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domenica 28 ottobre 2012

Adolescenza e cinema perturbante



Vi propongo il mio intervento di commento a "Them", di David Moreau e Xavier Palud, di cui ho proposto una lettura psicoanalitica, alla rassegna cinematografica "Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi", venerdì 26 ottobre, presso la Biblioteca Comunale di Vittorio Veneto, dove sono stato invitato da un gruppo di gentilissimi e ospitalissimi colleghi. E' stata un'esperienza molto piacevole e interessante (il pubblico si è un pò spaventato, ma il dibattito successivo ha stemperato le angosce circolanti).

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Il trauma adolescenziale e la sua rappresentazione narrativa attraverso il cinema “horror”: una lettura di “Them”, di David Moreau e Xavier Palud (2006).

Biblioteca Comunale di Vittorio Veneto
Rassegna Cinematografica “Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi” –
26 ottobre 2012



                                                                        “Al principio è la relazione”
                                               Martin Buber (Il Principio Dialogico e altri saggi, 1959)

L’adolescenza è un periodo di transizione esistenziale portatore di valenze fortemente traumatiche. Il mutamento fisico-sessuale modifica infatti in modo radicale l’immagine che il ragazzo aveva di se stesso fino a quel momento, ma questa modificazione investe anche l’assetto relazionale e il rapporto genitori-figli. Di fronte allo sguardo dei genitori il figlio adolescente è diventato più “forte” e rispetto a quando era un bambino, non gli si può dare un limite solo attraverso un benevolo “scappellotto”. La sessualità intesa come occorrenza traumatica sottolinea inoltre il cambiamento catastrofico rappresentato, sul piano degli affetti, dal graduale ma inesorabile processo di separazione-individuazione. Il ragazzo deve abbandonare il contenitore infantile nel quale la fantasia onnipotente era fonte di rassicurazione, per volgersi verso nuovi compiti di sviluppo, verso nuove responsabilità. I cambiamenti sul piano cognitivo, nonché  quelli relativi alla  percezione del tempo cronologico, fanno sì che l’Io dell’adolescente percepisca poi l’infanzia come un “paradiso perduto”. Per certi versi l’idea di “infanzia” nasce  proprio durante l’adolescenza, che può quindi essere vista come un periodo della vita in cui si manifesta per la prima volta quella nachtreglichkeit su cui Freud è più volte tornato: una scoperta rivoluzionaria, “copernicana” (Pellizzari, 2008), e appunto per questo, ancora una volta, traumatica.
L’adolescente ha dunque bisogno di trovare una rappresentazione narrativa di questo momento così complesso, ha cioè bisogno di “sognare” il suo trauma, di “metterlo in scena”, e non semplicemente di viverlo, sentendosene travolto e annichilito: non ci sono più le fiabe a confortarlo. Le fiabe hanno fatto il loro tempo, come l’infanzia. Le esperienze emotive dell’adolescente, in risonanza con le esperienze passate, riattivano tuttavia quei nuclei ove l’Io non ha potuto esplicitare una funzione rappresentativa “sufficientemente buona”, né sperimentare una “grammatica degli affetti”, in quanto pulsioni, sensazioni, sentimenti rivolti ad oggetti ancora parziali, rimangono nel caos di un indistinto rapporto Sé-oggetto. La delicata e complessa opera trasformativa del processo di simbolizzazione, rischia di essere travolta dall’emergere di quei nuclei primitivi, poiché la psiche dell’adolescente non è ancora in grado di elaborarli compiutamente. Il ragazzo fa quindi ricorso alle difese più immediate, come l’evacuazione attraverso l’agito, perché non è in grado di affrontare il trauma che sta vivendo. Secondo Ogden (2009), il trauma determina infatti un funzionamento mentale rigido, con aspetti non mentalizzati che necessitano di una “funzione sognante”. Si tratta di “sogni non sognati”, cioè di esperienze emotive che non possono essere trasformate, simbolizzate, in quanto insopportabilmente dolorose, ma che permangono nell’individuo sottoforma di sofferenza patologica.
