Vi propongo il mio intervento di commento a "Them", di David Moreau e Xavier Palud, di cui ho proposto una lettura psicoanalitica, alla rassegna cinematografica "Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi", venerdì 26 ottobre, presso la Biblioteca Comunale di Vittorio Veneto, dove sono stato invitato da un gruppo di gentilissimi e ospitalissimi colleghi. E' stata un'esperienza molto piacevole e interessante (il pubblico si è un pò spaventato, ma il dibattito successivo ha stemperato le angosce circolanti).
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Il trauma adolescenziale e la sua
rappresentazione narrativa attraverso il cinema “horror”: una lettura di
“Them”, di David Moreau e Xavier Palud (2006).
Biblioteca Comunale di Vittorio Veneto
Rassegna Cinematografica “Adolescenza,
Cinema e Psicoanalisi” –
26 ottobre 2012
“Al principio è la relazione”
Martin Buber (Il Principio Dialogico e altri saggi, 1959)
L’adolescenza è un periodo di transizione esistenziale
portatore di valenze fortemente traumatiche. Il mutamento fisico-sessuale
modifica infatti in modo radicale l’immagine che il ragazzo aveva di se stesso
fino a quel momento, ma questa modificazione investe anche l’assetto
relazionale e il rapporto genitori-figli. Di fronte allo sguardo dei genitori
il figlio adolescente è diventato più “forte” e rispetto a quando era un
bambino, non gli si può dare un limite solo attraverso un benevolo
“scappellotto”. La sessualità intesa come occorrenza traumatica sottolinea
inoltre il cambiamento catastrofico rappresentato, sul piano degli affetti, dal
graduale ma inesorabile processo di separazione-individuazione. Il ragazzo deve
abbandonare il contenitore infantile nel quale la fantasia onnipotente era
fonte di rassicurazione, per volgersi verso nuovi compiti di sviluppo, verso
nuove responsabilità. I cambiamenti sul piano cognitivo, nonché quelli relativi alla percezione del tempo cronologico, fanno sì che
l’Io dell’adolescente percepisca poi l’infanzia come un “paradiso perduto”. Per
certi versi l’idea di “infanzia” nasce
proprio durante l’adolescenza, che può quindi essere vista come un
periodo della vita in cui si manifesta per la prima volta quella nachtreglichkeit su cui Freud è più
volte tornato: una scoperta rivoluzionaria, “copernicana” (Pellizzari, 2008), e
appunto per questo, ancora una volta, traumatica.
L’adolescente ha dunque bisogno di trovare una
rappresentazione narrativa di questo momento così complesso, ha cioè bisogno di
“sognare” il suo trauma, di “metterlo in scena”, e non semplicemente di
viverlo, sentendosene travolto e annichilito: non ci sono più le fiabe a
confortarlo. Le fiabe hanno fatto il loro tempo, come l’infanzia. Le esperienze
emotive dell’adolescente, in risonanza con le esperienze passate, riattivano
tuttavia quei nuclei ove l’Io non ha potuto esplicitare una funzione
rappresentativa “sufficientemente buona”, né sperimentare una “grammatica degli
affetti”, in quanto pulsioni, sensazioni, sentimenti rivolti ad oggetti ancora
parziali, rimangono nel caos di un indistinto rapporto Sé-oggetto. La delicata
e complessa opera trasformativa del processo di simbolizzazione, rischia di
essere travolta dall’emergere di quei nuclei primitivi, poiché la psiche
dell’adolescente non è ancora in grado di elaborarli compiutamente. Il ragazzo
fa quindi ricorso alle difese più immediate, come l’evacuazione attraverso
l’agito, perché non è in grado di affrontare il trauma che sta vivendo. Secondo
Ogden (2009), il trauma determina infatti un funzionamento mentale rigido, con
aspetti non mentalizzati che necessitano di una “funzione sognante”. Si tratta
di “sogni non sognati”, cioè di esperienze emotive che non possono essere
trasformate, simbolizzate, in quanto insopportabilmente dolorose, ma che permangono
nell’individuo sottoforma di sofferenza patologica.
Il genere cinematografico cosiddetto “horror”, può
fornire all’adolescente una cornice rappresentativo-narrativa che “contiene”
gli effetti traumatici dei cambiamenti esistenziali che sta vivendo. Forse è
questo uno dei motivi per cui gli adolescenti sono molto attratti, sedotti
narcisisticamente potremmo dire, da un tipo di opera cinematografica che
possiamo descrivere come fortemente “perturbante” (Freud, 1919). Il cinema,
come il teatro, così come il setting della cura psicoanalitica, rappresentano
infatti una “rappresentazione drammatica
della passione” (Green, 2011).
