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venerdì 28 gennaio 2011

Vanishing on 7th Street, di Brad Anderson (2010)



Quando un massiccio blackout immerge la città di Detroit nel buio totale, un gruppo eterogeneo di individui si rifugiano all’interno di un bar. La popolazione della città intera è scomparsa nel nulla, lasciando dietro di sé cumuli di vestiti vuoti, auto abbandonate a se stesse e ombre minacciose che si allungano misteriosamente sui muri della città. Presto la luce del giorno inizia a scomparire completamente, e i sopravvissuti, si rendono conto che il buio nasconde entità sinistre e assassine, e che solo la ricerca disperata di fonti di luce alternative potrà condurli alla salvezza.

Ci aspettavamo molto da questo "Vanishing on 7th Street", soprattutto considerando  la corposa filmografia che ha alle sue spalle, nella quale spiccano film interessanti come "Session 9" (2001), "L'uomo senza sonno" (2004), "Transsiberian" (2008). Appare dunque quasi inspiegabile questo calo assoluto d'ispirazione da parte di un regista che si è mostrato fin qui sempre in grado di manovrare la tensione all'interno di sceneggiature ben costruite e originali. L'abile mano registica a tratti hitchcockiana che vediamo ad esempio in "L'uomo senza sonno", dal quale siamo avvinti fin dalle prime sequenze, si spegne e svanisce, semplicemente "vanishes", proprio come suggerito dal titolo. A fronte di un soggetto piuttosto intrigante che vuole deliberatamente rivisitare un tema a metà tra l'apocalittico e l'horror (la scomparsa dell'umanità per mano di non ben definite entità "oscure" che abitano nell'ombra), l'esito della scrittura filmica di uno script così pieno di potenzialità, si riduce invece a una riflessione pseudosociologica di scarsissimo peso, ridotta a performance teatrale all'interno di una stanza chiusa (il bar "Sonny's" dove i sopravvissuti si rifugiano). Dopo un inizio che fa ben sperare, illuminato dall'ottima fotografia di Uta Briesewitz, il film procede perdendo completamente l'orientamento e incartandosi in modo involuto e insensato fino ad un finale molto poco convincente, ma d'altr'onde coerente con la conduzione disorganizzata ed ebefrenica che Anderson imprime a tutta la pellicola. Non aiuta il cast, che vede una Thandie Newton inutilmente isterica e sopra le righe in particolare nelle prime sequenze, e soprattutto un Hayden Christensen incartapecorito e inattendibile a partire dalla sequenza del suo risveglio nel grattacielo vuoto di vita umana (e unico superstite solo perchè, udite udite, "salvato" da due candele accese accanto al suo letto durante la notte del black-out). Molto bravo Jacob Latimore, James, il ragazzino, le cui performance si disperdono tuttavia molto presto nelle nebbiose brume di un film davvero poco incisivo da qualsiasi prospettiva lo si voglia guardare. Non parliamo poi della suspense, inesistente, nonchè dell'effettistica, banalissima, che si limita a farci scorgere lunghe ombre (minacciose? Suvvìa, non scherziamo) che si addensano ogni tanto sui muri di Detroit. Sembra infatti quasi di rivedere certe sequenze di un qualsiasi "Boogyman", che non desideravamo certo farci evocare da un film di Anderson.  "Vanishing on 7th Street" è un grande buco nell'acqua causato, forse, da un momento di grave crisi artistica da parte di un regista talentuoso, ma che in questo caso perde la bussola mostrando di non saper gestire nè la materia narrativa, nè gli attori, nè l'allestimento, nè gli apparati tecnici che avrebbe a disposizione. Film assolutamente sconsigliato, sebbene a malincuore.   Regia: Brad Anderson Sceneggiatura: Anthony Jaswinski Fotografia: Uta Briesewitz Montaggio: Jeffrey Wolf Musica: Lucas Vidal Cast: Hayden Christensen, John Leguizamo, Thandie Newton, Taylor Groothuis, Jacob Latimore, P.J. Edwards Nazione: USA Produzione: Magnet, Errick Entertainment, Mandalay Vision Anno: 2010 Durata: 91 min.


domenica 23 gennaio 2011

Take me somewhere nice, di Pearry R. Teo (2004)


Dopo essere diventato fotografo professionista, Jared decide di voler rivedere suo figlio che non ha mai conosciuto, perchè il padre ha deciso di andarsene di casa proprio quando il figlio Jamie, che adesso ha 8 anni, è nato. Durante i loro primi incontri, è evidente che gli anni della separazione rendono la loro relazione molto difficile e distante. Ma quando Jamie comincia a prendere in simpatia la macchina fotografica di suo padre, un legame nuovo e affettivamente creativo ha inizio. "Take Me Somewhere Nice" è la storia di un padre, di un figlio e di come l'amore sia un sentimento molto fragile da tenere in vita, all'interno di un mondo complesso e caotico.

