemente un'accozzaglia maniacale e pseudo-avanguardistica di sequenze del tutto inutili perché non portano avanti di un millimetro il discorso estetico sul Perturbante nel Cinema. C'è da chiedersi inoltre come mai alcuni nomi importanti come Xavier Gens, Srdjan Spasojevic, Timo Tjahjianto e soprattutto Ti West, abbiamo deciso di partecipare a tale discutibile produzione. Tornando alla spazzatura, direi che il corto peggiore è senz'altro "Z is for Zetsumetsu" di Yoshimiro Nishimuri, che insieme all'altro corto del collega nipponico Noburo Iguchi allestiscono un festival del kitsch in miniatura, due veri e propri bonsai del cattivo gusto puro ed "in esistenza" quant'altri mai se ne erano visti, tra le cose più lontane dal genere Perturbante si potessero creare (più che altro un vero insulto alla creatività, in verità). Passiamo poi a "W is for WTF!" di Jon Schnepp, allegoria lisergica ipercontrastata, iperilluminata, pop-artistica e dall'ispirazione wharoliana che mette in scena inverosimili pagliacci-zombie stile IT, ma come in un "Drive In" berlusconiano anni '70. Una vera noiosissima pena determinata da un bombardamento visivo maniacale in senso strettamente psichiatrico che il buon Timpson poteva tranquillamente risparmiarci. Non parliamo poi di "M is for Miscarriage" di Ti West, debolissimo, deludente, completamente insulso corto che possiede l'unico pregio di essere molto breve. Su altri sorvolo perché in realtà non varrebbe nemmeno la pena citarli (vedansi ad esempio l'episodio del pappagallo di Banjong Pisanthanakun, ridicolo e di molto inferiore a molti sketch del duo Mondaini-Vianello, e il pezzo di Adam Wingard e Simon Barrett, che qui sono anche protagonisti: una vera, semplice schifezza ripresa specularmente nell'eloquente titolo: "Q is for Quack").

In questo baraccone che stanca la vista e tutti gli altri sensi, si salvano poche, pochissime cose, che sono le seguenti:

a) "T is for Toilet", di Lee Hardcastle, corto animato molto particolare e nuovo, nel quale il tema delle angosce infantili più primitive si intreccia con quelle più adulte della morte dei propri figli. Nella sua semplicità molto più potente di molta CG contemporanea al servizio di Hollywood. Complimenti .
b) "R is for Removed", Srdjan Spasojevic, molto poetico, essenziale, un aiku serbo potremmo definirlo, che dopo il rovinoso debutto di "Srpski Film" (2010) risolleva le sorti di un regista che pareva solo presuntuoso,frettoloso e mimetico. 
c) "X is for XXL" di Xavier Gens, metafora terribile di certo sadismo socialmente condiviso attraverso i canali ambigui e subdoli di social networks, canali YouTube e altre piacevolezze perverso-tecnologiche odierne. Molto attuale, con un sottotesto sociologico assai ben impacchettato e iniettato sottopelle allo spettatore ignaro. Dopo le notevoli prove di "Frontier(s)" (2007) e "The Divide" (2011), a partire da questo corto Gens sembrerebbe ben proiettato verso uno sviluppo molto generativo della sua specifica poetica filmica. Siamo quindi molto curiosi di vedere i suoi prossimi "Cold Skin" e "The Farm", in pre-produzione. "X is for XXL" è probabilmente il miglior corto dell'intera antologia, e meritava altro contesto, decisamente. 
d) "L is for Libido", di Timo Tjahjianto, che avevamo già visto in "V/H/S 2" nell'episodio, peraltro non particolarmente apprezzabile dal titolo "Safe Heaven".  "L is for Libido" è un corto molto interessante perché prende di petto il tema del voyeurismo pornografico così invasivo oggigiorno e lo organizza all'interno di poche, violentissime sequenze che non lasciano respiro. A me è sembrato un vero atto di denuncia delle derive perverse verso cui la società liquido-ipermoderna che viviamo ci sta guidando a dispetto dei nostri fragili frame valoriali. A mio avviso Tjahjianto ha assoluta necessità di raffinare certi spigoli inutilmente ed eccessivamente gore della sua poetica (motoseghe, impalamenti, grandguignol, parti mostruosi, come anche avevamo visto in "Safe Heaven" ) ma certamente ha molto da dirci. 

I corti citati (da a) a d) ) non bastano tuttavia a rendere guardabile un'operazione discutibilissima come "The ABCs of the Death", la cui impalcatura espressiva crolla inevitabilmente sotto il peso dell'eccessiva libertà accordata ai registi, nonché  della numerosità degli autori riuniti. Sono anche interessanti le mostre collettive, ma se mettiamo in una galleria d'arte cento pittori diversi, generiamo solo un gran casino, una casbah urlante nella quale ti senti solo tirato da tutte le parti e non ti puoi soffermare su niente. Se poi i prodotti esposti sono anche brutti, malconfezionati e buttati sui banconi con malagrazia strafottente, allora non ci siamo proprio, ed è molto meglio uscire finalmente all'aria aperta a fare due passi lungo il fiume per riordinare le idee. "The ABCs of the Death": assai sconsigliato, a parte le interessanti prove di Hardcastle, Gens, Spasojevic, Tjahjianto, che però stanno tutti e quattro lì dentro come i cavoli a merenda. 

Regia: Angela Bettis, Adrian Garcia Bogliano, Xavier Gens,  Lee Hardcastle, Jason Eisner, Noburo Iguchi, Yoshimiro Nishimura, Banjong Pisanthanakun,  Jon Schnepp,  Srdjan Spasojevic, Timo Tjahjianto, Ti West, et al.   Soggetto e Sceneggiatura:  Angela Bettis, Adrian Garcia Bogliano, Xavier Gens,  Lee Hardcastle, Jason Eisner, Yoshimiro Nishimura, Banjong Pisanthanakun,  Jon Schnepp,  Timo Tjahjianto, Ti West, et al. Fotografia: Manuel Dacosse, Nicolàa Ibieta et al.  Montaggio:  Phillip Blackford, Robert Hall et al.   Cast: Ingrid Bolso Berdal, Kyra Zagorsky, Dallas Malloy, Erik Aude, Peter Pedrero, Fraser Corbett, Xavier Magot et al.    Nazione:  USA  Produzione: Magnet, Drafthouse Films, Timpson Films, et al.    Durata: 123 min.     

