Vi propongo un lungo trailer di "Rubber", nuovo e atteso film del regista francese Quentin Dupieux. Il trailer è interessante e, in effetti molto "beckettiano". Staremo a vedere, poi, com'è il film.
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domenica 27 febbraio 2011
mercoledì 23 febbraio 2011
Monsters, di Gareth Edwards (2010)
Sei anni prima degli avvenimenti narrati nel film, una sonda della NASA di ritorno da una missione spaziale, si schiantava in territorio messicano con il suo carico di forme di vita aliene. Nei giorni successivi all'impatto comparivano in quelle zone nuove forme di vita sotto forma di funghi fosforescenti ; metà del territorio messicano venne messo in quarantena e considerato zona infetta. Oggi in quelle zone si continua a combattere, con i militari americani e messicani che faticano a contenere "le creature". In questo scenario da apocalisse post-bellica, un giornalista americano (Andrew) deciderà di accompagnare una turista (Samantha), figlia del suo editore, traumatizzata dagli scontri con gli alieni, oltre il confine con gli USA. Il loro viaggio nella giungla centroamericana riserverà loro tuttavia molte sorprese...
"Monsters", dell' inglese Gareth Edwards, parte male e finisce peggio, potremmo dire, mentre tenta di immergere lo spettatore in un improbabile horror-sci-fi scritto coi piedi e condotto in modo ancora più pedestre. Diciamo subito, per dare la stura alla lista di dolenti note che leggerete qui, che i "mostri" di cui si fregia il film, nel magniloquente titolo di testa, non sono altro che caricature molto puerili di cio' che abbiamo già visto (ma molto meglio rappresentato) altrove. Trattasi infatti di grossi polipi neri attraversati da inutili venature fosforescenti, di cui vediamo un tentacolo fuoriuscire da un lago, al buio, nientemeno che dopo un'ora di film. In verità Edwards ci aveva mostrato un alieno all'inizio della pellicola, ma in modo sbilenco e con inquadrature che scimiottavano "Cloverfield" (2008) in modo quasi bambinesco. Dopo questa iniziale, fugace apparizione, ambientata nella zona di quarantena e di guerra tra il Messico e gli Stati Uniti, Edwards si disinteressa completamente dei mostri del titolo, nonché di noi spettatori, concentrandosi sulle figure del fotoreporter e della figlia del suo editore (due spenti Whitney Able e Scoot McNairy), dispersi nella giungla centroamericana alla ricerca di una via di fuga che li riporti alla loro "home sweet home" statunitense. La sceneggiatura brancola nel buio come i protagonisti, soprattutto nella parte centrale, tutta imperniata nel noioso, immobile racconto dei due che non riescono a prendere il traghetto per gli Stati Uniti, obbligandoli a dirigersi nella foresta , come in "Jurassic Park" (1993). Possiamo poi stendere il solito pietoso velo di silenzio sui dialoghi tra Andrew e Samantha: dialoghi assolutamente sterili, diluiti fino all'esasperazione, ammiccanti verso sviluppi erotico-sentimentali che non giungono mai a compimento, una specie di ejaculatio ritardata che non interessa proprio nessuno se non il regista e la sua crew. L'unico elemento interessante del lungo e -si fa per dire- avventuroso viaggio dei due sprovveduti e fantozziani protagonisti, risulta essere la scenografia naturalistica che ricostruisce molto bene l'ambiente di una catastrofe naturale appena abbattutasi sui luoghi del film. Infatti ci sembra spesso di assistere a un documentario sugli effetti devastanti dell'uragano Katrina, più che a un film in qualche modo perturbante. Il film e' in sintesi terribilmente presuntuoso nel suo voler rielaborare il tema del "mostro extraterrestre", senza averne nessuna capacita', ne' narrativa, ne' sul piano del puro intrattenimento, o dell'uso ad hoc dell' effetto speciale (anche fine a se stesso, per carità), che non esiste e non si da' in nessun momento della pellicola: quando si ha un budget risicatissimo come nel caso di Edwards, occorre amministrare la pecunia in modo equilibrato, ma ugualmente efficace, come ha fatto per esempio Toby Wilkins in "Splinter" (2008). Qui siamo invece lontani mille miglia da certi prodotti low budget o anche indie in grado di innovare e stupire proprio per una loro capacita' inventiva svincolata dal vile denaro. "Monsters": grande pasticcio cinematografico che saccheggia ottime idee altrui senza produrre nulla di buono. Da evitare. Regia: Gareth Edwards Sceneggiatura: Gareth Edwards Fotografia: Gareth Edwards Montaggio: Colin Goudie Musica: Jon Hopkins Cast: Whitney Able, Scoot McNairy Nazione: Gran Bretagna Produzione: Vertigo Films Anno: 2010 Durata: 94 min.