"Take me somewhere nice" è un corto di genere drammatico. Pearry Teo ci accompagna qui a perlustrare nuovi sentieri del suo visioning cinematografico, sentieri del tutto diversi dai due precedenti esperimenti horror, ma sui quali domina ancora una volta il tema della perdita dell'oggetto amato. Nel caso di questo corto, si tratta della "perdita della relazione", del legame tra padre e figlio. "Take me somewhere nice" è un film sulla precarietà assoluta e irreversibile della condizione umana, sul suo dipendere da un destino imprevedibile, e appunto per questo drammatico. Potremmo dire che, se nei corti precedenti, il villain era un personaggio specifico (il Demone che si impossessa di Julian, in "Liberata me", e il Guardiano del Purgatorio, in "Children of the Arcana"), in questo corto di Teo del 2004, il villain è il Destino stesso, che fa reincontrare dopo otto anni un padre e un figlio, un giovane uomo che di professione fa il fotografo, e un bambino di appunto otto anni, per poi, causa una terribile disgrazia, farli separare di nuovo, e questa volta, definitivamente. "Take me somewhere nice" è un film che non lascia scampo relativamente ad una visione pessimistica del tema dell'irraggiungibilità dell'oggetto d'amore. E' un film heideggeriano, poichè sembra volerci dire che il nostro esser-ci nella Vita è un esser-ci per la Morte. Teo è in grado di filmare tutta questa densità di interazione relazionale, di riflessione filosofica e di pathos drammatico, con mano leggera, senza cioè avere la fretta di definire confini, concetti, categorie. A tratti questo film possiede invece addirittura la leggerezza di un "Il favoloso mondo di Amelie", di Jean-Pierre Jeunet, del 2001, anche negli accesi colori pastello della fotografia (egregia) di David E. Valdez. E' appunto questo muoversi leggero su tematiche pesanti come il dramma familiare della rottura di legami di sangue e d'affetto, il vero, grande pregio di questo film, pregio maggiorato dal fatto di essere un corto costruito su una sceneggiatura pulitissima e senza l'uso dei dialoghi. Se a tutto questo aggiungiamo inoltre una capacità, da parte di Teo, di esprimere la sua poetica sperimentando generi differenti, nonchè il coraggio di affrontare il tema del dolore senza infingimenti o ipocrisie holliwoodiane, allora "Take me somewhere nice" diviene davvero un piccolo gioiello da segnalare assolutamente a chi possiede un occhio attento alle evoluzioni creative della mente di un artista, in particolare di un regista. "Take me somewhere nice" : corto di notevole valore artistico, filosofico, conoscitivo. Regia: Pearry R. Teo Sceneggiatura: Pearry R. Teo Fotografia: David E. Valdez Effetti Speciali e Make Up: Michael Peterson  Sound Designer: Lisa Fowle Cast: Cole Braxton, Clint James, Shanna Brock, Frances Feld, Brian Mulligan, Jennifer Barry.Julia Altamirano. Nazione: USA Produzione: Ascension Pictures. Anno: 2004 Durata: 17 min. 

martedì 18 gennaio 2011

Children of the Arcana, di Pearry R. Teo (2003)


Gordion Ashton assolda un giovane di nome Steve perché gli preparari un set di 6 Tarocchi fatti di pelle umana,  per un rituale che desidera eseguire su se stesso. Il rituale prevede di cucire le carte dei Tarocchi sulla propria pelle. Questo gli permetterà di varcare il confine tra la vita e la morte e di “vedere” l’aldilà.  Ma Gordion muore durante il procedimento e viene inviato in Purgatorio dove l’impietoso Guardiano ripercorrerà la sua vita, per decidere se mandarlo  in paradiso o all'inferno.