venerdì 23 agosto 2013

Note su un post di Elvezio Sciallis circa la "disneificazione dell'immaginario"




Lo stimolante e come al solito molto pensato post di Elvezio Sciallis, che è importante che andiate a leggervi per meglio comprendere le ragioni di questa sorta di mia risposta a quel post, mi ha fatto venire in mente un articolo di Hanna Segal, analista di scuola kleiniana, pubblicato sulla rivista statunitense American Imago nel 2006. In questo articolo l'anziana e stimatissima psicoanalista metteva in discussione le più recenti tecniche curative dei suoi colleghi winnicottiani e kohutiani, da lei ritenuti, come direbbe Elvezio, "disneiani". La Segal motivava questa critica ai suoi colleghi ritenuti troppo "buonisti" nel modo seguente: 

"Emerse un nuovo interesse per le nozioni di cura e di cambiamento che non si incentravano sulla ricerca della verità e che consideravano le influenze personali dell'analista-per esempio il dare sostegno, consiglio e conforto-come parte integrante del processo analitico. I cambiamenti della tecnica adottati qui erano di un tipo che li rendeva fondamentalmente non analitici. Essi si opponevano allo sforzo psicoanalitico di giungere al cambiamento mediante la ricerca della verità" (Segal, 2006, pag.288).


Il post di Elvezio non ha ovviamente intenti psicoanalitici, ma chiama a sua volta in causa temi come quelli evocati dalla Segal in quell'articolo, primo fra tutti quello della "conoscenza", e cita a tale proposito H. Broch che scrive a riguardo: "La sola morale del romanzo è la conoscenza; un romanzo che non scopra alcuna porzione sconosciuta dell'esistenza è immorale". Elvezio afferma poi che questa frase di Broch si può applicare, oltre che al romanzo, a molta produzione cinematografica perturbante contemporanea ritenuta "disneiana" appunto perché  consolatoria e autoreferenziale, come ad esempio l'ultimo "The Conjuring" di James Wan, e il recente "Pacific Rim" di Del Toro, paccottiglia da luna park da buttar via, secondo Elvezio perché, come sottoscriverebbe la Segal, si tratta di prodotti che non determinano alcun "cambiamento mediante la ricerca della verità". Elvezio rimanda poi ad un post di Lenny Nero nel quale si dice che chi scrive oggigiorno di cinema horror si divide ormai tra "due diverse concezioni del genere horror: da una parte la ricerca del perturbante (termine tanto caro ai barbagianni freudiani), dall'altra quella di un ridanciano luna-park. Da una parte una sfida atavica e tribale ai propri sensi, alla propria morale, un assalto all'inconscio e all'immaginario, dall'altra la convenzionalità, l'assuefazione, una paura che ti fa il solletico all'improvviso e poi ti da una carezza". Dal momento che mi sento di appartenere alla prima delle due "diverse concezioni" cui fanno riferimento Sciallis e Nero, e cioè a quella dei "barbagianni freudiani", ma simultaneamente ho parlato bene sia di "The Conjuring"



che di "Pacific Rim" (e anche di "After Earth" sulle pagine del sito della Società Psicoanalitica Italiana, horribile dictu), ritenuti da Elvezio una inutile, "infantile", "disneiana" pappina, mi sono sentito tirato in causa dal suo post, e desidererei replicare, soprattutto perché ritengo quello di Elvezio uno scritto molto importante e molto meritevole di attenzione per chi scrive di Cinema Perturbante su blog, seppur in modo amatoriale. 
Partirei da Freud, naturalmente, che secondo Elvezio che riprende Nero, informa quella concezione del Perturbante, tanto cara a noi "barbagianni freudiani". Tanto per cominciare, Freud non ha mai amato il cinema in generale e il cinema horror in particolare. Freud rifiutò un'offerta di centomila dollari da parte del produttore americano Samuel Goodwin per partecipare alla stesura di script relativi a tutta una serie di film che Goodwin aveva in testa. Nonostante  Karl Abraham e Hans Sachs, due tra i più quotati allievi del maestro viennese avessero deciso nel 1925 di collaborare con il regista Wilhelm Pabst alla sceneggiatura di un film divulgativo sulla psicoanalisi, Freud si tenne molto alla larga da tutto questo , e già in una lettera a Ferenczi del 1916, scriveva: 

"La riduzione cinematografica sembra inevitabile, così come i capelli alla maschietta, ma io non me li faccio fare, e personalmente non voglio avere nulla a che spartire con storie di questo genere. La mia obiezione principale rimane quella che non è possibile fare delle nostre astrazioni una presentazione plastica che si rispetti. Non daremo comunque la nostra approvazione a qualcosa di insipido" (Freud-Ferenczi, Lettere, 1914-1918). 

Sul tema del Perturbante in Freud occorre cioè andare cauti (aldilà dei barbagianni che si spacciano da freudiani e usano tale concetto come gli pare, talvolta anche un pò parassitando il pensiero di Freud) : di Perturbante Freud parlò solo in un breve scritto del 1919 e riguardo ad un racconto di Hoffman, "Il mago sabbiolino". In quello scritto si parla di Letteratura, non di Cinema, sebbene Freud e la Psicoanalisi fossero già entrate in contatto con il nuovo strumento inventato dai Lumiere nel 1895 (come dimostra la lettera a Ferenczi). Tutto questo pistolotto storico-psicoanalitico per dire che la nozione di "barbagianni freudiani" applicata a chi scrive recensioni di film horror è di per sè inappropriata. Occorre andare oltre e dopo Freud per cogliere un reale interesse della Psicoanalisi verso il cinema perturbante, ma molto oltre: bisogna arrivare quasi ai nostri giorni, ad esempio alla profonda interpretazione di René Kaes (2010) di