Il genere cinematografico cosiddetto “horror”, può fornire all’adolescente una cornice rappresentativo-narrativa che “contiene” gli effetti traumatici dei cambiamenti esistenziali che sta vivendo. Forse è questo uno dei motivi per cui gli adolescenti sono molto attratti, sedotti narcisisticamente potremmo dire, da un tipo di opera cinematografica che possiamo descrivere come fortemente “perturbante” (Freud, 1919). Il cinema, come il teatro, così come il setting della cura psicoanalitica, rappresentano infatti una “rappresentazione drammatica della passione” (Green, 2011). Così come il bambino può avvicinarsi alle proprie emozioni attraverso il gioco, allo stesso modo l’adolescente, attraverso il cinema, può avvicinarsi e pensare al dramma identitario che sta vivendo, utilizzando un terreno artistico-transizionale, uno “spazio potenziale” (Winnicott, 1971), un “ambiente onirico” (Bezoari, 2011), com’è appunto quello rappresentato dal cinema.
Il Cinema Horror possiede inoltre, all’interno della sua struttura drammaturgica di base, quelli che potremmo definire degli “isomorfismi” con il processo di costruzione identitaria in adolescenza, tali da rappresentare molto bene, ma “a distanza di sicurezza”, cioè sullo schermo, il “cambiamento catastrofico” adolescenziale. L’attrattiva narcisistica che possiede questo genere di film, per l’adolescente, diventa comprensibile se si guarda cioè alla sua costruzione sintattica, nella quale l’adolescente trova un suo intimo rispecchiamento, un “riconoscimento” emotivo. La sintassi di un “film horror” è infatti del tutto differente da quella di un film tradizionale, di un film “adulto”, cioè un film horror è, mi si passi la metafora, di per sé un “film adolescente”: la metrica del minutaggio è per cominciare, più corta di un film del classico tipo sofisticated comedy hollywoodiana. Alla tradizionale suddivisione metrica in tre atti: 30-60-30, il cinema horror sostituisce una suddivisione del tipo, ad esempio, 30-40-10, cioè non sviluppa un finale lungo, narrativo e risolutivo, quindi rassicurante, come nel caso del cinema classico. Il tempo dell’adolescente non è infatti quello dell’adulto, è al contrario un tempo più rapido, è il tempo dell’irruenza delle pulsioni, dell’azione, del fare concreto sul pensare distanziante e razionalizzato dell’adulto. Il terzo atto di un film horror è dunque più breve, caotico, usualmente molto traumatico per lo spettatore, ma anche non definito, anzi, al contrario aperto a nuove evoluzioni, che lo spettatore potrà vedere in eventuali sequel (vedi ad esempio la nota saga di “Nightmare: dal profondo della notte”, bellissimo e innovativo racconto teen-slasher inaugurato dal regista Wes Craven negli anni ‘80). Rispetto alla sintassi filmica tradizionale, questo genere di film si gioca tutto nel Terzo Atto, preceduto da un Primo Atto che serve da introduzione alla storia, e da un Secondo Atto nel quale ci viene di solito presentato un primo finale (o “prefinale”) con colpo di scena. Il Terzo Atto si compone di due sequenze distinte, che si avvicendano drammaticamente in modo molto veloce e che hanno lo scopo deliberato di porre lo spettatore in una posizione spiazzata. La prima sequenza del Terzo Atto ci mostra un epilogo sereno in cui l’eroe crede nella propria vittoria. La seconda e ultima sequenza ci propone un colpo di scena finale dal sapore pessimistico-depressivo che ribalta completamente la posizione acquisita dall’eroe nella sequenza precedente. Tale conclusione è tuttavia anche “aperta”, cioè non risolve compiutamente la storia, e rimanda evocativamente ad altri esiti, sebbene a loro volta incerti.
Questo schema narrativo si presta molto bene a rappresentare la rottura traumatica del contenitore onnipotente infantile nel quale l’adolescente ha soggiornato fino a non molto tempo prima, ma allo stesso tempo fa intravedere e organizza narrativamente una speranza. Il finale pessimistico segnala un lutto, un crollo di certezze, ma l’apertura ad altre narrazioni successive, a un sequel,  evidenzia che “la vita continua”.