La sperimentazione di Teo continua, in questo grottescamente macabro “Children of the Arcana”, del 2003, che vede ancora Layton Matthews (Gordion) come protagonista. Il film è un omaggio a H. P. Lovecraft, come segnalato esplicitamente nei titoli di testa, e alle atmosfere dello scrittore di Providence il film rimanda in modo piuttosto evidente. Il budget è inoltre salito e lo si coglie dalla qualità visiva, nonché da una notevole cura dei piani sequenza,  soprattutto da certi ispirati primi piani di Matthews, nelle sequenze iniziali del bar, quando parla con Steve. La fotografia di Keith Collea illumina in modo pastoso ma sempre ben definito tutto l’allestimento. Il corto riverbera un suo fascino del tutto particolare, soprattutto nel suo evocare atmosfere da romanzo gotico ottocentesco. Viene in mente “Lo strano caso del Dr. Jekill e Mr. Hide” di C.L. Stevenson: laboratori dove lo scienziato pazzo vuole provare a guardare oltre la soglia di un inconscio che non si fa facilmente inquadrare da una equazione matematica; arnesi pseudoscentifici, siringhe contenenti liquidi verdognoli, senza tuttavia l’ironia splatteriforme di uno Stuart Gordon (forse il nome “Gordion” vuole essere un larvato omaggio al maestro Gordon? Non sappiamo, ma siamo liberi di supporlo). C’è qui, invece, tutta l’onnipotenza dell’uomo (scientifica, artistica, cinematografica), squadernata attraverso la sua autopsia, la sua vivisezione, rappresentata dal Purgatorio hellraiseriano cui accede Gordion, accecato appunto dalla promessa onnipotente che fa a se stesso. E tutto è molto serio, per nulla ironico, proprio come il modo con cui il Guardiano accoglie Gordion, nell’immobilità paralitica di una barella autoptica, come dicevamo. E ancora una volta è la pelle a diventare portale magico attraverso cui superare il limite, la finitezza dell’umano. Da questo punto di vista le sequenze in cui Gordion si incide via brandelli rettangolari di pelle, con un taglierino, per applicarvi al loro posto i tarocchi lovecraftiani, fanno una certa impressione e acquistano una loro potenza perturbante che ritengo sia raro trovare in altre similari produzioni di genere. E’ un uso del gore molto parco, misurato, chirurgico, appunto. Ma quando si presenta, questo tipo di gore “punge” l’occhio interiore di uno spettatore che non si aspetterebbe di vedersi spiattellata davanti in un sol colpo tale onnipotenza masochistica. Ma non è solo questo, potremmo dire “banale”, espediente horror-oriented a rendere originale la sperimentazione di Teo. Anche le performance attoriali, sebbene inscatolate in soli 22 minuti, hanno da dire qualcosa di interessante: la figura del Guardiano, sempre così incombente e a sua volta totipotente, è ben costruita ed evocativa di per sé di un senso di notevole claustrofobia, anche solo nel modo macchinico, manierato, in cui si muove nell’angusto spazio del suo obitorio-purgatorio. In sintesi anche questo secondo corto di Pearry R. Teo, ne evidenzia un talento e un esprit intuitivo, che andrebbero certamente raffinati, ma che sanno innovare il linguaggio del cinema perturbante, pur nei limiti del microcosmo indie in cui sono nati e cresciuti.
Regia: Pearry Reginald Teo Sceneggiatura: Minh Ngurn, Pearry R. Teo Fotografia: Keith Collea Music Design: Lisa Fowle Special Effects e Make Up: Kim Collea, Edward Dick Cast: Layton Matthews, Frances Feld, Joe Jones, Arron Reamer, Marcus Longoni.  Produzione: Aaquinas Productions, Ascension Pictures. Nazione: USA Filming Locations: Tucson, Arizona, USA. Anno: 2003. Durata: 22 min.

sabato 15 gennaio 2011

Liberata me, di Pearry R. Teo (2002)

Julian Arkgoth è un ragazzo che si suicida, ma che subito dopo l'estremo atto, si sveglia, come in un incubo, nel quale si trova a rivivere la sua vita tutta da capo. Quello che ricorda è che questa bizzarra e incomprensibile esperienza che sta facendo, ha qualcosa a che fare con una tavola esoterica “Ouija” che si è fatto tatuare sulla schiena, allo scopo di entrare in contatto con uno Spirito. Una tavoletta “Ouija” è infatti una superficie di legno sulla quale sono scritte tutte le lettere dell'alfabeto, nonchè un "sì" e un "no". Scopo della tavoletta è porre domande alle anime dei defunti, che attraverso un medium rispondono con il movimento di una lancetta sulle lettere incise sulla tavola. 