"Un tranquillo week-end di paura" di J. Boorman, che troviamo nel suo libro "Le alleanze inconsce". Ma quello che mi preme qui di più sottolineare (e torniamo alla citazione iniziale della Segal), è che, oltre a descrivere una categoria "freudianamente" inappropriata di "critici" del Perturbante, nel post di Elvezio la si associa ad una "ricerca della verità", ad una "conoscenza", ad una "oggettività" che sa più di lacaniano o kleiniano che di davvero freudiano. Vorrei chiederlo a chiare lettere (anche alla Segal, oltre che ad Elvezio): ma qualcuno sa cos'è la Verità, l'Oggettività? Credo sia importante questa domanda, perché se non ce la poniamo, allora poi diventa facile, anzi facilissimo dividere i "disneiani" dai "barbagianni freudiani", così come i "veri analisti" della Segal dai "buonisti" di Winnicott e Kohut, cioè diventa facile cadere in un dogmatismo che si dice a parole di voler combattere, ma che si ricrea nel momento in cui lo si vuole abbattere in nome della Verità (per esempio già dividendo il "campo di battaglia" in due concezioni contrapposte). La Verità, io penso, non esiste.  La Segal, in nome di una "verità psicoanalitica", secondo lei assolutamente "freudiana", nel suo articolo faceva riemergere una disputa tra Anna Freud e Melanie Klein che sembrava terminata negli anni '40, e che invece, ancora nel 2006 divide gli analisti "mammosi", confortanti e supportivi, da quelli più "seri" e davvero (loro sì!) freudiani, cioè quelli che, parafrasando Lenny Nero, preferiscono "dare e ricevere adulti schiaffi che infantili buffetti". E sì, perché poi è lì che va a finire la Verità della Segal, così come chi divide rigidamente i "disneiani" dai "barbagianni" della critica cinematografica: l'infanzia. Un'infanzia fastidiosa, che bisogna togliere di mezzo, altro che "carezze della mamma"; siamo adulti, uomini duri e sappiamo noi cos'è davvero il Perturbante, altro che queste bambinate di "Pacific Rim" e "The Conjuring". Il punto è invece che il Perturbante lo sanno e vivono proprio i bambini: le angosce sono infantili, non adulte (sia quelle schizoparanoidee che quelle depressive, per usare un linguaggio kleiniano), fanno parte della preistoria, non della storia dell'individuo. Stanno nascoste nelle faglie egoiche a lungo, e il Perturbante (il "nascosto" che riaffiora secondo Freud) le fa riemergere, le riattiva (nel cinema ciò avviene mediante una regressione voyeuristica imparentata con quella che caratterizza il lavoro onirico), ne riattiva le tracce mnestiche (vedi S. Freud, "L'Io e l'Es", 1922), aldilà che il riattivatore estetico sia "The Conjuring", "Begotten" o "The Bunny Game". L'Unheimlich è sempre imparentato con l'Heimlich, secondo Freud, cioè il perturbamento nasce quando il familiare e l'estraneo sono integrati misteriosamente in un "dualismo affettivo": per Freud il Perturbante è in ultima analisi "l'accesso all'antica patria",



cioè al grembo materno, a ciò che è più familiare, infantile, originario, ma rimosso (la mamma confortante così odiata dalla Segal!). Voglio dire che ho trovato molto interessante il post di Elvezio perché riecheggia curiosamente una disputa teorica che ha caratterizzato (e per certi versi tuttora caratterizza) la storia del movimento psicoanalitico. Una disputa teorica ma anche naturalmente molto tecnica che vede da una parte coloro che vedono l'analista come colui che deve stare dalla parte della Realtà/Verità e che quindi sul piano tecnico deve dare "adulti schiaffi" interpretativi al bambino-paziente; e dall'altra invece come colui che incarna una funzione materna contenitiva,  empatica, che lascia spazio assoluto all'immaginario del paziente, anche quello "disneiano", in modo che egli possa sperabilmente raggiungere aree mai ascoltate del suo Sè. Sentiamo a tale riguardo cosa scrive Masud Khan, allievo di Winnicott, certamente un "buonista" per dirla alla Segal: 

" Il piccolo umano è il solo organismo vivente che esce dalla matrice per immergersi nel nuovo ambiente in modo traumatico e prematuro. Di qui la necessità, per la madre e/o per i suoi sostituti, di dispensare cure intensive e lunghe (...) La domanda che allora si pone è la seguente: in che modo incontriamo, una volta adulti, questa follia [l'infanzia] e questa solitudine? In tre modi. Con l'arte e con la letteratura; con l'esperienza di una mutualità non eccitata con l'altro; negli stati mistici, come li conoscono i sofisti persiani e i monaci Zen (...) Il peggio ha inizio quando ci sforziamo di dare senso a questo non senso di una follia parlata riferendoci al nostro vocabolario concettuale, quello al quale siamo consacrati sia per ascoltare che per interpretare il materiale normale o patologico. La nostra sollecitudine a questo punto ci fuorvia: vogliamo ad ogni costo dare senso a questo non senso ricostruendo i fatti (Winnicott) e i fantasmi (Melanie Klein) della prima infanzia. Ma questo non è di alcun aiuto e quanto c'è di potenzialmente creativo nella follia ricade nell'oblio." (M. Khan, 1981, pag.189). 