Il “rispecchiamento narcisistico” che l’adolescente ritrova di fronte a questo genere di film, si attua anche attraverso un altro topos di questo genere cinematografico, e cioè il mettere usualmente in scena le vicende di un gruppo. Molti film horror raccontano infatti di gruppi di teen-ager che devono far fronte agli attacchi omicidi di un misterioso assassino che improvvisamente compare su una scena fino a quel momento tranquilla, terrorizzando la comunità. Il gruppo dei pari, così come in preadolescenza, il gruppo-classe, rappresentano importanti contenitori transizionali per l’adolescente, ambienti sociali cioè, che prendono il posto dell’accudimento ambientale materno e familiare, e promuovono così la crescita, l’autonomia e il processo di separazione. Ma il gruppo dei pari può anche diventare un “rifugio della mente” (Steiner, 1993), un ambiente regressivo, una difesa dal trauma della crescita.
Il film che abbiamo visto insieme stasera, credo rappresenti efficacemente quanto abbiamo detto sin qui. L’aspetto innovativo della pellicola di Moreau e Palud consiste nel capovolgere il topos del “gruppo di adolescenti” minacciati dal villain assassino (come accade in gran parte nei film teen-slasher nell’ambito della cultura cinematografica statunitense), facendo diventare il gruppo stesso il vero l’”assassino”, spiazzando così lo spettatore adolescente (o la parte adolescente dello spettatore adulto) e sottraendogli la possibilità difensiva di proiettare su un solo individuo le proprie parti distruttive, erotiche e  sadiche.
Il film di Moreau e Palud costruisce inoltre una cornice drammaturgica coerente nella quale sono presenti tutti i “personaggi” del dramma psicologico adolescenziale: c’è una coppia di adulti, chiusa nel proprio invidiabile spazio di intimità edipica, dal quale il bambino è escluso; c’è un gruppo di ragazzi in assunto di base di attacco-fuga (Bion, 1948), chiuso in un “rifugio della mente” gruppale, che va all’arrembaggio di quel fantasticato sancta sanctorum che è la stanza dei genitori, di quello “spazio genitale” idealizzato e onnipotente di cui Meltzer ci ha parlato in modo così suggestivo; c’è la “casa nel bosco”, che rappresenta qui una sorta di capovolgimento maniacale, tutto adolescenziale, della fiaba di Hansel e Grätel: le angosce infantili non sono cioè elaborate attraverso la loro proiezione nella mamma-strega, come accade nella fiaba riportata dai fratelli Grimm, ma al contrario sono evacuate e fatte provare, mediante identificazione proiettiva, alla sfortunata coppia costituita da Clementine e Lucas. Sono loro (e noi spettatori identificati a loro), infatti, a provare angoscia, mentre il gruppo dei ragazzi si pone in una dimensione di invulnerabilità e onnipotenza controllante, dimensione accentuata dalla conformazione “a branco” che presidia un territorio molto ben conosciuto,  e che considera – possiamo ipotizzare -  come una “terra-madre” da proteggere dagli “stranieri”. A proposito di "Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi", "Them" declina in chiave adolescenziale, e attraverso tonalità molto intense, questo tema molto caro alla psicoanalisi, cioè il rapporto individuo-gruppo, discorso affrontato già da Freud in "Psicologia e delle masse e analisi dell'io" (1921). In molte circostanze, scrive Freud, l'individuo diventa succube del gruppo abdicando al progetto di sviluppo delle sue quote di specificità soggettiva, finche "ulula con i lupi" (Freud, 1921, pag. 275). Il gruppo adolescenziale, in particolare, rischia molto facilmente di trasformarsi in "branco" nel quale l'unico mezzo per essere riconosciuti rimane appunto quello di "ululare". Come scrivono Gaburri e Ambrosiano: "Nel gruppo in assunto di base, ideologico e compatto fino al fanatismo, l' azione è il principio organizzatore: l'Io e' stato distrutto" (Gaburri e Ambrosiano, 2003, pag.27). Il film ci racconta un fenomeno di questo tipo, ci racconta l'azione che prende il posto del pensiero e della relazione quando il gruppo si fa branco, in assenza di un'etica sociale condivisa che si assuma la funzione di  limite. In questo senso "Them" può essere visto come la versione adolescenziale del romanzo di William Golding, "Il Signore delle mosche", tradotto cinematograficamente da Peter Brook nel 1963, nel quale l'assenza di un contenitore genitoriale limitante, determina una sorta di "dittatura dell'infanzia", all'interno di un gruppo di bambini naufragati su un'isola.