“Liberata me”, primo corto di Teo, del 2002 (tratto dal racconto “Fade to black”, dello stesso regista), soffre di un budget inesistente che riduce all’osso un esordio indie-underground, peraltro attraversato da intuizioni a tratti sorprendenti.  In questo film si coglie con chiarezza che molte sono le potenzialità creative embrionali che la mente-pancia di Teo sarebbe in grado di partorire, avesse almeno qualche quattrino in più da spendere. Ciò nonostante il narrato parte subito in quarta e senza mezzi termini, mostrandoci Julian, eroinomane, alle prese con la complicatissima ricostruzione di una vita passata a bucarsi, attraverso flash-back rapidissimi, in bianco e nero, che rimandano un’idea di sfasamento temporo-spaziale di tipo lisergico. Alcune soggettive sono puro sperimentalismo, come quella del “buco” insieme agli amici con cui Julian perfora il tatuaggio di una donna nuda crocifissa, con l’ago della siringa. Sangue, sesso, pelle, sono rappresentati in una condensazione che itera con ossessività delirante il tema del tatuaggio, ovvero il simbolo della non-separazione per eccellenza. Tale tema somatico è a sua volte embricato con quello del confine Vita-Morte. Il confine somatico costituito dall’Io-pelle è messo così in dialettica con il confine “spirituale” tra aldiqua e aldilà, e tale operazione è molto interessante. La rappresentazione di questa dialettica è affidata ad un protagonista, Layton Matthews, che sa essere assai incisivo con quello sguardo spiritato e lynchiano alla “Eraserhead” (1977). Il film è inoltre ritmato, nella gestione dell’angoscia, da alcuni twist di una certa intensità tensiogena. Per esempio,  dopo alcuni brevi dialoghi tra i compagni eroinomani di Julian, dialoghi nei quali Teo sembra voler distendere la tensione, ecco che arriva, come una martellata improvvisa, la sequenza dello strappamento della lingua. Una sequenza che possiede, perdonatemi l’ossimoro, una sua finezza gore di preziosa e inusitata bellezza. Anche l’allestimento scenico tutto ambientato in luoghi degradati, con pareti verdognole schizzate da liquami indefinibili, oppure in cantine adibite a discoteche underground dove si esibiscono gruppi musicali indie, contribuisce a generare un senso, decisamente potente, di deriva e rapido sconfinamento tra umano e non-umano. Ripeto, è il budget ciò che rende modesta questa opera prima di Teo,  ma anche il finale riesce comunque a risultare sinistro e spiazzante quanto basta, anche considerando i limiti di tempo di un cortometraggio. Qualche dubbio, dopo la visione di questo film, mi è tuttavia rimasto relativamente al titolo, che desidera richiamare a tutti i costi un’aura esoterica, attraverso un uso pseudo-colto del latino. Intellettualismo inutile nonché eccessivo, che scade inoltre (involontariamente?) nel maccheronico, poiché non si capisce bene come tradurre il senso di “liberata”, femminile, connesso a “me”, maschile, che si riferisce al protagonista. A me pare di ritrovare in questo uso intellettualistico del latino, quell’atteggiamento del regista, un pochetto “aristocratico” e ancora intriso di supponenza adolescenziale, che ritroviamo anche nel successivo “Necromentia”. Occorre tuttavia riconoscere e distinguere quelli che sono normali peccati di gioventù, dagli elementi creativamente validi e innovativi di un’opera. Elementi, questi ultimi, senza dubbio presenti in “Liberata me”, e che il budget ridicolo non è inoltre, e comunque in grado di offuscare minimamente. “Liberata me”: piccolo esperimento avanguardistico-indie di pregio.  Regia: Pearry Reginald Teo Sceneggiatura: Effie Fleming, Pearry R. Teo Fotografia: Gus Kyriakakis Music Design: Lisa Fowle Special Effects e Make Up: Francisco Guerra, Daniel Hernandez Cast: Layton Matthews, Shawna Mansour, Robert Pough, Richard House, James Taylor, Heath Garcia, Frances Stacy.  Produzione: Aaquinas Productions, Euphoria Productions, PhysferScreamers Productions  Nazione: USA Filming Locations: Tucson, Arizona, USA. Anno: 2002. Durata: 27 min.

venerdì 14 gennaio 2011

Misanthropy, The Short Films of Pearry Teo (2007)