Quando Khan dice che ci sforziamo di dare senso a questa specie di "follia" che è l'infanzia, usando il nostro vocabolario concettuale (adulto), sta dicendo che vogliamo riempire un vuoto con la Verità (Segal), con la Conoscenza, con l'Oggettività (Broch, Sciallis). Perché invece non lasciarci andare ad una "astinenza rappresentazionale" senza Verità, senza Conoscenza, perché forse è solo laggiù che possiamo fuggevolmente intravedere il vero "luogo delle origini" (Winnicott), il "dov'era l'Es" (Freud), l'Inconscio? Perché idealizzare l'"adulto schiaffo" e relegare ad "infantile" il "buffetto", laddove è proprio quell'"infantile" a portare il segno della rimozione primaria freudiana, il segno del Perturbante appunto, il Perturbante freudiano? E' "disneiano" quell'immaginario rimosso? Ha bisogno della morfina di Wan e dei robottoni di Del Toro? Forse, ma non è un suo problema, perchè il suo problema è semplicemente quello di trovare oggetti evocativi (il Cinema è uno di questi) che ne facciano risuonare la specifica tonalità espressiva. "Disneiano" è ancora una volta il significante del nostro "vocabolario concettuale" che vuole imporre la nostra Verità e a cui l'Infantile non interessa e non pertiene. Si sa, i bambini sono fastidiosi. Ma all'Infanzia, folle e solitaria, direbbe Khan, non importa questo vocabolario, importa solo che vi si accosti con delicatezza e rispetto, in modo isotopico, sempre che si sia interessati a capirla, e non a colonizzarla attraverso i nostri "adulti schiaffi", quand'anche dati dalla mano di un saggio e colto Zlavoj Zizek (anche lui lacaniano, quindi non esattamente "freudiano", in realtà). A quella parte di Sè infantile di cui ci dice suggestivamente, evocativamente Khan,  Wan e il Del Toro di "Pacific Rim" possono non sembrare "disneiani", ma molto isotopici ed evocativi, con buona pace della Verità della tecnica psicoanalitica della Segal. E se sono un luna-park di provincia, è in quei luna-park che il nostro Sè infantile è vissuto, appena "fuori dalla matrice per immergersi nel nuovo ambiente in modo traumatico e prematuro". E' lì, in quella provincia, che nasce il nostro personale Perturbante, il nostro Idioma del Sè (Bollas, 1987), non a Las Vegas, non a casa di Simon Abrams, non nel Simbolico o nel Reale lacaniano, ma nell'Immaginario, il nostro, nella nostra follia e solitudine privata (Khan) che "l'adulto schiaffo" vorrebbe radrizzare, quello sì, urlando "me ne frego!". D'altra parte se "Pacific Rim" o "The Conjuring" sono un "luna-park ridanciano" perché rimandano al rassicurante specchio narcisistico materno, che secondo Freud (non secondo me, sconosciuto recensore amatoriale di film perturbanti) coincide con il Perturbante medesimo, che dire allora di un'opera come



"Heavenly Creatures" di Peter Jackson, tutta centrata sull'evocazione (a tratti volutamente e giustamente urlata) dell'immaginario narcisistico-gemellare adolescenziale? Quello è Perturbante per via della sequenza finale della morte della madre, forse? Se vogliamo stare su questa linea, allora io ho trovato decisamente più perturbante e meno "disneiano" "Un ponte per Tarabithia" di Gàbor Csupò (2007), che non il bellissimo e peraltro inquietante film di Jackson.



Intendo dire che quando si parla di film sia utile non utilizzare mai uno strumentario terminologico-discorsivo occludente, definitorio, definitivo: Verità, Conoscenza, diventando noi stessi, nei nostri piccoli recinti di blog amatoriali, soggetti "supposti sapere", "adulti" rispetto ad altri definiti "bambini", che in nome di questa Verità vengono dunque degradati fino a diventare "merda", naturalmente. Bisogna stare attenti ad usare i significanti in quanto tali, perché dietro di essi si muove sempre l'Inconscio che rimane comunque legato all'"Infantile", che piaccia o no, se non altro per motivi legati alla "viscosità della libido" (o almeno così pensava Freud, vedasi ad esempio "Costruzioni nell'analisi", 1937 e "Analisi terminabile e interminabile", 1937). I meccanismi proiettivi ed identificativi mossi da un film e le lettur cui un film si presta sono molteplici, a maggior ragione se il film è un film "perturbante" (termine, ripeto, anch'esso da prendere con le molle e "freudiano" fino a un certo punto, vi ricordo). 
Ma c'è un altro elemento fondamentale che volevo toccare del post di Elvezio. L'idea cioè che esista un "vero Perturbante", svincolato da logiche "di sistema" o di contesto (di "legame" e di economia psichica gruppale intersoggettiva, potrei dire in termini psicoanalitici più moderni), un "Perturbante Assoluto" potremmo dire, che va a braccetto con l'idea segaliana di Verità Assoluta di cui ho già detto. Tale turbolenza asintoticamente assoluta , e qui Elvezio cita ancora Lenny Nero, significa  "ambire a farsi scoperchiare i neuroni", ambizione se si abdica alla quale, allora si diventa "dei pavidi reazionari in pantofole giustificabili solo se avete il background cinematografico di un bambino". Ancora una volta è il "supposto sapere" che parla, ma qui in particolare il discorso si fa totalmente eccentrico e lontano da una psicoanalisi che dall'altro lato si chiama in aiuto per suffragare le proprie tesi, pensando invece che sia molto vicina: per Freud infatti il Perturbante non era certamente questo "scoperchiamento dei neuroni", ma all'esatto opposto, il ritorno del rimosso di quel "background infantile" che si vuole espellere e denegare in nome della Verità. Bisogna conoscerlo e studiarlo Freud  per poi usarne il pensiero senza deformarne gli ambiti di applicazione, soprattutto se si vuole stare nel campo di battaglia dalla parte dei "barbagianni freudiani".  E soprattutto occorre sia chiaro che la Psicoanalisi non coincide con il Freud di Lacan, bensì con la storia in toto del pensiero psicoanalitico freudiano e postfreudiano che va da Freud e si sviluppa con la Klein, Winnicott, Bion, Kohut, eccetera (a tale proposito è utile ricordare che curiosamente i lacaniani non fanno parte dell'International Psychoanalytical  Association- IPA, fondata da Freud in persona, e nonostante ciò ritengono di essere loro i veri interpreti del pensiero di Freud). 

Non sono film come "The Conjuring" e "Pacific Rim" a preoccupare un "barbagianni" come il sottoscritto, che ritiene invece sia molto più utile spostare l'attenzione su altri bersagli nefasti dell'industria cinematografica horror contemporanea, prodotti che segnalano davvero una mutazione antropologica molto subdola quanto perniciosa, spacciandola per "Perturbante". Mi riferisco a molte franchise filmiche tipo l'infausto