Il film di Moreau e Palud genera inoltre una pregnante rappresentazione della dialettica familiare/estraneo che è un altro elemento fondamentale che caratterizza l’adolescenza. In adolescenza, come scrive Pellizzari: “Il familiare è divenuto straniero, sconosciuto e potenzialmente nemico e i fantasmi del passato si ripresentano all’interno di un nuovo contesto di realtà non più soccorso dall’area protetta dell’infantile. La crisi d’identità del bambino che diviene adolescente si incontra con la crisi d’identità complementare dell’adulto genitore: la messa in discussione fisiologica della sua autorità e del suo potere. L’ignoranza reciproca tra adulto e adolescente, come un vuoto, subisce la tentazione di essere  riempita in entrambi i sensi dalla violenza degli stereotipi, dei preconcetti, dei dogmi, vale a dire degli oggetti parziali non elaborati della storia passata con tutta l’urgenza e l’esasperazione ripetitiva dell’agire coatto” (Pellizzari, 2003). Il film dei due registi francesi si muove esattamente sul confine tra il “familiare” e l’“estraneo” di un infantile che non si riconosce più come tale, diventando proprio per questo minaccioso. Non è forse un caso se il film si apre in un ambiente scolastico, al termine di una lezione della maestra Clementine, e si chiude con le parole del più giovane dei ragazzi omicidi: “Non volevano giocare con noi “. Immagini e parole che fanno pensare,  che rimandano all’area del “gioco” infantile, e alla sua importanza come “messa in scena” di passioni molto potenti, che in adolescenza si riattivano, amplificate, e che sono altrettanto bisognose di una presa in carico e di un ascolto  responsabile da parte dell’adulto. In una situazione evolutiva “sufficientemente buona”, la madre agisce sognando i contenuti proiettati dal bambino, all’interno di un ritmo di accudimento rassicurante nel quale un’identificazione proiettiva “benigna” costruisce quella che Bion chiama “unione conviviale” tra madre e bambino. Contenuto e contenitore, attraverso la funzione di reverie materna, generano reciprocamente uno spazio di ascolto emotivo riverberante nel quale può evolvere il pensiero. Se lo spazio per questo ascolto, per una nuova “messa in scena”, da parte della madre e dell’ambiente socio-familiare circostante, viene a mancare, il processo di riconoscimento dell’altro e di se stessi, cioè il processo di formazione del pensiero e dell’identità, viene svuotato di senso, favorendo una deriva narcisistica e distruttiva, come è ben rappresentato nel film. Deriva narcisistica che trova il suo ideale brodo di coltura nella cultura di gruppo,  che il film fotografa nell’ intensa, lunga sequenza finale gettando una luce chiarificatrice,  molto poetica, su tutta la narrazione precedente. Il film sembra cioè, in sintesi, dirci che l’adolescenza è essenzialmente un fenomeno psicosociale, relazionale, non semplicemente individuale, e che l’ambiente di appartenenza contribuisce grandemente al processo di soggettivazione dell’individuo. L’adolescente infatti, come sottolinea Cahn (2000) “non ha la fortuna dell’adulto, il quale ha completato l’introiezione delle imago genitoriali che gli fornisce il supporto di un’autentica autonomia psichica, per quanto relativa possa essere. Egli invece resta più o meno dipendente dagli oggetti genitoriali nella loro realtà, confondendo quasi inevitabilmente ciò che si gioca ancora nel registro della realtà con questi ultimi, e ciò che di fatto è determinato dal modo in cui ormai egli stesso colloca, si rappresenta, ha soggettivato quelle relazioni” (Cahn, 2000).  
Come una fiaba per adolescenti, il film di Moreau e Palud mette in scena la deriva distruttiva di un gruppo di ragazzi il cui trauma evolutivo e il cui stato di deprivazione sociale non sono stati riconosciuti, accompagnati e “sognati” da un ambiente competente in questo senso. Il film si fa carico di sognare questo “sogno non sognato” (Ogden, 2009), evidenziando così il valore etico di un certo tipo di rappresentazione cinematografica come quella messa in scena, in molti casi, dal cosiddetto “genere horror”.


