Amelia lavora in ospizio per anziani. Suo marito è morto da sei anni , cioè da quando è nato suo figlio Samuel, che di anni ne ha appunto sei. La vita di Amelia, donna completamente sola, in gravi difficoltà economiche, è molto difficile, anche perché Samuel sembra soffrire, man mano che gli anni passano, di seri disturbi comportamentali non facilmente diagnosticabili: paure notturne incomprensibili, agitazione psicomotoria, iperattività, e soprattutto il timore profondo, incontrollabile, che di notte venga il Babadook, una mostruosa creatura con denti e artigli affilati, pronta ad uccidere lui e la mamma. Le cose non migliorano quando nella loro casa si materializza misteriosamente un libro di fiabe che porta proprio il sinistro titolo di "The Babadook"...
Sollecitato dalle molte recensioni che circolano in rete su questo film dell'australiana Jennifer Kent, mi accingo anch'io (a questo punto, dopo la visione, posso dire "necessariamente") a dire due cose su questo vero gioiello di genere Perturbante. E' probabile che molte cose che dirò siano già state dette, perché si tratta di un film che merita davvero di attenzione e di commento, sebbene creda che la sua preziosa poeticità meriti per certi versi di essere solo fruita, osservata, maneggiata con delicatezza, senza contaminarla con inutili e superflue parole. Si tratta infatti di un film che va guardato, sedimentato e "digerito" con calma, che va goduto in un meditato e profondo silenzio. Cercherò quindi di osservarne versanti differenti, non esplorati da altri, con uno sguardo magari più psicoanaliticamente orientato rimandando ad altre importanti recensioni di questo film, più strettamente "cinematografiche", di vari amici blogger che seguo con attenzione (vedi in particolare le recensioni a "The Babadook" di Simone Corà, Elvezio Sciallis, Lucia, Love is the Devil). E cercherò, soprattutto, di non aggiungere chiacchiere sovrastrutturali inutilmente sovrabbondanti.
Come dicevo, il film bisogna innanzitutto visionarlo con tutta la tranquillità dovuta. Commentarlo o addirittura cercare di trasmetterne il senso (o meglio i sensi) è molto difficile, quindi partirei "per associazione libera" dalla frase che dice il medico cui Amelia si rivolge dopo una grave crisi di panico di Samuel, che avviene in automobile, mentre Amelia sta guidando, e Samuel è spaventato dalla presenza, accanto a lui, (invisibile/fantasmatica) del Babadook. Il medico, dopo aver visitato il bambino nel suo ambulatorio, dice, con la voce un pò stanca del pediatra di provincia: "Potrebbe trattarsi di una convulsione febbrile. Succede quando l'encefalo si surriscalda". Che cos'è che "surriscalda" l'encefalo di Samuel? Possiamo dire innanzitutto il peso di dover stare con la mamma in assenza di un papà morto a seguito (o in contiguità) con la sua nascita. La nascita del bambino coincide con la morte di suo padre, col suo affondamento, e basterebbe solo questo tratto di script a rendere interessante la vicenda. Ma Jennifer Kent (che scrive anche la sceneggiatura) non si ferma qui, e procede come un caterpillar ad organizzare un film sulle devastanti conseguenze emotive di un lutto che determina un Edipo col segno meno, un Edipo in cui è Laio che che chiede (fantasmaticamente) al figlio di giacere con Giocasta, di essere più "uomo" di lui stesso. E' questo peso soverchiante, impossibile da portare per Samuel, a "surriscaldare l'encefalo", a generare il Babadook.
I bambini di solito sognano di "sposare" la mamma. Di essere loro i "Principi Azzurri" ideali delle fiabe che la mamma legge prima che si addormentino. Immaginiamoci una situazione in cui, improvvisamente, questo sogno identificatorio di un bambino venga a realizzarsi veramente, cioè una situazione in cui il bambino possa "davvero" diventare il Principe Azzurro della mamma. Se il "far finta", segno distintivo della narrazione fiabesca e della dimensione del gioco, venisse meno, allora bambino si sentirebbe posto in una situazione emotiva insostenibile. E' la cifra del sogno/fiaba a rendere il desiderio edipico sostenibile (ed elaborabile): se questa cifra crolla, allora entra in scena l'angoscia, il "surriscaldamento". Jennifer Kent riesce con maestria rara a definire un quadro di questo tipo, evocando una semplice, direi banale, figura fiabesca, quella del Babau (l'"Uomo Nero che ti tiene un mese intero..."). E ci riesce soprattutto attraverso un'uso del montaggio che sul piano dell'effetto straniante/perturbante, non possiamo che definire geniale, in una regista come lei, all'esordio in un lungometraggio di ben 93 minuti.