"Twilight", di cui ho molto parlato anche nel mio libro sul disagio giovanile e sul quale quindi non mi dilungo ulteriormente. Ma mi riferisco anche, naturalmente, a tutta la sequela dei vari "Saw", o a certo uso del Rape & Revenge, tema di cui si discute saggiamente nell''ottimo intervento di Lucia. Filmografia a mio avviso mortifera (il contrario, cioè del Perturbante freudiano) perché attraverso subdole "introiezioni estrattive" (Bollas, 1987) che solleticano l'inconscio dello spettatore, si dirige dritta dritta nella direzione di uno sdoganamento di aspetti distruttivi, inumani, sado-masochistici, quelli sì imparentati molto strettamente con la bulimia, facendo credere che siano oggetti "normali". L'obiettivo più profondo e subdolo di certo cinema sedicente "perturbante" credo sia proprio quello di creare uno spettatore-fruitore bulimico, avido, tossicomanico, per averlo in pugno e inglobarlo nel "discorso del capitalista", come direbbe, in questo caso in modo pertinente, Lacan. Tale operazione fa leva sul trionfo onnipotente della pulsione bruta sul pensiero, con lo scopo di uccidere il pensiero stesso, di farci cioè accettare supinamente istanze totalitarie, distruttive, che pensavamo di aver tolto di mezzo col nazismo, ma che invece sono sempre lì, pronte ad essere alimentate facendo leva sulla bulimia di cui parla Elvezio al termine del suo post. Tutto questo sta peraltro già avvenendo da anni nel nostro paese, ormai trasformato in un immenso centro commerciale perverso nel quale si è fatto di tutto per dimostrare che "è normale" pescare ragazze minorenni dalle comunità terapeutiche in cui sono ospitate e ingaggiarle in festicciole per governanti mafiosi e potenti. Non occorre andare a Hollywood, o a casa di James Wan. I bersagli per una critica cinematografica eticamente all'altezza sono molto più vicini e meritevoli di attenzione di "The Conjuring". Per combattere tale deriva tuttavia penso occorra innanzitutto rinunciare noi stessi per primi all'idea di una Verità del Perturbante che genera poi un "campo di battaglia" in realtà inesistente tra "cultura alta" e "cultura bassa", operazione che ci fa facilmente buttar via il bambino con l'acqua sporca. E quel "bambino",  come ci insegna Freud, se lo si legge con attenzione, è il vero cuore, il vero motore del Perturbante. 

martedì 20 agosto 2013

Alle radici del male, di Roberto Costantini, 2012


Anno: 2012    Editore: Marsilio, Collana Farfalle, i Gialli   Pagine: 702  ISBN: 978-88-317-1116-6  Euro: 19,50

Tripoli, anni '60. Quella di Mike Balistreri è un'adolescenza tumultuosa come il ghibli che spazza il deserto. Sullo sfondo della Libia postcoloniale, gli anni giovanili di Mike sono segnati da due atroci morti irrisolte, da due impossibili amori, dal coinvolgimento in un complotto contro Gheddafi, e da un patto di sangue che inciderà a fondo sia la pelle che l'anima a lui e ai suoi tre migliori amici. Roma, settembre 1982. Il giovane commissario Balistreri di notte si stordisce con il sesso, l'alcol e il poker e di giorno indaga svogliatamente sulla morte di Anita, una studentessa sudamericana  assassinata al suo arrivo nella Capitale. Per un debito di gratitudine, è anche costretto a vegliare sulla scapestrata Claudia Teodori, che sembra lanciata verso una luminosa carriera di starlette. Ma le morti di oggi e quelle di ieri sono legate da un filo invisibile, seguendo il quale Michele Balisteri sarà costretto a calarsi nelle zone più buie del suo passato, quei giorni di "sabbia e sangue" con cui non ha mai chiuso i conti, in un cammino lungo il quale l'amore, l'amicizia e gli ideali si scontreranno con la ricerca di verità dolorose, nell'impossibilità di distinguere chi tradisce da chi è tradito. Alla fine sarà il disperato eroismo  di una ragazza a condurlo per mano fino alle radici del Male. 