Del giovane regista di Singapore, naturalizzato americano, Pearry Reginald Teo, avevo già parlato in questa recensione al film "Necromentia", sul vecchio blog. Regista di talento, dobbiamo dire, sebbene incartato in un suo stile pervicacemente indie, entro cui, aristocraticamente, si è da tempo rifugiato, ma al quale non manca un senso del macabro di un certo calibro, declinato sulla linea di demarcazione-confine tra Vita e Morte. Dopo aver parlato di "Necromentia", attendevo con una certa trepidazione il DVD dei "corti" di Teo, precedenti a "Necromentia", e rintracciabili su Amazon.com (che è come dire: "ovviamente introvabili in Italia"). I prossimi tre post sono dunque, rispettivamente, recensioni a "Liberata me" (2002); "Children of the Arcana" (2003), e "Take me somewhere nice" (2004). Mi sembra utile segnalare al pubblico italiano un Autore di Cinema Perturbante, che a me sembra stimolante. Buona lettura, a partire da sabato, con "Liberata me".

mercoledì 12 gennaio 2011

The Brøken, di Sean Ellis (2007)

In occasione della imminente nuova edizione dell' After Dark Horror Film Festival, ora rinominato After Dark Originals (vedi l'interessante post di Antonio D'Astoli, a questo proposito qui ), riposto mia recensione a quello che ritengo uno degli ultimi film degni di nota di un festival decisamente decaduto, soprattutto dal punto di vista dell'ispirazione creativa di chi vi partecipa. 



In una via di Londra, nel quartiere di Bayswater, la radiologa Gina pensa di vedere se stessa alla guida della propria auto. Sorpresa da questo strano evento, Gina segue la donna misteriosa fino al suo appartamento. Da qui, Gina scoprirà l'esistenza di un altro mondo parallelo che la perseguiterà non solo nei suoi incubi, ma anche nella sua vita reale.

Uno dei molti film interessanti che sarà difficile vedere nelle nostre sale è questo “The Broken”, del talentuoso e sperimentalista Sean Ellis, autore di “Cashback” (2005), che adesso si cimenta con questo vero e proprio esperimento horror che si ispira con chiarezza a Hitchcock e a David Lynch, sia nel modo di lavorare sulla suspense, sia nell’uso metafisico dell’immagine. Dico “metafisico” perché certi lentissimi piani-sequenza, nonché certi campi medi e lunghi, mi hanno riportato alla memoria certe vuote e silenziose tele di De Chirico. Infatti mai, come in un film come questo, avevo notato un matrimonio così riuscito tra storia narrata e una fotografia così evocativa e curata da risultare a tratti quasi maniacale. Sembra poi che ad Ellis non importi minimamente il gore, il sangue, le frattaglie sparse  in quanto tali (si veda a tale proposito la bellissima scena della doccia, in cui certo scorre molto sangue, ma che è così hitchcockiana pur andando oltre Hitchcock e innovando radicalmente il tema, che il sangue passa immediatamente in secondo piano). Ad Ellis interessa invece moltissimo l’angoscia di frammentazione dell’identità, nella quale ci avvolge con i suoi lenti movimenti di macchina operando seduttivamente sull’identificazione dello spettatore con la protagonista. Quando Gina si immerge nella vasca da bagno, ci immergiamo insieme a lei nel lungo silenzio inquietante della casa vuota del suo fidanzato (ma sarà poi davvero vuota?...) , e molti brividi ci scorrono lungo la schiena, senza che vediamo nulla di “realmente” spaventoso. Ellis gioca magistralmente col silenzio, col vuoto, con l’ellisse: si tratta di un cinema fatto di epokè, di sospensioni del tempo e dello spazio, entro le quali può succedere di tutto, ma soprattutto può succedere la cosa più terribile, cioè la frantumazione dell’Io, la perdita dei suoi confini. Lo “straniero-che-è-in-noi” invade improvvisamente la coscienza, e lo fa (non è un caso), attraverso lo specchio, che va appunto in frantumi: notevoli sono nel film i campi lunghi in soggettiva che ci fanno guardare da dentro lo specchio verso l’esterno, come a voler significare che lo spazio è dilatato, il “fuori” e il “dentro” sono mescolati, fusi, indistinti. Il senso metafisico del mistero e dell’estraneità è tanto più conturbante, tanto più lo ritroviamo calato in un ambiente di opulenza come la Londra dei quartieri residenziali, fatta di garage in cui scintillano Mercedes e BMW. Certo, agli amanti del gore puro il film potrà risultare freddo e trattenuto, così come la recitazione del cast, peraltro governato con mano ferma da un filmaker che ha in mente una sua ben chiara idea di cinema. Ciò non di meno “The Broken”  riverbera un suo fascino straniante che lo rende un piccolo gioiello nel suo genere. Titolo originale The Brøken Genere: Horror Regia: Sean Ellis.Sceneggiatura: Sean Ellis Fotografia: Angus Hudson Montaggio: Scott Thomas Musica: Guy Farley Nazione: Gran Bretagna, Francia Anno: 2007 Cast: Lena Headey, Richard Jenkins, Melvil Poupaud, Michelle Duncan, Asier Newman. Durata: 88 min. 