domenica 20 febbraio 2011
Riflessioni di un autore esordiente
Fa un certo effetto ricevere una mail dal tuo editore nella quale ti dice che il tuo libro è in tipografia e sarà distribuito i primi di marzo. Un editore "vero", poi, cioè non di quelli "a pagamento", ma che mi ha addirittura pagato i diritti d'autore (una miseria, ma comunque mi ha pubblicato e mi regalerà diverse copie omaggio). Le "riflessioni" di cui parlo nel titolo del post, riguardano più che altro alcuni dubbi che sorgevano nel mio animo, relativamente al parlare di questa novità ai miei lettori del blog: parlare di un proprio libro che sta per essere pubblicato, significa infatti, volenti o nolenti, fare pubblicità a se stessi, nonché ai propri prodotti editoriali, il che non mi sembra rispettoso nei confronti, appunto, di chi passa di qui, nel senso che se ne sfrutta l'attenzione e fiducia accordata per parlare "narcisisticamente" delle proprie cose, e (peggio che andar di notte) indurre i lettori a comprare. Altro discorso è quello di chi scrive gratuitamente e pubblica da sè, mettendo online (in e-book, per esempio) le proprie opere. Encomiabile (l'ho fatto anch'io, e trovate qui l'e-book da scaricare gratis. E' un saggio di psicopedagogia psicoanalitica, un pò noioso forse, ma può interessare - soprattutto chi fa l'insegnante, per esempio). Adesso invece si tratta di una cosa diversa: è un libro "vero", cartaceo, reperibile in libreria, che costa 16 euro, e si compone di 272 pagine. Ha un codice ISBN, una prefazione di un illustre collega, un indice, una quarta di copertina, e una breve presentazione dell'autore. Come vedete la mia timidezza fa sì che non riveli ancora nulla, né il titolo, né l'argomento (anche se ne avevo un pò già parlato nei commenti, qualche tempo fa), nè la casa editrice. Desideravo semplicemente condividere con chi mi legge questi timidi pensieri circa "l'esser pubblicati", nonché riflettere su significato e opportunità di parlare di queste trasformazioni esistenzial-editoriali su un blog. Per esempio non so ancora nemmeno se parlerò del libro, quando uscirà. O se ne posterò la copertina. O se sarò contento che qualcuno dei miei amici del web lo vorrà recensire sul suo blog. Boh. Stiamo a vedere che succede. Intanto desideravo aprire un piccolo dibattito qui. E ditemi quindi voi che ne pensate (se ne avete voglia).
venerdì 18 febbraio 2011
Io e te, di Niccolò Ammaniti (2010)
Anno: 2010 Editore: Einaudi - Collana "Stile Libero Big" Pagine: 121
ISBN: 9788806206802 Euro: 10,00
Ho deciso di segnalare l'ultimo libro di Niccolò Ammaniti, poiché penso che nel panorama della letteratura italiana contemporanea questo autore sia dotato di un talento narrativo e immaginifico di rara intensità. La scrittura di "Io e te" appare infatti fresca, ariosa, capace di farci entrare nell'anima di un ragazzino di quindici anni e di farci sentire la levità del pensiero di un adolescente, come mai mi era capitato di leggere in un romanzo. Una levità insostenibile, naturalmente, come la kunderiana "leggerezza dell'essere". "Io e te" è infatti un libro che, a un primo, fuggevole sguardo, sembra una cosina da liceali timidi e complessati. Questo accade fino alla penultima pagina: dopodiché il narratore ti sferra una mazzata improvvisa proprio nell'ultima paginetta, il cui contenuto ovviamente non rivelo. L'ultima pagina diventa quindi quella più fondamentale del libro, nel senso che getta luci profondissime su tutto ciò che viene narrato precedentemente, chiudendo l'arco di una prosa che assume senso, in modo epifanico. Freud direbbe, probabilmente, che ci troviamo di fronte all'espressione letteraria della cosiddetta Nachtreglichkeit, cioè della "comprensione a posteriori" dei fatti e delle esperienze che ci accadono, e che questa è una caratteristica essenziale della nostra mente. "Io e te" sembra un inno al Tempo-della-Vita, al suo tragico, continuo farsi e disfarsi attraverso infiniti momenti di Nachtreglichkeit. Notevole poi il fatto che Ammaniti scelga proprio l'adolescenza, momento di destrutturazione formativa dell'identità, per parlarci di questo fenomeno insito nel modo in cui noi tutti percepiamo il nostro tempo