Proseguiamo con le recensioni letterarie estive, affrontando questo mastodontico "Alle radici del male", 702 pagine fittissime e dense, di quel Roberto Costantini che ci aveva fatto conoscere il commissario Michele Balistreri nel primo della sua trilogia, e cioè in "Tu sei il Male"  (2011). In quel libro avevamo seguito il contortissimo caso Sordi e conosciuto il nostro commissario Balistreri, personaggio piuttosto antipatico, dal passato di picchiatore fascista, amante delle belle e facili donne, del poker con cui gioca con il fratello Alberto e l'amico di una vita, Angelo Dioguardi. Quel libro era ambientato negli anni '80 e '90, e la capacità davvero magistrale di Costantini nel saper rendere atmosfere e ambienti romani di quel periodo risultava sorprendente. Nel secondo capitolo della sua storia (di vita potremmo dire), siamo proiettati negli anni '60, durante l'adolescenza di Michele, da tutti chiamato Mike. Ci troviamo in Libia, nella Tripoli postfascista, e la famiglia Balistreri vive nella lussuosa villa dei nonni, con la madre Italia, il padre facoltoso ingegnere Salvatore, e il fratello Alberto. Costantini dipinge un affresco vivo, passionale, sanguigno delle vicende adolescenziali di Michele, della sua iniziazione sessuale molto traumatica e intensa, pescando in fondali molto freudiani, molto edipici, tratteggiando il conflitto col padre Salvatore (nome ossimorico quant'altri mai) con toni shakeasperiani. La scrittura è sempre fluida, a tratti fluviale, a momenti torrentizia con rapide e cascate naturali che sorprendono sovente la tua navigazione di lettore insonnolito dalle atmosfere iniziali di un torrido deserto circostante che esala vapori sabbiosi e trasuda voli di mosche fastidiose. Si tratta di una scrittura che non ci risparmia scene raccappriccianti, al limite dell'horror puro: già a pagina 21 si apre infatti il terribile quadretto di una donna rapita da un killer misterioso, appesa per il collo, che a pagina 67 farà una fine agghiacciante, insieme alla figlioletta, neonata. I personaggi appaiono piano piano e sono delineati con cura. Li vediamo fin dai banchi di scuola, e lentamente crescere, Mike per primo, poi i suoi amici-fratelli di sangue: Nico, Farid, Karim, Ahmed, Selim, poi i suoi amori, Laura in particolare, ma soprattutto Marlene Hunt, donna fatale, summa teologico-letteraria della madre seduttrice di adolescenti, che chiede a un diciottenne Mike di spalmarle la crema abbronzante sulla schiena... Ma è tutta l''ambientazione africana del libro a diventare la vera protagonista della lunga prima parte del volume, che oltre a farci conoscere le origini di Balistreri, prepara l'evoluzione della seconda parte, ambientata invece a Roma, tra il 1982 e il 1983, stessa epoca in cui abbiamo incontrato per la prima volta Michele in "Tu sei il male". Terminato il malloppone, la sensazione è quella di aver letto consecutivamente due libri diversi: il primo, un romanzo di ricostruzione storica dell'Italia e della Libia post-coloniali (i governi democristiani, il caso Mattei, gli intrecci Stato-Vaticano, il '68 italiano, i primi abbozzi di compromesso storico DC-PCI, e via dicendo), in cui il tono è romanticheggiante, quasi tardo ottocentesco/novecentesco, con tanto di caccia al leone, feste sull'isola di proprietà, madri tisiche e alcolizzate, arditismo per le strade del Cairo; il secondo, un noir d'attualità, tutto ambientato nel mondo dello spettacolo televisivo, molto vicino alle vicende berlusconiane di Ruby e del bunga-bunga (una fotografia di questi ultimi disgustosi vent'anni,  sebbene spostati indietro di trenta, un atto d'accusa nei confronti della decadenza culturale iniettata nelle nostre vene patrie dal Cavaliere, a partire dagli anni '80 peraltro...). Ciò che lega i due romanzi in uno, sono le vicende gruppo-familiari di Michele Balistreri, ancora una volta lo shakespeariano rapporto col padre, mai risolto, mai elaborato, mai digerito, ma forse impossibile da digerire. Tale rapporto è una vera e propria fissazione di Costantini, un'ossessione che è però al tempo stesso l'architrave su cui poggia tutto l'edificio narrativo della sua opera. In fin dei conti, se vogliamo aprirci ad una lettura psicoanalitica di questo romanzo, possiamo dire che tutta la storia nasce da una frattura nel patto narcisistico originario tra padre e figlio, cioè da una essenziale (ed esiziale) mancanza di riconoscimento affettivo-identitario reciproco tra padre e figlio. Tale frattura narcisistica primaria determina e muove tutta la catastrofe successiva, che è però, simultaneamente, catastrofe e apertura di senso, narrazione, vita. Immagino che in questa ottica, questo libro potrebbe molto piacere a Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, che in tema di rapporti col Padre ha già scritto molte (già troppe?) cose. Con Salvatore Balistreri (il padre) siamo infatti di fronte ad una Figura Simbolica di notevole spessore che sembra rappresentare per Costantini, prima che per il commissario Balistreri, le vere "radici del Male". E' questo padre infatti la vera causa della catastrofe: un padre narcisistico, completamente dedito ai suoi affari, alla sua impresa. Un padre-imprenditore che parassita la Terra-Madre che lo ospita, la Libia (sua moglie si chiama, guarda caso, Italia), incurante di qualsiasi valore etico, fino al punto di intrecciare rapporti con la Mafia. Costantini sembra dunque scrivere un sottotesto filigranato entro il quale ci vuole suggerire che le sorti attuali del nostro Paese vengano da una storia lontana: siamo cioè stati un paese fascista, e quel fascismo ha generato un presente arido come un deserto privo di etica, nel quale solo il narcisismo parassitario dell'alta finanza può proliferare, pianta grama su un gramo terreno. Ma, aldilà di questa lettura socio-politico-psicoanalitica, Costantini sa anche generare un intreccio thriller molto sapientemente approfondito, denso di tali e tanti colpi di scena che alla fine delle 702 pagine quasi ci stordiscono. E' quest'ultimo forse l'unico difetto di un libro ponderoso e complesso, che si fa gustare da tutte le nostre papille da una parte, ma che richiede grande attenzione e dedizione, dall'altra. Sto dicendo che la scrittura dell'Autore è molto fiammeggiante, coinvolgente, appassionata, ma anche un pò pantagruelica, e alla fine di tutta questa lunga storia molto appassionante comincia a urgerci anche la voglia del silenzio e del vuoto di un lago svedese in autunno inoltrato, di una poesia di Tranströmer, il "poeta del silenzio", per esempio. E con una poesia di Tranströmer mi sento così di terminare questa recensione, consigliando in ogni caso "Alle radici del male", in attesa del terzo capitolo della pachidermica trilogia di Costantini.

Motivo medievale
Sotto le nostre espressioni stupefatte
C’è sempre il cranio, il vuoto impenetrabile. Mentre
Il sole lento ruota nel cielo.
…………………………………….La partita a scacchi prosegue.
Un rumore di forbici da parrucchiere nei cespugli.
Il sole ruota lento nel cielo.
La partita a scacchi si interrompe sul pari.
…………………………………….Nel silenzio di un arcobaleno.
Tomas Tranströmer (da Songs of Spring. Quaderno di traduzioni. Marcos y Marcos, 1999)

     

giovedì 15 agosto 2013

The Conjuring, di James Wan (2013)


Nella cittadina di Harrisville, Rhode Island, arrivano gli investigatori del paranormale, di fama mondiale, Ed e Lorraine Warren, chiamati dai coniugi Perron, terrorizzati da oscure entità che infestano la fattoria nella quale si sono appena trasferiti insieme ai loro cinque figli. I Warren si troveranno ben presto invischiati nel caso più complesso ed inquietante della loro carriera...