Riferimenti bibliografici

Bezoari, M. (2011), Ambiente onirico e ambiente analitico. Seminario tenuto presso il Centro Psicoanalitico di Pavia, il 15 novembre 2011.

Bion, W.R. (1948), Esperienze nei gruppi. Tr. It. Roma, Armando, 1971.

Cahn, R. (1998), L’adolescente nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione. Roma, Borla, 2000.

Freud, S. (1919) Il Perturbante. OSF, Boringhieri, Torino Vol. 9.

Freud, S. (1921) Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF, Boringhieri, Torino, Vol. 9

Gaburri, Ambrosiano (2003) Ululare con i lupi. Torino, Boringhieri.

Green, A. (2011), Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Gulli, D.M. (2009) Il cinema horror e la sua drammaturgia. In Horror made in Italy- Pubblicazione di cultura cinematografica. Gemma Lanzo Editore, Taranto. Pagg. 86-100.

Ogden, T. H. (2009), Riscoprire la psicoanalisi. Pensare e sognare, imparare e dimenticare. Milano, CIS Editore.

Meltzer, D. (1992) Claustrum. Uno studio dei fenomeni claustrofobici. Tr.it. Milano, Raffaello Cortina, 1993.

Pellizzari, G. (2003), La psicoanalisi degli adolescenti ha cambiato la tecnica psicoanalitica? Adolescenza e psicoanalisi, Anno III, N° 1, Gennaio 2003.

Steiner (1993), J. I rifugi della mente. Tr.it. Torino, Bollati Boringhieri, 1996.

Winnicott (1971), Gioco e Realtà,  Armando, Roma, 2006.






mercoledì 24 ottobre 2012

Natura perturbante

                           Anche la Natura, a volte, sa essere esteticamente perturbante.


domenica 21 ottobre 2012

Absentia, di Mike Flanagan (2011)



Daniel, marito di Tricia, è scomparso da alcuni anni. La sorella minore di Tricia, Callie, si trasferisce a vivere da lei per aiutarla a superare il momento in cui il marito dovrà essere dichiarato "morto in absentia". Tricia nutre la speranza che Daniel torni, ma Callie desidera invece che Tricia si lasci il suo passato alle spalle. La  scoperta, da parte delle due donne, di un tunnel nei pressi della casa in periferia dove entrambe risiedono, produrrà un cambiamento radicale alle loro esistenze. Il tunnel sembra collegato ad altre misteriose sparizioni. Forse il marito di Tricia non è morto, forse il suo destino è ben peggiore della morte... 