Il montaggio (realizzato da un ottimo, ottimo Simon Njoo) è il vero strumento cardine che l'artigiana Kent è capace di utilizzare con efficacia somma in questa sua officina perturbante che si chiama Babadook, nella quale ci fa entrare subito, quasi spingendoci dentro con piccoli, rapidi e costanti colpi ben assestati. Tale strumento diventa gruadualmente una vera e propria tagliola, o per meglio dire una garrota, perché avvita su di sè velocissimamente la storia senza che lo spettatore abbia il tempo di accorgersene. E' come se la macchina da presa fosse sempre più avanti delle nostre capacità difensive/adattative di spettatori medi di un film di questo tipo. E tutto ciò comincia ad avvenire dal primo momento del minutaggio, per cui, quando ci accorgiamo di essere (solamente!) a circa metà della pellicola, ci si stringe un attimo il cuore...
Il tutto è per di più immerso in una fotografia (di Radek Ladczuz) ipoilluminante, anche negli esterni più assolati, come a voler generare un senso di appiattimento leggero ma soffocante in modo sufficientemente fastidioso, a partire dalla stessa luminosità della visione. Stesso effetto hanno le caratterizzazioni dei personaggi che ruotano intorno ad Amelia (si vedano i funzionari dei Servizi Sociali che si presentano a casa sua, e che sembrano usciti da un ufficio polveroso della vecchia DDR).
Ma è certamente nella caratterizzazione femminile della figura di Amelia, e nella descrizione inesorabilmente puntuale della involuzione sempre più regressiva del suo disagio basato su una solitudine senza rimedio, che Jennifer Kent dà il meglio di sè. Il suo rapporto con Samuel, l'emersione lenta e liquida, infiltrativa di un'ambivalenza mai pensata in precedenza nei confronti del figlio, il deserto sociale che viene a crearsi intorno a lei (si veda il rapporto conflittuale con zia Claire) diventano spire cosmico-gravitazionali di un buco nero che pian pano la inghiotte. L'odio "controtransferale" materno fa così da pendant all'assenza del Padre, di quel Principe Azzurro che Samuel non può essere. L'Edipo è infatti, innanzitutto, un contenitore protettivo che detta un limite, che chiude la porta ad ogni pulsione di impossessamento, di divoramento (sia del bambino che della madre), che struttura la mente e ne garantisce il senso di separatezza intrasoggettiva. La Kent decostruisce tale assioma fondativo della mente attraverso la rappresentazione della deriva mentale di Amelia, ben evocata dalla lunga, notevole sequenza dello zapping televisivo di Amelia seduta in poltrona, zapping che diventa il perfetto rispecchiamento di una frammentazione mentale in statu nascendi.
Tale destrutturazione emotiva, edipica, relazionale duale (rapporto madre.bambino), sociale, investe, nel lungo (forse troppo) prefinale, anche il piano temporale e l'assetto ritmico-circadiano sonno-veglia. Non capiamo più chi sta dormendo, chi è sveglio, chi sogna, se sogna, o se è realtà. La Kent, sempre con un'uso micidialmente straniante del montaggio, ci confonde fino a far emergere la tragica verità emotiva che muove, fa palpitare il cuore di tutto il film e che ne estrinseca tutta la sua poesia (e architrave di questa momento evolutivo fondamentale dello script è senz'altro la sequenza dell'incontro/scontro tra Samuel e la mamma in camera da letto). Una poesia, dicevo all'inizio, che non credo abbia bisogno di molte parole, e proprio per questo qui mi fermerei, senza aggiungere i molti richiami, pregevolmente elaborati dalla Kent, a molti altri film di genere. Aggiungo solo che è molto raro vedere un film che sappia così bene integrare ed esprimere il Perturbante come organizzatore narrativo di elementi emotivo-affettivi e socio-psicoogici che guardano in molte, diverse e "altre" direzioni.
"The Babadook": da non mancare.
Regia: Jennifer Kent Soggetto e Sceneggiatura: Jennifer Kent Fotografia: Radek Ladczuz Montaggio: Simon Njoo Cast: Essie Davies, Daniel Henshall, Noah Wiseman, Tim Purcell, Tiffany Lyndall-Knight, Hayley McElhinney, Cathy Adamek, Adam Morgan, Barbara West, Benjamin Winspear Nazione: Australia Produzione: Causeway Films, Smoking Gun Poroductions Durata: 93 min.
[Consiglio anche la visione di questo lungo, interessante trailer, nonchè del corto "Monster", di Jennifer Kent, 2005, più sotto]
Regia: Jennifer Kent Soggetto e Sceneggiatura: Jennifer Kent Fotografia: Radek Ladczuz Montaggio: Simon Njoo Cast: Essie Davies, Daniel Henshall, Noah Wiseman, Tim Purcell, Tiffany Lyndall-Knight, Hayley McElhinney, Cathy Adamek, Adam Morgan, Barbara West, Benjamin Winspear Nazione: Australia Produzione: Causeway Films, Smoking Gun Poroductions Durata: 93 min.
[Consiglio anche la visione di questo lungo, interessante trailer, nonchè del corto "Monster", di Jennifer Kent, 2005, più sotto]