Così come il bambino può avvicinarsi alle proprie emozioni attraverso il gioco, allo stesso modo l’adolescente,
attraverso il cinema, può avvicinarsi e pensare al dramma identitario che sta
vivendo, utilizzando un terreno artistico-transizionale, uno “spazio
potenziale” (Winnicott, 1971), un “ambiente onirico” (Bezoari, 2011), com’è
appunto quello rappresentato dal cinema.
Il Cinema Horror possiede inoltre, all’interno della
sua struttura drammaturgica di base, quelli che potremmo definire degli
“isomorfismi” con il processo di costruzione identitaria in adolescenza, tali
da rappresentare molto bene, ma “a distanza di sicurezza”, cioè sullo schermo,
il “cambiamento catastrofico” adolescenziale. L’attrattiva narcisistica che
possiede questo genere di film, per l’adolescente, diventa comprensibile se si
guarda cioè alla sua costruzione sintattica, nella quale l’adolescente trova un
suo intimo rispecchiamento, un “riconoscimento” emotivo. La sintassi di un
“film horror” è infatti del tutto differente da quella di un film tradizionale,
di un film “adulto”, cioè un film horror è, mi si passi la metafora, di per sé
un “film adolescente”: la metrica del minutaggio è per cominciare, più corta di
un film del classico tipo sofisticated
comedy hollywoodiana. Alla tradizionale suddivisione metrica in tre atti:
30-60-30, il cinema horror sostituisce una suddivisione del tipo, ad esempio,
30-40-10, cioè non sviluppa un finale lungo, narrativo e risolutivo, quindi rassicurante,
come nel caso del cinema classico. Il tempo dell’adolescente non è infatti
quello dell’adulto, è al contrario un tempo più rapido, è il tempo
dell’irruenza delle pulsioni, dell’azione, del fare concreto sul pensare
distanziante e razionalizzato dell’adulto. Il terzo atto di un film horror è
dunque più breve, caotico, usualmente molto traumatico per lo spettatore, ma
anche non definito, anzi, al contrario aperto a nuove evoluzioni, che lo
spettatore potrà vedere in eventuali sequel
(vedi ad esempio la nota saga di “Nightmare: dal profondo della notte”,
bellissimo e innovativo racconto teen-slasher
inaugurato dal regista Wes Craven negli anni ‘80). Rispetto alla sintassi
filmica tradizionale, questo genere di film si gioca tutto nel Terzo Atto,
preceduto da un Primo Atto che serve da introduzione alla storia, e da un
Secondo Atto nel quale ci viene di solito presentato un primo finale (o
“prefinale”) con colpo di scena. Il Terzo Atto si compone di due sequenze
distinte, che si avvicendano drammaticamente in modo molto veloce e che hanno
lo scopo deliberato di porre lo spettatore in una posizione spiazzata. La prima
sequenza del Terzo Atto ci mostra un epilogo sereno in cui l’eroe crede nella
propria vittoria. La seconda e ultima sequenza ci propone un colpo di scena
finale dal sapore pessimistico-depressivo che ribalta completamente la
posizione acquisita dall’eroe nella sequenza precedente. Tale conclusione è
tuttavia anche “aperta”, cioè non risolve compiutamente la storia, e rimanda
evocativamente ad altri esiti, sebbene a loro volta incerti.
Questo schema narrativo si presta molto bene a
rappresentare la rottura traumatica del contenitore onnipotente infantile nel
quale l’adolescente ha soggiornato fino a non molto tempo prima, ma allo stesso
tempo fa intravedere e organizza narrativamente una speranza. Il finale
pessimistico segnala un lutto, un crollo di certezze, ma l’apertura ad altre
narrazioni successive, a un sequel, evidenzia che “la vita continua”.
Il “rispecchiamento narcisistico” che l’adolescente
ritrova di fronte a questo genere di film, si attua anche attraverso un altro topos di questo genere cinematografico,
e cioè il mettere usualmente in scena le vicende di un gruppo. Molti film
horror raccontano infatti di gruppi di teen-ager
che devono far fronte agli attacchi omicidi di un misterioso assassino che
improvvisamente compare su una scena fino a quel momento tranquilla,
terrorizzando la comunità. Il gruppo dei pari, così come in preadolescenza, il
gruppo-classe, rappresentano importanti contenitori transizionali per
l’adolescente, ambienti sociali cioè, che prendono il posto dell’accudimento
ambientale materno e familiare, e promuovono così la crescita, l’autonomia e il
processo di separazione. Ma il gruppo dei pari può anche diventare un “rifugio
della mente” (Steiner, 1993), un ambiente regressivo, una difesa dal trauma
della crescita.