Mike Flanagan, nato a Salem, Massachusets, nel 1978, scrive e dirige una pellicola a budget praticamente inesistente, che fino a un certo punto del minutaggio può risultare involuta e insipida, complici gli scarsi dollari a disposizione, nonché una deliberata volontà narrativa di conferire un certo spessore emotivo-psicologico all'interazione tra Tricia e Callie, le due sorelle protagoniste (molto diverse, fisicamente e psicologicamente tra loro, come avviene, ovviamente nella realtà di situazioni parentali simili). Tale insistenza sulla relazione e sul ritrovamento delle due, a seguito della scomparsa di Daniel, rallenta infatti il pathos perturbante e diluisce l'andamento drammaturgico, evidenziando crepe di sceneggiatura che a mio avviso potevano essere evitate o ridotte in fase di scrittura. Flanagan inoltre insiste moltissimo su primi piani e piani medi, quasi a voler sottolineare il dramma psicologico dei personaggi sulla scena, il che da una parte è un pregio del film,  ma dall'altra lo fa sostare troppo in un'aura sospensiva e attendista che richiede allo spettatore una concentrazione forse eccessiva, rispetto a questo genere di film. In poche parole sto dicendo che occorre avere una certa pazienza per vedere sbocciare il fiore che Flanagan semina lungo gli 87 minuti di pellicola, fiore che comincia a mostrare i suoi colori caratteristici dopo circa 45 minuti di narrazione durante la quale si alternano in modo sinusoidale piccoli colpi di scena che avvitano la storia verso un finale iper-evocativo e aperto a mille polisemie. Ed è proprio l'"evocatività"  il vero baricentro concettuale ed estetico del film, ciò che lo rende interessante e degno di nota, ma anche ciò in cui eccede, muovendo anche qualche perplessità nello spettatore. Non c'è dubbio che il giocare sull'evocazione, sull'ellissi, sul non detto (e soprattutto "non visto"), sia una strategia ansiogena tra le più utili nella costruzione di un "monstrum" perturbante, poiché lo si crea sulla base del fantasma inconscio di chi guarda, rendendolo per questo motivo più potente di qualsiasi epifania mostrata o gettata in faccia secondo modalità gore. Su questo non ci piove, e basta farsi tornare alla mente certe opere, quali ad esempio "The Mist" (2007) di Frank Darabont, per convincersi che la "nebbia" del non detto genera mostri molto inquietanti. Tuttavia quando uno stilema diventa iperbolico, come nel caso di questo "Absentia", che già nel titolo iperbolizza il tema che sviluppa nel corso di tutto il racconto, cioè appunto l'"assenza", allora bisogna fermarsi a riflettere se si tratta di uso o abuso. Il mio fermarmi a riflettere su questo tema, mi porta a dire che complessivamente il film è originale e interessante, ma che il suo dannato problema sono proprio i soldi, cioè il budget bassissimo: sono portato a pensare che se Flanagan avesse avuto più libertà di movimento sul piano economico, avrebbe potuto (non so se voluto, ma su questo non ci è ovviamente dato sapere)  pigiare molto di più sull'acceleratore degli effetti speciali, riducendo le penombre evocative e regalandoci qualche salto sulla sedia più incisivo rispetto all'andamento di quest'ultima sua pellicola. Vero è che qui Flanagan ce la mette tutta a rendere ed evocare il mostro attraverso la rappresentazione di certi piccoli, microscopici movimenti dell'essere zampettante che si muove dietro le quinte delle sparizioni misteriose, tra le quali quella del marito di Tricia, Daniel. Ma questi sforzi non sono sufficienti a costruire un'architettura scenico-estetica che sappia integrare racconto ed effetto perturbante in un modo che sappia anche intrattenere adeguatamente lo spettatore. Infatti secondo me l'elemento "intrattenimento" all'interno di questo genere di film è un ingrediente che il cuoco-regista non può dimenticarsi nella credenza, pena navigare in acque basse, rischiando di incagliarsi nel corso della navigazione. Credo che Flanagan avrebbe potuto evitare tali rischi, mostrando più di quello che ha mostrato, nonchè depsicologicizzando (ho inventato un brutto neologismo? Forse) un tantino l'intera storia, glissando per esempio su certe interazioni: mi riferisco, ad esempio ai rapporti che costruisce tra Tricia, Callie e i poliziotti locali, piuttosto improbabili, un pò ripetitivi in alcune sequenze, e superflui rispetto ad altri baricentri della storia, decisamente più interessanti (come quello del tunnel, perbacco, che andava sviluppato con più coraggio, a mio avviso). Ma, ripeto, con un budget così ristretto, non possiamo imputare a Flanagan chissà quali colpe, anche perché le atmosfere che costruisce mediante movimenti di macchina molto ben condotti e realistici, risultano comunque molto inquietanti e dense di mistero. Un mistero che si liquefa però in corso d'opera, ma proprio per il il fatto che un "film dell'orrore" ha comunque bisogno anche di incarnarsi nel tessuto di un allestimento corposo,  caldo e "sanguigno",  che faccia cioè la sua giusta parte, oltre alle idee che hanno mosso lo script. "Evocare" va bene, ma non basta. "Absentia": da vedere, cum grano salis. 
Suggerisco la lettura della recensione di Eddy, per allargare la prospettiva su altri punti di vista, qui: Recensione di "Direzione Errata"
Regia: Mike Flanagan      Soggetto e sceneggiatura: Mike Flanagan    Fotografia:  Rustin Cerveny   Montaggio: Mike Flanagan    Musiche: Ryan David Leak     Cast: Katie Parker, Courtney Bell, David Levine, Morgan Brown, Justin Gordon, James Flanagan, Doug Jones  Nazione: USA    Produzione: FallBack Plan Productions, Blue Dot Productions     Durata:   87 min.   