sabato 8 gennaio 2011

Un caso archiviato, di Arnaldur Indriðason (2010)


Anno: 2007 Tr. It.: 2010  Editore: Guanda  Traduzione: Silvia Cosimini Pagg. 304, brossura ISBN:  978-88-6088-108-3

In una fredda sera d’autunno, in Islanda, una donna viene trovata impiccata nella sua villetta estiva di Ðingvellir. Tutto sembra confermare l’unica ipotesi plausibile: suicidio. Ma quando Erlendur Sveinsson, detective della polizia di Reykjavìk, viene in possesso della registrazione di una seduta spiritica alla quale la donna aveva partecipato poco prima di morire, prova il bisogno irrefrenabile di conoscere la sua storia e di scoprire perché la sua vita si è conclusa in maniera tanto tragica e improvvisa. 

Eccoci dunque al sesto romanzo di Indriðason tradotto in italiano per Guanda dalla sempre ottima Silvia Cosimini. Dopo “Sotto la città”, “La signora in verde” (il migliore tra tutti, a mio modesto avviso), “Un corpo nel lago”, “La voce” e “Un grande gelo”, quest’ultimo “Un caso archiviato”, del 2007, ci consegna un Indriðason attratto dal tema del confine tra vita e morte. Non che tale tematica fosse lontana dall’Autore, al quale il tema del lutto è sempre stato caro, tanto quanto quello, contiguo al precedente, delle “persone scomparse” (come il fratello dell’agente Erlendur, disperso in una tempesta di neve nella brughiera di Eskifjörður nei lontani anni ’50). In quest’ultimo romanzo tuttavia il confine tra Vita e Morte tocca le corde del metafisico. Non ci aspetteremmo, infatti, che un narratore usualmente così asciutto, razionale, convochi tra i suoi personaggi addirittura dei medium, ai quali la vittima, Marìa, si rivolge per riconciliarsi con il padre morto in uno sciagurato incidente marittimo. Superato questo primo istante di spaesamento, soprattutto per un lettore fedele e “totale” di Indriðason, come il sottoscritto, il romanzo si scioglie come il ghiaccio delle acque dei laghi islandesi, e comincia a prendere un suo ritmo familiare, serrato, illuminato da dialoghi dalla psicologia finissima, come quello, davvero memorabile, tra Erlendur e Tryggvi, il clochard. Di questo dialogo non posso fare a meno di citare una parte:

A dire la verità non ho più provato un momento di serenità da quella volta” disse Tryggvi guardando il pullman in partenza per Keflavik. “Ho sempre la sensazione di dover andare da qualche parte, come se aspettassi qualcosa, o se qualcuno mi aspettasse, ma non so dove e non so chi sia e non so dove sto andando”. “Che cosa pensi che sia quello che aspetti?”. “Non lo so. Tu pensi che io sia matto. La gente crede che sia strambo”.

 “Ho conosciuto gente più stramba” disse Erlendur.

Tryggvi continuò a guardare il pullman per Keflavik.

“Non hai freddo?” chiese di nuovo.

“No” disse Erlendur.

“E’ una strana sensazione guardare la gente che parte” continuò Tryggvi dopo un lungo silenzio. “Guardarli salire sul pullman, e il pullman se ne va, C’è gente che parte dalla mattina alla sera”.

“Non ti viene mai voglia di salire e andare da qualche parte?”

“No, io non vado mai da nessuna parte” disse Tryggvi. “Figuriamoci. Io non mi faccio portare via da un autobus. Dove andrà questa gente?Dimmelo.Dove sta andando tutta questa gente?”.(pagg 152, 153).