vissuto. E l'autore è egregiamente capace di rendere mediante il "tempo raccontato" il "tempo vissuto" di un quindicenne alle prese con il suo affacciarsi contorto nell'età adulta. L'effetto dell'ultima pagina è tuttavia davvero straniante (fino a sfiorare il perturbante, soprattutto perché immette all'interno dei legami familiari un elemento profondamente oscuro e imperscrutabile che sconfina con il tema della "malattia"). "Io e te", in sintesi, è un romanzo che occorrerebbe adottare come testo obbligatorio nei licei di tutta Italia, un' Italia che sulla soglia dei suoi 150 anni, ha perso completamente ogni tipo di sensibilità verso i minorenni (e le minorenni), cioè proprio nei riguardi di ciò che rappresenta uno sguardo verso il suo futuro, come le cronache politiche ci obbligano purtroppo a constatare ogni giorno. Da leggere per riflettere sull'oggi e sul domani.
lunedì 14 febbraio 2011
The Loved Ones, di Sean Byrne (2009)
"The Loved Ones", dell'australiano Sean Byrne, è un piccolo capolavoro che bisogna, e subito, consigliare agli amanti dell' unheimlich cinematografico. Su questa linea concordo pienamente con la recensione di Elvezio Sciallis che a sua volta invita tutti a correre a vederlo, ma mi ritrovo anche in alcune considerazioni scritte da Eddy, che è invece più severo con il film. Per essere più chiaro: "The Loved Ones" non è un capolavoro (ho parlato infatti di "piccolo capolavoro"), soprattutto perchè risente di alcuni buchi di sceneggiatura che potevano essere evitati (per esempio come fa Brent-Xavier Samuel a neutralizzare in due minuti, gli energumeni lobotomizzati nella botola del salotto? E che è, Superman?). Tuttavia questi "buchi" passano in un baleno in secondo piano, di fronte a un andamento narrativo gustosissimo, che ti prende per il bàvero e ti tira dietro dal primo minuto di pellicola fino all'ultimo. Io penso che questo effetto quasi ipnotico del film si fondi essenzialmente sulle performance della protagonista, Lola, interpretata da una eccellente Robin McLeavy, grandiosamente folle, e il cui sorriso Durbans quanto agghiacciante la fa assurgere immediatamente a "princess" del mio personale Olimpo delle eroine horror. Lola è una vera jena assassina, che fa le scarpe a qualsiasi Freddy Kruger che ci possa venire in mente, e la coppia padre-figlia messa in scena da Sean Byrne è di una originalità estetica assolutamente rara nel panorama cinematografico horror odierno. Mi spingo a dire che alcune sequenze possiedono tratti addirittura felliniani, come quella in cui Lola cammina col suo vestito rosa e un coltellaccio in mano, in mezzo ai campi, mentre sullo sfondo campeggiano alti tralicci sfocati dalla geniale e pop-artistica fotografia di Simon Chapman. Lola è una specie di Giulietta degli Spiriti degenerata e perversa, meravigliosa nel suo incedere distruttivo, aliena come un extraterrestre determinato a distruggere la razza umana. Anche il suo contraltare Brent, scelta perfetta da parte del regista, a rappresentare il tipico liceale bello e traumatizzato (in un incidente stradale ha causato la morte del padre), sebbene anche qui la sceneggiatura traballi un pò, a mio avviso, nel voler a tutti i costi colorare del nero del trauma una storia che non ne sentiva affatto il bisogno. Nel suo complesso tuttavia "The Loved Ones" mette in scena un sadismo gore-oriented assolutamente ben filmato, ritmicamente scandito da viraggi improvvisi e colpi di scena che fanno sobbalzare, nonchè interpretato egregiamente dai tre principali attori sulla scena. E' auspicabile che dopo questa notevole, originale, gustosa prova, questo regista nato a Hobart, in Tasmania, continui ad elaborare altrettanto bene la sua poetica. E se non ci deluderà in questa nostra aspettativa, credo che, sulla base di "The Loved Ones", Byrne in futuro ce ne farà vedere delle belle. Film da vedere senza indugi. Regia: Sean Byrne Sceneggiatura: Sean Byrne Fotografia: Simon Chapman Montaggio: Andy Canny Cast: Xavier Samuel, Robin McLeavy, Jessica McNamee, Richard Wilson, Victoria Thaine, John Brumpton, Fred Whitlock Nazione: Australia Produzione: Ambience Entertainment, Madman Entertainment Anno: 2009 Durata: 84 min.