Credo che gli appassionati del brivido perturbante debbano ringraziare James Wan il quale, come un paziente giardiniere, coltiva nella sua serra, con dedizione e somma perizia,  il genere cinematografico a noi caro. Nessuno come lui infatti, nel panorama del Perturbante filmico contemporaneo possiede mano più delicata e sapiente nel far nascere e crescere i fiori dell'horror mood. Come il suo collega Ti West, con cui può orgogliosamente andare a braccetto per le strade piene di caciara della comunità, e a testa molto alta, Wan genera talee e propaggini d'ansia che s'insinuano poi come liane di palude della Louisiana negli interstizi emaciati e infrolliti del nostro immaginario. Sceglie strumenti di casting impeccabilmente selezionati, come una Vera Farmiga che sembra un'orchidea nostalgicamente piegata dalle intemperie che scuotono il sottobosco; aggiusta il clima della serra-film ambientandolo negli anni '70, in una fattoria decrepita del Rhode Island; fertilizza il tutto presentandoci 5 tra bambini e ragazzi scelti con grande cura, che ci fanno assaporare il profumo di un'epoca infantile piena di angosce mixate con il gioco di mosca cieca; rinverdisce il genere haunted house iniettando incredibilmente nuova linfa in una pianta che sembrava ormai rinsecchita o marcia. Dopo averci regalato il primo "Saw" (2004) e poi i molto pensati e profondi "Dead Silence" (2007) e il più recente "Insidious" (2010) , ecco che il nostro sapiente giardiniere ci propone questo nuovo capitolo della sua poetica perturbante lasciandoci ancora una volta di stucco poiché  senza ricorrere a ingredienti pulp di sorta, è capace di generare angoscia sopraffina al solo tocco della cinepresa, soprattutto facendo "parlare" una "casa" mediante inquadrature di muri, quadri, vecchie sveglie, tende di trine, armadi, vecchi piatti da cucina, semplici suppellettili insignificanti per la maggior parte dei suoi colleghi cineasti, ma che lui sa trasformare magistralmente  in preziosi strumenti di tortura per i nostri fragili nervi. A mio avviso una delle sequenze più riuscite è per esempio quella in cui una delle figlie, dopo un climax sofisticato e sospensivo quant'altri mai, viene piano piano sollevata per i capelli dalla presenza maligna che infesta la fattoria, e poi sbattuta da una parte all'altra del salotto, mentre Ed  Warren e i suoi collaboratori, esterrefatti come noi, riprendono la scena con antiche cineprese super 8 (siano negli anni '70, cosa volete pretendere?). E' una sequenza in sé molto semplice, al limite dell'ovvio se non dello scontato, ma prende allo stomaco, tanto quanto quei due piccoli crocefissi che cadono traballando dal comò. Vi è poi quella carrellata da basso verso l'alto in cui è ripresa una delle bambine dei Perron che in cima al pianerottolo di una scala interna della casa, in piena notte chiama la sorella. Intorno a lei pareti di tappezzeria a fiori chiari e sulla sua testa la botola bianca dell'abbaino: la segnalo perché anch'essa molto semplice ma degna del Kubrick  di "The Shining" (1980), credetemi. Semplicemente agghiacciante perché capace di farci immaginare che da un momento all'altro possa succedere di tutto, sebbene poi, lì sul pianerottolo non succeda proprio nulla. E' da questa angolatura interpretativa che Wan è senza ombra di dubbio ormai un maestro conclamato, un maestro con la M maiuscola. Wan sa cioè evocare oggetti angoscianti in loro totale assenza, sa evocare davvero "fantasmi", ma quelli intrapsichici dello spettatore, sapendo che questi "fantasmi" sono "fantasmi delle origini" cioè nascono nella nostra infanzia. Wan infatti è anche maestro nel condurre in porto identificazioni tra l'Io dello spettatore e i personaggi, primi fra tutti i bambini. Siamo noi la bambina che scende le scale da sola nella notte di temporale, e Wan ci fa toccare la sua vulnerabilità e impotenza di fronte all'onnipotenza di un Ignoto Maligno che è insieme presente e assente, evocabile ma sempre nascosto: un Abisso che ci guarda e ci riguarda costantemente. E che dire poi di quella luce che prima era accesa sulle scale e che si spegne improvvisamente mentre la bambina (noi) sta per risalire in camera sua? Piccoli tocchi di pennello, leggere sforbiciate del solito delicato giardiniere, nato a Kuching, Malesia, il 26 febbraio 1977, cose leggere e apparentemente di superficie, ma che ci fanno intravedere il buio di una profondità che vorrebbe divorarci. Sonoro, luci, fotografia, fanno la loro parte nell'aprire il varco angoscioso che Wan ci indica, così come i silenzi, le pause, i vuoti, sempre densi di un pathos che ci incolla alla poltrona dal primo minuto all'ultimo. In quest'ottica, tutto sommato nel film i caratteri più "corposi", e mi riferisco soprattutto ai ruoli di Vera Farmiga (Lorraine Waaren), Patrick Wilson (Ed Warren), Ron Livingston (il padre), e Lili Taylor (la madre), seppur solidamente interpretati, scivolano in secondo piano, e giustamente. E' la casa, l'ambiente, ad assumere tutto il peso della storia. Si tratta di una casa-contenitore che risucchia e cattura chi pensa impunemente di abitarla senza pensare che i suoi muri trasudano storia e dolore. Si tratta di una sorta di orsacchiotto per bambini a rovescio: non rassicura il sonno del bambino stesso, ma lo riempie di incubi e terrore. La casa di Wan è cioè un oggetto transizionale winnicottiano capovolto, cioè un oggetto perturbante proprio nel senso in cui lo intendeva Freud nel suo famoso scritto (1919): un oggetto inanimato che prende vita, si anima e si fa portatore di angosce fino ad allora nascoste, ed ora risvegliate, come un "ritorno del rimosso" non gradito. Tutto questo è sottolineato da un crescendo di climax che si orienta gradatamente verso l'intensissima sequenza prefinale della possessione e dell'esorcismo, anch'essa naturalmente in stile Wan. Senza eccessi effettistici inutili, ma proprio per questo molto efficace anche perché interrotta da altre sequenze perfettamente condotte e cadenzate in montaggio alternato, in cui vediamo Drew (Shannon Kook), un collaboratore dei Warren, aggirarsi nel buio della terribile casa, alla prese con piccioni che volano impazziti tutt'intorno. Per tutti quanti i motivi descritti sin qui, ancora molti sentiti complimenti a James Wan, alla sua serra rigogliosa e viva, e molti auguri per un radioso futuro perturbante. "The Conjuring": certamente da vedere. 
Regia: James Wan  Soggetto e Sceneggiatura: Chad Hayes, Carey Hayes   Montaggio: Kirk. M. Morri Musiche: Joseph Bishara   Cast: Patrick Wilson, Vera Farmiga, Ron Livingston Lili Taylor, Mackenzie Foy, Joey King, Hayley McFarland, Shanley Caswell, Shannon Kook   Nazione:  USA  Produzione: Evergreen Media Group, New Line Cinema, Safran CompanyThe See    Durata: 112 min. 

domenica 4 agosto 2013

The Purge, di James DeMonaco, (2013)


In un futuro non lontano gli Stati Uniti sono una nazione risorta dopo una devastante crisi economico-sociale. Il segreto di questa incredibile rinascita è l'istituzione, da parte del Governo, di un evento rituale annuale, chiamato "The Purge", "Purificazione", che consiste in una notte in cui ogni crimine può essere commesso senza che vi sia alcuna conseguenza penale. Il metodo ha l'obiettivo di generare una specie di carnevale di sangue collettivo in cui la distruttività rimasta repressa per un anno intero trovi uno sfogo totale. E' la soluzione perfetta per avere carceri vuote essendo diminuita la criminalità comune. Durante una notte di "Purge", una famiglia benestante e blindata all'interno della propria casa protetta da sofisticati sistemi d'allarme, si trova a dover ospitare uno sconosciuto, a causa dell'ingenuità e del buon cuore di uno dei suoi figli minori. Tale anomala situazione genererà una serie di drammatici eventi per lo sfortunato nucleo familiare...