Uno scambio di battute di questo tipo ha un sapore quasi filosofico, dialogico-platonico, oserei dire, e non è cosa da poco se consideriamo che il dialogo avviene nel bar di una stazione di pullman, alla periferia di Reykjavìk, in una sera d’autunno. Il romanzo si dipana seguendo fili narrativi plurimi, che si intrecciano e annodano sempre intorno al tema (quasi ossessivo) della scomparsa, della “sparizione” dell’oggetto più amato (che sia un figlio, o un fratello, o un padre, non importa). L’infanzia e i suoi traumi impensabili e impensati fanno sempre da sfondo alla scrittura di Indriðason e la sostanziano e la intridono fino al  fondo delle sue ossa. L’umanità nordica descritta dal nostro islandese è un’umanità dolente, attraversata da passioni shakespeariane, ma vissute in minore, fatte di gelosie, competitività meschine, adulteri consumati nella casa di campagna sul lago Ðingvallavatn, oppure all’interno del gruppo di cinici studenti universitari di medicina che vogliono divertirsi facendo “esperimenti” di induzione della morte sul povero, giovane Tryggvi. Piano piano, pagina dopo pagina, vedremo sfumare i fantasmi dello “spiritismo” che avevano rese perturbanti le prime pagine del libro, facendole virare verso un improbabile tema “soprannaturale”, e Indriðason, con la sua solita razionale maestria nordica, ci farà scendere coi piedi sulla terra dei sentimenti umani, unici “fantasmi” capaci di distruttività e odio. Essenziale in questo lento, inesorabile viraggio verso la realtà, diventerà il personaggio-chiave di Leonòra, l’autoritaria madre di Marìa, divorata dalla gelosia e depositaria, insieme alla figlia di un terribile segreto che Erlendur si ostinerà a cercare di svelare, alfine riuscendovi. Sebbene meno compatto, lineare dei precedenti, quest’ultima fatica dello scrittore islandese, si propone come lettura necessaria per sistemare un ulteriore tassello dell’epopea erlenduriana. Tassello che riempie di senso anche le vicende “storiche” della vita del protagonista, in particolare il rapporto travagliato coi due figli, Sindri e Eva Lind. Dopo tanto penare, almeno questo rapporto troverà nel romanzo una sua riconciliazione, raccontata con rara poeticità nella lunga sequenza narrativa del pic-nic consumato sul lago con la figlia. Libro frastagliato e cangiante, modulato e contrastato come il paesaggio islandese che ne fa da sfondo, “Un caso archiviato” è un’opera di cui si consiglia la lettura, non prima, però, di aver gustato a fondo l’aroma inconfondibile dei romanzi precedenti. 

domenica 2 gennaio 2011

Let me in, di Matt Reeves (2010)



In un quartiere periferico di Los Alamos, New Mexico (USA), il ritrovamento di cadaveri completamente dissanguati costringe la polizia a brancolare, come al solito, nel buio più fitto. Omicidi rituali? Un serial killer? Mentre nel quartiere comincia ad aleggiare la paura, un ragazzino locale, Owen, sogna di potersi vendicare dei sorpusi messi in atto ai suoi danni, da parte dei suoi compagni di scuola. Ma finalmente Owen trova un'amica, Abby, una coetanea che si è appena trasferita nel quartiere. Presto i due diventano più che semplici amici. C'è qualcosa di strano in Abby: ha il viso molto pallido, i capelli scuri e grandi occhi. Emana un cattivo odore, non patisce affatto il freddo di Los Alamos,  se salta sembra volare e, soprattutto, la puoi incontrare solo di notte.