sabato 12 febbraio 2011
The Rite, di Mikael Håfström (2011)
Michael Kovak, un giovane seminarista americano che sta studiando per diventare prete, si trova nel bel mezzo di una crisi di fede religiosa. Tormentato da mille dubbi, trova la sua occasione per trovare e dimostrare la propria fede quando dal Vaticano viene incaricato di seguire un presunto caso di possessione demoniaca...
Confesso che mi sono accostato a "The Rite" con una certa malavoglia, poichè questa insistenza modaiola in tema di esorcismi e demoni mi sta largamente venendo a noia. Non bastavano "Devil" (2010), "The Last Exorcismus" (2010) e da ultimo "Exorcismus: the possesion of Emma Evans" (2010) a rimpolpare un sottogenere che già di suo non è che avesse così tanto bisogno di essere nutrito. Forse sull'onda di questa moda recente, tutta da indagare, tutta da spiegare, ecco che il regista svedese Mikael Håfström, dopo aver girato l'interessante "1408" (2007), si butta nel demoniaco e vuol dire la sua a riguardo. Nonostante la malavoglia, ma visto che Håfström proveniva da un buon prodotto artistico-perturbante come appunto "1408", ho provato a dargli ascolto. Quello che ho ascoltato tuttavia non mi ha fatto certo gridare al miracolo, nè tanto meno pensare di essermi imbattuto in qualcosa di particolarmente innovativo, rispetto al sottogenere in quanto tale. Durante tutta la visione, la domanda fondamentale che mi girava in testa è stata la seguente: è sufficiente imbarcare sulla nave un calibro da novanta come Anthony Hopkins per generare una storia memorabile, non dico come "Il silenzio degli innocenti", e neanche come "L'Esorcista", ma comunque di un certo peso? Al termine della visione la risposta a tale domanda è stato un deciso e secco "NO". Al di là di Hopkins, neanche il belloccio Colin O'Donoghue, nei panni di Michael Kovak, il giovane seminarista, mi ha convinto, così incastrato in una sceneggiatura imbustata, secca, che lo obbliga a volare dagli States al Vaticano, come se niente fosse. La credibilità di tutto l'impianto narrativo si avvicina al manzoniano verisimile, ma lo tocca solo tangenzialmente, e in rare occasioni. E questa è una grave pecca della sceneggiatura, a mio modesto avviso. Ma credo che ciò che faccia affondare completamente l'intento di Håfström a rielaborare in modo originale il tema della "possessione", sia il volerlo inserire in un contesto odierno globalizzato: ad esempio quelle del corso di formazione in Vaticano, con i filmati degli indemoniati e i vari supporti tecnologici messi in scena, all'interno di una sala conferenza patinata che sembra l'aula del parlamento europeo, sono sequenze che distruggono semplicemente ogni pathos demoniaco o similare. Giunge presto, cioè, la nostalgia della stanzetta di Regan, e soprattuto di preti dalla personalità potente e come scolpita sulla pietra, tipo quella di Padre Karras (Jason Miller) o di Padre Merrin (Max Von Sydow). Hopkins è bravo, niente da dire, a prodursi qui come ponte tra noi miseri mortali e il Maligno, ma assorbe, potremmo dire, tutta la luce del film, a discapito di tutto il cast, ma in particolar modo della storia stessa, che non inietta brividi significativi nelle vene dello spettatore (qualche vecchio chiodo vomitato da una giovane donna, è poi così perturbante, oggigiorno?). Le sequenze del rito esorcistico, sono poi delle grottesche caricature di quelle de "L'Esorcista". Insomma, questo "The Rite", risente troppo dell'ombra derivativa del prototipo mitologico delle origini: Linda Blair sembra guardare di sottecchi la cinepresa di Håfström, facendole sberleffi, e rendendo tutta la vicenda quasi patetica. Sul piano della pura estetica, il film si fa certo guardare: ottime le luci, le musiche, il make up, gli effetti speciali, le performance del cast. Tuttavia il film rimane sempre in sospeso tra debiti insoluti con "L'esorcista" di Friedkin, e l'obiettiva difficoltà a dare emozioni che sottolineino una sua specificità rispetto al modello. "The Rite": da vedere solo per ragioni filologiche, ma senza grandi entusiasmi.