Il film che abbiamo visto insieme stasera, credo
rappresenti efficacemente quanto abbiamo detto sin qui. L’aspetto innovativo
della pellicola di Moreau e Palud consiste nel capovolgere il topos del “gruppo di adolescenti”
minacciati dal villain assassino
(come accade in gran parte nei film teen-slasher
nell’ambito della cultura cinematografica statunitense), facendo diventare il
gruppo stesso il vero l’”assassino”, spiazzando così lo spettatore adolescente
(o la parte adolescente dello spettatore adulto) e sottraendogli la possibilità
difensiva di proiettare su un solo individuo le proprie parti distruttive,
erotiche e sadiche.
Il film di Moreau e
Palud costruisce inoltre una cornice drammaturgica coerente nella quale sono
presenti tutti i “personaggi” del dramma psicologico adolescenziale: c’è una
coppia di adulti, chiusa nel proprio invidiabile spazio di intimità edipica,
dal quale il bambino è escluso; c’è un gruppo di ragazzi in assunto di base di
attacco-fuga (Bion, 1948), chiuso in un “rifugio della mente” gruppale, che va
all’arrembaggio di quel fantasticato sancta
sanctorum che è la stanza dei genitori, di quello “spazio genitale”
idealizzato e onnipotente di cui Meltzer ci ha parlato in modo così suggestivo;
c’è la “casa nel bosco”, che rappresenta qui una sorta di capovolgimento
maniacale, tutto adolescenziale, della fiaba di Hansel e Grätel: le angosce
infantili non sono cioè elaborate attraverso la loro proiezione nella
mamma-strega, come accade nella fiaba riportata dai fratelli Grimm, ma al
contrario sono evacuate e fatte provare, mediante identificazione proiettiva, alla
sfortunata coppia costituita da Clementine e Lucas. Sono loro (e noi spettatori
identificati a loro), infatti, a provare angoscia, mentre il gruppo dei ragazzi
si pone in una dimensione di invulnerabilità e onnipotenza controllante,
dimensione accentuata dalla conformazione “a branco” che presidia un territorio
molto ben conosciuto, e che considera –
possiamo ipotizzare - come una “terra-madre”
da proteggere dagli “stranieri”. A proposito di
"Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi", "Them" declina in
chiave adolescenziale, e attraverso tonalità molto intense, questo
tema molto caro alla psicoanalisi, cioè il
rapporto individuo-gruppo, discorso affrontato già da Freud in "Psicologia e delle masse e
analisi dell'io" (1921). In molte circostanze, scrive Freud, l'individuo
diventa succube del gruppo abdicando al progetto di sviluppo delle sue quote di
specificità
soggettiva, finche "ulula con i
lupi" (Freud, 1921, pag. 275). Il gruppo adolescenziale, in
particolare, rischia molto facilmente di trasformarsi in "branco" nel
quale l'unico mezzo per essere riconosciuti rimane appunto quello di
"ululare". Come scrivono Gaburri e Ambrosiano: "Nel gruppo in
assunto di base, ideologico e compatto fino al fanatismo, l' azione è il principio organizzatore: l'Io e' stato
distrutto" (Gaburri e Ambrosiano, 2003, pag.27). Il film ci racconta un
fenomeno di questo tipo, ci racconta l'azione che prende il posto del pensiero
e della relazione quando il gruppo si fa branco, in assenza di un'etica sociale
condivisa che si assuma la funzione di
limite. In questo senso "Them" può essere visto come la
versione adolescenziale del romanzo di William Golding, "Il Signore delle
mosche", tradotto cinematograficamente da Peter Brook nel 1963, nel quale
l'assenza di un contenitore genitoriale limitante, determina una sorta di
"dittatura dell'infanzia", all'interno di un gruppo di bambini
naufragati su un'isola.
Il film di Moreau e Palud genera inoltre una
pregnante rappresentazione della dialettica familiare/estraneo che è un altro
elemento fondamentale che caratterizza l’adolescenza. In adolescenza, come
scrive Pellizzari: “Il familiare è divenuto straniero, sconosciuto e
potenzialmente nemico e i fantasmi del passato si ripresentano all’interno di
un nuovo contesto di realtà non più soccorso dall’area protetta dell’infantile.