Una premessa obbligatoria: per visionare questo film di Matt Reeves occorre mettere in atto preliminarmente  un'operazione di "rimozione volontaria". E' necessario, cioè, far finta di non aver mai visto il film precedente (“Låt den rätte komma in”, 2008) di Tomas Alfredson, tratto dall’omonimo romanzo-culto di John Ajvide Lindqvist. Operazione non facile, lo so, direi quasi impossibile, poichè non è semplice comandare l'astinenza assoluta al nostro preconscio, ma comunque essenziale, se si vuol dare "a Cesare quel che è di Cesare". Il film di Matt Reeves (“Cloverfield”, 2008) è ambientato a Los Alamos, New Mexico, ai nostri giorni. Los Alamos si trova ad un'altitudine di circa 2.200 metri, nel bel mezzo delle Jemez Mountains, nel New Mexico del nord, cosicchè fa comprensibilmente freddo, ed è probabilmente per questo genere di ragioni che le locations si sono concentrate qui. Ambientare la storia di Lindqvist negli Stati Uniti richiedeva cioè un luogo che si avvicinasse agli ambienti descritti nel libro. Ciò che vediamo nel film è infatti, potremmo dire, "isomorfo" a ciò che troviamo nel libro, sebbene lontano dalle atmosfere che può evocare il paesaggio invernale svedese che avvolge il sobborgo di Blackeberg, Stoccolma, negli anni '80 (il romanzo è tuttavia, ricordiamo, del 2004). C'è un bambino, Owen, interpretato da Kodi Smit-McPhee, teneramente torvo e pensoso, con quei due occhioni color cenere che hanno poco a che spartire con i suoi capelli neri che sparano ciuffi di qua e di là. C'è poi la sua vicina, una bambina misteriosa, Abby, (Chloe Moretz), che abita col suo anziano papà, e con la quale Owen fa amicizia nelle gelide serate passate nel cortiletto, sulle giostrine, a chiacchierare timidamente, mentre Abby risolve a velocità inquietante il cubo di Rubik di Owen. Abby non sembra inoltre patire il freddo,  giacchè cammina a piedi nudi sulla neve, come se nulla fosse. Accadono tuttavia fatti terribili quanto inspiegabili a Los Alamos: cadaveri dissanguati vengono scoperti nei boschi pieni di neve, e ben presto sapremo che l'artefice di tali sinistre manovre non è altro che il papà della ragazzina. Abby non è umana, e le burrascose litigate tra lei e il padre, all'interno delle mura domestiche, cominciano a inquietare anche Owen, quando, nelle sue sere di solitudine, sdraiato nel suo letto, sente dall'altra parte del muro, urla appunto inumane levarsi fino al soffitto.  Tutto procede mediante narrazione delicata, intimista, da parte di Reeves, fino a quando vediamo gli occhi grigi e maligni di Abby osservare il cadavere di un malcapitato che lei stessa ha appena ucciso, e di cui ha bevuto il sangue, nel buio di un tunnel in disuso. Abby è un vampiro. Un vampiro dalle sembianze esili e goffe di una preadolescente tremebonda, ma che in realtà ha centinaia d'anni, e che utilizza una sorta di "maggiordomo" umano, il finto "padre", per procurarsi il suo alimento emoglobinico preferito. Ulteriore svolta drammatica nella sceneggiatura può essere osservata nella sequenza (ben pensata, ottimamente girata) dell'incidente presso il benzinaio. Qui Reeves mostra una delle cose più pregevoli del film, che pur grondando di "americanata" lontano un miglio, e pur ponendosi agli antipodi di un testo quale l'originale di Lindqvist, sa integrare letteratura così tanto europea e gusto postmoderno statunitense, quant'altri mai. E lo fa manovrando un cast assolutamente yankee, come giustamente s'ha da fare, inserendo pure un sapore ebraico nella caratterizzazione fisica di Elias Koteas, il poliziotto, con quegli occhialoni neri, che più american-yddish non si poteva. Altra sequenza molto ben costruita è quella del dialogo tra Abby e il padre orrendamente sfigurato, sul davanzale della finestra, all'ospedale. Owen è poi il bambino meno "svedese" che si potesse trovare, tanto quanto Abby che è molto, molto over size (culturalmente parlando) rispetto alla Eli di Lindqvist. Ottima anche l'idea di modificare i nomi dei protagonisti, proprio per dare l'idea dell'interpretazione non pedissequa di una materia troppo "altra" da poter essere assorbita come tale, tout court, nello script. Questo è appunto "Let me in": una libera interpretazione, in chiave tutta americana, del commovente romanzo horror dello scrittore svedese. E a questo punto possiamo anche sospendere l'operazione di "rimozione volontaria" che suggerivamo all'inizio. Il film di Reeves nulla ha a che fare con il film di Alfredson, che possiede tutto un suo spessore europeo. Un film che ha dietro di sè tutta la Kultur europea. E che il film di Reeves ha la consapevolezza di non avere. E' cioè un film umile, che sa stare nei suoi confini, coi piedi per terra, pur ponendosi il legittimo obiettivo di interpretare un testo romanzesco, traducendolo in immagini. Le musiche di Giacchino e la fotografia buia, ma scarsamente contrastata di Greig Fraser, avvolgono con delicatezza un tessuto narrativo consapevole dei suoi limiti, ma che sa essere anche molto adeguato nel raccontare ai "fratelli americani" una storia tutta europea. "Let me in": da vedere, dopo aver rimosso Alfredson, il piccolo Oskar, e, soprattutto, la grandiosa Eli, Lina Leandersson, la più memorabile di quel cast. 
Regia: Matt Reeves Sceneggiatura: Matt Reeves Fotografia: Greig Fraser Musica: Michael Giacchino Cast: Chloe Moretz, Kodi Smit-McPhee, Richard Jenkins, Jimmy Pinchak, Sasha Barrese, Chris Browning, Cara Buono, Elias Koteas, Seth Adkins, Rachel Hroncich, Dylan Minnette Nazione: Gran Bretagna, USA Produzione: EFTI, Goldcrest Postproduction London, Hammer Film Productions Anno: 2010 Durata: 110 min.