Regia: Mikael Håfström Sceneggiatura: Michael Petroni, Matt Baglio Fotografia: Ben Davis Montaggio: David Rosenbloom Musica: Matt Baglio Cast: Anthony Hopkins, Colin O'Donoghue, Alice Braga, Ciarán Hinds, Toby Jones, Maria Grazia Cucinotta, Rutger Hauer, Chris Marquette, Franco Nero, Marta Gastini, Ben Cheetham, Nico Toffoli, Arianna Veronesi, Rosa Pianeta Nazione: USA Produzione: New Line Cinema, Contrafilm, Fletcher & Company Anno: 2011 Durata: 114 min.
sabato 5 febbraio 2011
I spit on your grave (remake, unrated), di Steven R. Monroe (2010)
Jennifer, una giovane e bella scrittrice, viene violentata e torturata da un gruppo di bifolchi all'interno della sua casa di campagna in mezzo ai boschi della Lousiana. Si salva fortunosamente gettandosi in un gelido torrente, e perché viene data per morta.
Sopravviverà, e tornerà a far visita ai suoi assalitori in cerca di vendetta...
Questo "I spit on your grave" di S.R. Monroe, remake dell'omonimo film di Meir Zarchi (1978, noto in Italia col titolo di "Non violentate Jennifer"), si mostra come felice novità nel panorama cinematografico perturbante. Il sottogenere cui fa riferimento è naturalmente quello del rape-and-revenge, nel quale Monroe è tuttavia capace di iniettare pesanti dosi di gore. Dosi da cavallo, potremmo dire, soprattutto nell'ultima mezz'ora di pellicola, dal momento che il tema della "vendetta" non è certo trattato con sottogliezza filosofica. Da questo punto di vista il film di Monroe omaggia rispettosamente l'originale, a sua volta molto violento per essere stato girato negli anni '70. La novità di questo remake sta nel calcare la mano, in modo deliberato, sulla crudeltà della vendetta di una scrittrice donna, cioè di una figura intellettuale, umiliata e torturata da un branco di villici abitanti della provincia americana. Assistiamo cioè, a una crudeltà femminile, e che potremmo definire postfemminista, verso la quale lo spettatore è subito portato a fare il tifo, tanto i caratteri del maschile risultano odiosi, in qualsiasi funzione essi siano declinati (basti pensare alla figura dello sceriffo, personaggio davvero disgustoso e assolutamente isomorfo al ruolo della banda di assalitori). "I spit on your grave" è un film crudo, diretto, molto viscerale, ma al contempo girato con cura e attenzione ai particolari, sia visivi che narrativi . La violenta dinamica psicologica che caratterizza la relazione tra vittima e carnefice, nella prima parte del film, è inoltre rappresentata con grande acume e realismo emotivo, al punto da ricordare lo spirito darwiniano di un Sam Pekimpah. Risultano infatti molto interessanti a tale proposito, gli ampi movimenti di macchina alternanti inquadrature raso terra a primi piani sghembi. La sociopatia fallico-perversa del gruppo dei maschi è poi caratterizzata da una notevole attenzione antropologica, come da tempo non si vedeva in un film di questo tipo: la sequenza dello stupro di gruppo, nel bosco, è ad esempio tormentosamente inquietante e supera di molto, sul piano delle poetica perturbante, altri remake di rape-and-revenge film, come ad esempio il craveniano di "The Last House on the Left" (2009). La crudeltà umana nei confronti di una donna, ma in generale di una vittima inerme, nelle sequenze dello stupro, è resa ancor più tagliente dalla presenza metafilmica della videocamera digitale che uno del branco utilizza durante le scene della tortura. Ma non abbiamo ancora parlato della protagonista femminile, Sarah Butler, cui va un plauso particolare per l'intensità di un'interpretazione di cui non sarà certo facile dimenticarsi. Jennifer-Sarah Butler assurge cioè a figura mitica di amazzone vendicativa, come contraltare inconscio-femminile di un abuso di potere maschile cieco, ambiguo e traumatogeno. Il trauma-morte di Jennifer determina infatti la sua rinascita come figura trasfigurata e onnipotente-castrante nei confronti del potere maschile. La sceneggiatura (dello stesso regista) sottolinea con molta precisione questo elemento trasfigurante: assistiamo quindi, gradualmente, alla