La crisi d’identità del bambino che diviene adolescente si incontra con la
crisi d’identità complementare dell’adulto genitore: la messa in discussione
fisiologica della sua autorità e del suo potere. L’ignoranza reciproca tra
adulto e adolescente, come un vuoto, subisce la tentazione di essere riempita in entrambi i sensi dalla violenza
degli stereotipi, dei preconcetti, dei dogmi, vale a dire degli oggetti
parziali non elaborati della storia passata con tutta l’urgenza e l’esasperazione
ripetitiva dell’agire coatto” (Pellizzari, 2003). Il film dei due registi
francesi si muove esattamente sul confine tra il “familiare” e l’“estraneo” di
un infantile che non si riconosce più come tale, diventando proprio per questo
minaccioso. Non è forse un caso se il film si apre in un ambiente scolastico,
al termine di una lezione della maestra Clementine, e si chiude con le parole
del più giovane dei ragazzi omicidi: “Non volevano giocare con noi “. Immagini
e parole che fanno pensare, che
rimandano all’area del “gioco” infantile, e alla sua importanza come “messa in
scena” di passioni molto potenti, che in adolescenza si riattivano,
amplificate, e che sono altrettanto bisognose di una presa in carico e di un
ascolto responsabile da parte
dell’adulto. In una situazione evolutiva “sufficientemente buona”, la madre
agisce sognando i contenuti proiettati dal bambino, all’interno di un ritmo di
accudimento rassicurante nel quale un’identificazione proiettiva “benigna”
costruisce quella che Bion chiama “unione conviviale” tra madre e bambino.
Contenuto e contenitore, attraverso la funzione di reverie materna, generano reciprocamente uno spazio di ascolto
emotivo riverberante nel quale può evolvere il pensiero. Se lo spazio per
questo ascolto, per una nuova “messa in scena”, da parte della madre e dell’ambiente
socio-familiare circostante, viene a mancare, il processo di riconoscimento
dell’altro e di se stessi, cioè il processo di formazione del pensiero e dell’identità,
viene svuotato di senso, favorendo una deriva narcisistica e distruttiva, come
è ben rappresentato nel film. Deriva narcisistica che trova il suo ideale brodo
di coltura nella cultura di gruppo, che
il film fotografa nell’ intensa, lunga sequenza finale gettando una luce
chiarificatrice, molto poetica, su tutta
la narrazione precedente. Il film sembra cioè, in sintesi, dirci che
l’adolescenza è essenzialmente un fenomeno psicosociale, relazionale, non
semplicemente individuale, e che l’ambiente di appartenenza contribuisce grandemente
al processo di soggettivazione dell’individuo. L’adolescente infatti, come
sottolinea Cahn (2000) “non ha la fortuna dell’adulto, il quale ha completato
l’introiezione delle imago genitoriali che gli fornisce il supporto di
un’autentica autonomia psichica, per quanto relativa possa essere. Egli invece
resta più o meno dipendente dagli oggetti genitoriali nella loro realtà,
confondendo quasi inevitabilmente ciò che si gioca ancora nel registro della
realtà con questi ultimi, e ciò che di fatto è determinato dal modo in cui
ormai egli stesso colloca, si rappresenta, ha soggettivato quelle relazioni”
(Cahn, 2000).
Come una fiaba per adolescenti, il film di Moreau e
Palud mette in scena la deriva distruttiva di un gruppo di ragazzi il cui
trauma evolutivo e il cui stato di deprivazione sociale non sono stati
riconosciuti, accompagnati e “sognati” da un ambiente competente in questo
senso. Il film si fa carico di sognare questo “sogno non sognato” (Ogden,
2009), evidenziando così il valore etico di un certo tipo di rappresentazione
cinematografica come quella messa in scena, in molti casi, dal cosiddetto
“genere horror”.
Riferimenti
bibliografici
Bezoari, M. (2011), Ambiente onirico e ambiente analitico. Seminario tenuto presso il
Centro Psicoanalitico di Pavia, il 15 novembre 2011.
Bion, W.R. (1948), Esperienze nei gruppi. Tr. It. Roma, Armando, 1971.
Cahn, R. (1998), L’adolescente
nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione. Roma, Borla, 2000.
Freud, S. (1919) Il
Perturbante. OSF, Boringhieri, Torino Vol. 9.
Freud, S. (1921) Psicologia
delle masse e analisi dell’Io, OSF, Boringhieri, Torino, Vol. 9
Gaburri, Ambrosiano (2003)
Ululare con i lupi. Torino, Boringhieri.
Green, A. (2011), Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico, Milano,
Raffaello Cortina Editore.
Gulli, D.M. (2009) Il cinema horror e la sua drammaturgia. In Horror made in Italy- Pubblicazione di cultura cinematografica. Gemma
Lanzo Editore, Taranto. Pagg. 86-100.
Ogden, T. H. (2009), Riscoprire la psicoanalisi. Pensare e sognare, imparare e dimenticare.
Milano, CIS Editore.
Meltzer, D. (1992) Claustrum. Uno studio dei fenomeni claustrofobici. Tr.it. Milano,
Raffaello Cortina, 1993.
Pellizzari, G. (2003), La psicoanalisi degli adolescenti ha cambiato la tecnica psicoanalitica?
Adolescenza e psicoanalisi, Anno III, N° 1, Gennaio 2003.
Steiner (1993), J. I rifugi della mente. Tr.it. Torino, Bollati Boringhieri, 1996.
Winnicott (1971), Gioco
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