domenica 7 ottobre 2012

V/H/S, di Ti West, Adam Wingard, et al. (2012)


Un gruppo di giovani sbandati passa il suo tempo facendo irruzione, durante la notte, in case abbandonate, devastandole vandalicamente. Una sera il gruppo  entra in una casa, e dovrà confrontarsi con un cadavere seduto su una poltrona, davanti a cui sono accese immumerevoli televisioni. I ragazzi troveranno una serie infinita di videocassette, contenenti filmati amatoriali, uno più agghiacciante dell'altro...

Di fronte ad un film co-diretto da Ti West non ci si può certo tirare indietro, anche se quel film appartiene all'ormai nefasto sottogenere del mockumentary. "V/H/S" è infatti una sorta di mockumentary assoluto, totale, quindi chi vi si accosta è avvertito. Fatta questa doverosa premessa, il punto essenziale è che questa avventura portata avanti da un collettivo di registi con a capo Ti West (The Collective) e prodotto insieme a Bloody Disgusting, è veramente interessante, molto inquietante e decisamente, incredibilmente creativa. Ciò che voglio dire è che questa specie di armata Brancaleone di giovani registi/sceneggiatori/produttori riuniti, è capace di organizzare una sceneggiatura a scatole cinesi molto efficace, lavorando su una narrazione a episodi, che di solito stanca molto presto lo spettatore perché frammenta la percezione del prodotto artistico e di conseguenza, alla lunga, annoia. Non è il caso di "V/H/S", che inietta fin da subito dosi massicce di adrenalina pura nelle pupille dello spettatore, complici un realismo che definirei forse unico nel sottogenere mocku, e un casting meravigliosamente condotto. I filmati che i balordi trovano nella casa disabitata sono "amatoriali", nel senso che producono un'identificazione immediata in chi guarda perché sembrano davvero il filmino, chessò, del viaggio di nozze di vostra cugina, e le attrici sulla scena sembrano davvero vostra cugina, il che è terribile da digerire, nel senso che il tutto è molto "reale". O almeno così sembra, anche quando il gruppo di registi vira nel puro sovrannaturale, come nel primo episodio, ottimo, geniale, nonché sottilmente infiltrativo di angosce che ti sbatte in viso gradualmente ma inesorabilmente. Inoltre il primo filmato spazza via come un uragano Katrina tutte le penose mistiche mitopietiche dei vari "Twilight", costruendo l'idea di una "donna-vampiro" assolutamente inquietante e di rara bellezza perturbante.  Il secondo episodio, che ci mostra una coppietta nel suo viaggio "on the road" sulla mitica "Route 66", nella sua asciutta semplicità, e per il suo finale spiazzante, è un'esempio mirabile di sviluppo drammaturgico horror che andrebbe studiato nei corsi di cinematografia, all'università. Il terzo, riflessione modernissima sul genere teen-slasher, è un capolavoro di creatività perturbante, con quel gruppetto di ragazzotti qualsiasi, persi nel bosco e fatti fuori da un bizzarrissimo, quanto