trasformazione di una scrittrice nerd ed intellettuale, in cacciatrice che frequenta i boschi in cui è stata lei, cacciata per prima come vittima. Il pregio maggiore della sceneggiatura e di tutto il film sta appunto nella intensa e tragica resa narrativa di questo viraggio esiziale, che ci trasporta dal sopruso alla vendetta come esito passionale inesorabile. In questo film di Monroe (come in quello di Zarchi) non c'è infatti alcuno spazio per il perdono, cioè Monroe sembra volerci dire che abitiamo un'epoca culturalmente così regredita e anomica, da far apparire la legge biblica del taglione come un normale corollario esistenziale. Superata la soglia della "Legge del taglione", la logica della vendetta ha quindi campo libero e invade tutto come acqua che s'infiltra in ogni fessura, senza più confine: l'odio produce odio e lo fa dunque proliferare. L'uso del gore nell'ultima parte del film ha quindi la chiara funzione di sottolineare questo carattere proliferativo esponenziale dell'odio come passione caratteristica dell'umano. E si tratta di un gore piuttosto penetrante e brutale, molto più di certi spunti ormai banali di qualche risaputo capitolo di "Saw" (si pensi solo alla sequenza della sospensione sulla vasca da bagno nella quale Jennifer discioglie soda caustica; oppure a quella dei corvi che si nutrono del volto insanguinato di uno degli stupratori). Un gore che spiazza alquanto, soprattutto perchè arriva dopo molte sequenze relativamente distensive. "I spit on your grave", questo denso e tetragono remake del mitico film di Zarchi, merita dunque, senza dubbio, tutta la nostra attenzione. Regia: Steven R. Monroe Sceneggiatura: Steven R. Monroe Fotografia: Neil Lisk Musica: Corey A. Jackson Interpreti: Sarah Butler, Chad Lindberg, Daniel Franzese, Rodney Eastman, Jeff Branson, Andrew Howard Nazione: USA Anno: 2010
venerdì 4 febbraio 2011
Tentation de Saint Antoine (Grünewald) (1510-1516 circa)
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Qualche giorno fa mi è tornata tra le mani una piccola riproduzione di questo capolavoro dell'orrido artistico, che è la "Tentation de Saint Antoine" (Retable d'Issenheim, Musée d'Unterlinden - Colmar) di Mathis Gothart Nithart, meglio noto come Matthias Grünewald, pittore di Wurzburg, Germania, attivo tra la fine del 1400 e gli inizi del 1500. La trovo decisamente perturbante, e quindi ve la sottopongo.
Sentite poi come il critico H. A. Schmid descriveva la poetica pittorica del nostro, già agli inizi del '900: "
" A Grünewald non interessano che l'espressione e il movimento. La norma, la misura, le proporzioni della figura umana (che Dürer perseguì per tutta vita) non lo hanno certamente interessato molto. le sue forme fisiche sono per lo più brutte, malaticce, impossibili o almeno fuori dall'ordinario, anche quando non si sacrifichi niente all'espressione. I volti sono asimmetrici, quasi in ogni dipinto si riscontrano arbitrii di disegno che hanno una giustificazione artistica; oppure tralascia il modellato, come avviene negli schizzi. Già questo fatto, e l'arbitrarietà delle proporzioni, dimostrano che l'artista non si è lasciato turbare da ciò che è anormale " | |
(H. A. Schmid, Die Gemälde und Zeichnungen von Matthias Grünewald, 1911) Matthias Grünewald: "Tentation de Saint Antoine", particolare. |
mercoledì 2 febbraio 2011
Altitude, di Kaare Andrews (2010)
Addie è una bella diciottenne fresca del suo brevetto di pilota d'aerei. Ha perso la madre in un terribile incidente aereo dieci anni prima e suo padre le ha proibito di salire a bordo di qualsivoglia velivolo volante, tantomeno pilotarlo. Ma la voglia della ragazza di volare oltre i suoi problemi è tanta, così, sfidando il divieto paterno, decide di portare quattro suoi amici (Cory, Ming, Sal e Bruce) a un concerto rock con un bell'otto posti bimotore. Il volo comincia bene, ma un guasto all'altimetro e una tempesta in arrivo costringe Addie a entrare in un enorme banco di nebbia che pare senza fine. E in quella nebbia sembra esserci qualcosa di mostruoso che li attende...