"The Purge" di James DeMonaco è la dimostrazione, scientifica e incontrovertibile, che l'architrave portante di qualsiasi edificio filmico è la sceneggiatura, e che senza adeguato lavoro di sceneggiatura non si va da nessuna parte, oppure al massimo si va qua e là barcollando. Ma una sceneggiatura nasce ovviamente dal soggetto, nucleo adamantino, materia prima dell'architrave estetica complessiva che la scrittura filmica sviluppa. Ed è proprio a partire dal soggetto che "The Purge" lascia alquanto perplessi, dal momento che allestisce un normale home invasion movie inserendolo in un contesto futuristico peraltro molto debole, ma comunque dissintono con i consueti codici di un home invasion. In questo senso, rispetto a questo film possiamo parlare di una scissione insanabile intrinseca al soggetto, che poi la sceneggiatura si porta dietro non riparandola o riducendola mai. La nostra attenzione è così sballottata tra la curiosità nell'esplorare questo scenario futuro che DeMonaco abbozza soltanto, e l'attenzione verso quale genere di Perturbante questo nuovo esempio cinematografico di invasione del gruppo familiare possa produrre. A mio avviso già questa scissione ab origine fa partire male la macchina e mal dispone lo spettatore, sia quello che ama l'home invasion movie, sia quello più interessato ai territori paranoidi del Perturbante sci-fi.  Tale andamento ambliopico del racconto è reso ulteriormente fragile dalla funzione narrativa centrale conferita al ruolo dei figli adolescenti dei Sandin. Sono le loro intemperanze adolescenziali la causa prima di tutte le disgrazie che accadranno alla famigliola, ma il tutto è trattato in modo molto poco profondo e verosimile, sia sul piano della caratterizzazione psicologica, sia su quello della semplice logica sequenziale: come diavolo è possibile che un padre di famiglia così ossessivo come James Sandin (un Ethan Hawke piuttosto amorfo e molto e catatonico anziché no) consenta alla figlia adolescente in preda a crisi ormonale totale, di ospitare il fidanzatino nella di lei cameretta neanche mezz'ora prima che scatti il coprifuoco? Non lo sa che le separazioni sentimentali a quest'età sono generatrici dei mostri stessi che i ragazzi stanno combattendo dentro di sé? Qualsiasi genitore di adolescenti lo sa, mentre i Sandin no. Credibile? Molto poco. Come poco credibile sul piano della fruizione di emozioni perturbanti è il gruppo degli invasori, specie di caricatura ibrida dei ben più solidi invasori di "The Strangers" di Bryan Bertino (2008), e dei raggelanti "bravi ragazzi" di "Funny Games" (Michael Haneke, 1997). Qui il tutto è molto soft, molto patinato, anche nei movimenti di macchina vellutati e lenti che seguono tutti i personaggi nel loro vagabondare per la casa nel corso della prima parte del film. La sequenza del primo contatto via videocamera di sorveglianza tra i teppisti mascherati e la famiglia Sandin vorrebbe spingere l'acceleratore facendo andare su di giri il motore della paranoia, ma non ci riesce e il motore continua a girare lento. Allo stesso modo non convincono le carrellate buie nei lunghi corridoi della casa che seguono James mentre va a cercare, pistola alla mano il senzatetto infiltratosi nell'abitazione, sebbene la colonna sonora di Nathan Whitehead cerchi vanamente di incupire oltremodo l'atmosfera coi suoi bassi insistiti. Inoltre l'inseguimento del fuggiasco all'interno della casa risulta a un certo punto persino monotona, occupa troppo spazio per una pellicola di 85 minuti di durata, e ha mosso in me più di uno sbadiglio. Banale è anche l'espediente tecnico del robottino semovente di uno dei figli, che ricorda, in modo comicamente involontario, la macchinina radiocomandata del film "Mamma, ho perso l'aereo" di Chris Columbus (1990). In sintesi a me questo "The Purge" è parso un gran pasticcio a partire dal soggetto, pasticcio che non muove nessuna angoscia profonda da esplorare, e neppure alcuna riflessione di natura etico-politico-sociale di sorta, sebbene di materiale sottotestuale se ne poteva infilare a valanghe nella filigrana di una simile storia. Basti pensare al tema della dell'angoscia attuale determinata dalla crisi economica globale, che è poi un aspetto anche importante del soggetto stesso, ma che viene subito appallottolato come carta straccia e gettato nel cestino sotto la scrivania. In questo senso DeMonaco appare miope e solo bramoso di buttare sul fuoco molta, troppa carne, che alla fine risulta tutta malcotta o bruciata. Poco da dire sul resto del cast, con i due figli (Max Burkholder, Charlie Sandin e Adelaide Kane, Zoe Sandin) assai stereotipati come adolescenti, e la madre Mary (Lena Headey), a fare da pallide spalle ai padre. Si salva il senzatetto cacciato dalla banda di giovani tepopisti (Edwin Hodge) personaggio abbastanza espressivo e che prende spessore via via che la pellicola si dispiega sotto i nostri occhi, ma che certo non può sostenere sulle sue spalle tutto il pathos di un film che nasce di suo senza pathos. Avrete dunque capito che dopo tutte queste forse anche troppo lunghe considerazioni, suggerisco di dedicarsi ad altri più interessanti passatempi estivi, che non alla visione di questo film.       

Regia: James DeMonaco Soggetto e Sceneggiatura: James DeMonaco Fotografia: Jaques Joufret   Montaggio: Peter Gvozdas  Musiche: Nathan Whitehead  Cast: Lena Headey, Ethan Hawke, Edwin Hodge, Max Burkholder, Tony Oller, Rhys Wakefield, Adelaide Kane, Tom Yi    Nazione: USA   Produzione: Blumhouse Productions, Platinum Dunes, Universal International Pictures  Durata: 85 min.