rapidissimo villain. Il quarto filmato VHS che emerge dal tristo archivio della casa nella quale si aggirano ormai straniti i nostri vandali balordi, fa un baffo a tutti i vari "Paranormal Activity" che abbiamo visto fin qui, con quel suo utilizzo "in presa diretta" della modalità Skype di comunicazione che fa davvero venire i brividi. Ma, ripeto, è il casting a risplendere di luce divina in questo film (come anche nei più noti film del grande TI West, obviously). La quinta tape ripropone con modalità innovative il mito statunitense di Halloween, con un gusto dell'allestimento scenico, un utilizzo dei costumi, e un uso degli spazi che io credo sarebbe piaciuto a Stanley Kubrick. Il sesto pezzo è naturalmente la storia documentata dalla telecamera dei ragazzi che trovano le videocassette nella casa maledetta, e che contiene narrativamente gli altri cinque filmati. Se vogliamo proprio trovare un difetto in quest'opera a più mani, è naturalmente il movimento di macchina tipico del mockumentary, movimento che mette a dura prova l'apparato visivo dello spettatore, ma che, in questo caso, è un prezzo che si paga volentieri, considerato il risultato complessivo molto intenso e suggestivo sul piano dell'effetto perturbante. Si potrebbe dire che il collettivo di registi statunitensi qui all'opera, addirittura abbia nobilitato il genere mocku, e comunque la soave mano ispiratrice di West si sente eccome, ed è una mano che riesce a farci digerire i sobbalzi della camera amatoriale perché molto capace di spostare la nostra attenzione sui vari plot su cui l'intero film è costruito. Non è un pregio da poco per un film composto da storie così diverse, e per giunta legate da una sovra-narrazione (quella dei balordi razziatori di case disabitate) cui tendenzialmente uno non darebbe una lira. Invece tutto funziona e muove emozioni profonde, inquietudini sottili, sudori freddi impensati. Un applauso sentito, dunque, a questi registi uniti da una seria, vera, profonda passione per il Perturbante. E un bravo al coach, Ti West, che sta tuttavia dietro le quinte, e si muove con passo felpato, senza invadenza, quasi (sembrerebbe) a supervedere ad una giusta distanza variabile, un processo creativo di gruppo davvero ben riuscito ed equilibrato. "V/H/S": da vedere senza ombra di dubbio. 

Regia: Ti West, Adam Wingard, David Bruckner, Joe Swanberg, Glenn McQuaid, Radio Silence   Soggetto e Sceneggiatura: Ti West, Adam Wingard, Simon Barrett, David Bruckner, Joe Swanberg, Matt Bettinelli-Olpin, Glenn McQuaidRadio Silence.  Fotografia:    Andrew Droz Palermo, Victoria K. Warren, Michael J. Wilson, Montaggio: Joe Gressis   Cast: Jason Yachanin, Adam Wingard, Lane Hughes, Joe Swanberg, Chad Vilella, Calvin Reeder, Hannah Fierman, Mike Donlan, Joe Sykes, Drew Sawyer, Jas Sams, Sophia Takal, Kate Lyn Sheil, Drew Moerlein  Nazione: USA    Produzione: The Collective, Bloody Disgusting   Durata:  116 min.