A dispetto della locandina che ritengo tra le più interessanti ed evocative del cinema perturbante degli ultimi anni, "Altitude" si dispiega sotto gli occhi dello spettatore in modo plumbeo e ingessato, minuto dopo minuto di pellicola. Dopo circa mezz'ora di visione viene da domandarsi che cosa esattamente si sta guardando, visto che la sceneggiatura dissemina indizi che orientano al soprannaturale fin dalle prime sequenze, attraverso rimandi che ricordano le atmosfere di un buon vecchio "Creepshow" (1982), riesumato per l'occasione da un regista peraltro autore di comics di vario genere, come dimostra il suo curriculum. Il "soprannaturale" in effetti arriva, ma solo nell'ultimo quarto d'ora di un film per il resto narrativamente pietrificato all'interno di un bimotore in perenne, inverosimile avaria. Andrews insiste sui primi piani dei protagonisti, facce rese metalliche come la fusoliera dell'aereo da turismo, attraverso l'uso di una fotografia gelida (di Norm Li) che cancella quel poco di pathos circolante. Tale insistenza diventa chiaramente un pietoso paravento dietro cui il regista pensa di poter nascondere l'inconsistenza assoluta di una storia che non coinvolge o spaventa affatto. L'uso insistito dei primi piani è infatti un espediente estetico che può diventare molto potente, se utilizzato da mani accorte, come ad esempio quelle di Adam Green in "Frozen" (2010). Qui serve soltanto a sottolineare quanto si sia sciolto il mascara della fascinosa Jessica Lowndes (Sara, la protagonista e pilota del velivolo), durante una delle sue improbabili crisi di pianto. Dialoghi e interazioni tra i cinque teenagers intrappolati sul maledetto bimotore, sono semplicemente risibili, soprattutto perchè avrebbero la presunzione di sembrare realistici. Ma è comunque la sceneggiatura di Paul A. Birkett, a produrre un disastro di proporzioni anaudite, che si mostra ai nostri occhi sequenza dopo sequenza (cosa peraltro prevedibile dopo le precedenti prove di un writer davvero mediocre: vedi gli inguardabili "Escape Velocity" - 1998 e "Con Express" - 2002). Diciamo semplicemente che Birkett è capace di inscatolare la noia allo stato puro all'interno di un aereo che vola tra il Canada e gli Stati Uniti, per poi pretendere di spaventarci collocando un monstrum anfibio pseudolovecraftiano su una nuvola, in cielo, pensando magari di essere originale perchè capovolge l'estetica e l'ambientazione di "20.000 leghe sotto i mari", spostandole verso l'alto. Birkett tuttavia non è Jules Verne, e occorre che al più presto qualcuno glielo dica, altrimenti, senza accorgersene, un bel giorno si ritrova chiuso in un manicomio. Dal canto suo Andrews, dopo questo pastrocchio (anche la colonna sonora riesce a risultare scissa dalle immagini), farebbe decisamente meglio a tornare ai suoi fumetti, ambito nel quale saprà di certo fare di meglio. Film da segnalare e recensire semplicemente per indicare di evitarne con cura la visione
Regia: Kaare Andrews Sceneggiatura: Paul A. Birkett Fotografia: Norm Li Montaggio: Chris Bizzocchi Musica: Jeff Tymoschuk Cast: Jessica Lowndes, Julianna Guill, Ryan Donowho, Landon Liboiron, Mike Dopud, Jake Weary, Ryan Grantham, Chelah Horsdal, Michelle Harrison Nazione: Canada, USA Produzione: Anchor Bay, Escape Factory, Foundation Features, Thin Air Productions Anno: 2010 Durata: 90 min.
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