Jack, un operaio che lavora all'interno di condotti per le acque reflue, viene intrappolato all'interno di una fossa settica che si trova in una grande raffineria dismessa. In questo claustrofobico luogo Jack subisce una micidiale contaminazione che lentamente lo trasformerà in un mostro irriconoscibile. Come se non bastasse la moglie Shelley, che aspetta un bambino, lo ha lasciato, poco prima che l'uomo si avventurasse all'interno della fossa. L'unico modo per sfuggire ad un destino tragico, sarà quello di collaborare con un uomo dalle dimensioni gigantesche e confrontarsi con un efferato assassino chiamato Lord Auch...
Ci troviamo catapultati in un ambiente di provincia americana postapocalittico, dopo che intere città sono state evacuate causa misterioso inarrestabile contagio, di cui vediamo subito gli effetti su una giovane donna nella lunga sequenza iniziale. Trattasi di sequenza che fa ben sperare gli amanti del genere contagion movie: cieli grigi, natura decaduta, inquinata, inospitale sempre in primo piano, acqua come protagonista principale del film: un acqua che trasporta morte, malattia, trasformazione involutiva, l'esatto contrario, cioè, dell'archetipo bachelardiano della "poetica dell'acqua" come nascita e rinascita dello spirito, come rispecchiamento, come integrazione tra abisso e superficie. Cook lavora questo tema guardandolo dal punto di vista del "negativo" fotografico. Ci mette di fronte ad una umanità in declino, un'umanità colpevole di aver ridotto la natura allo stato di deposito tossico nel quale gli esseri "umani" non possono che aggirarsi ora come zombie, contaminati dai veleni che loro stessi hanno prodotto nel corso della loro triste, tristissima storia.
Sulle prime siamo quindi quasi tentati di pensare ad un'ispirazione filosofica di questo film (Gunther Anders? Sartre?), perché tutto sembra ridotto all'osso di un non-senso che avvolge tutto e tutto risucchia, non-senso cui il film potrebbe sembrare di voler dare una sua originale seppur pessimistica risposta. Le brevi sequenze che riprendono il dialogo tra Jack e Shelley in salotto, nella loro casa, prima della partenza (definitiva) di Jack per i cunicoli mortiferi della fabbrica, sembrano tratte da una piéce teatrale di Pinter: si tratta infatti di un'interazione che è in realtà un' uccisione-della-relazione. A partire da questo intreccio di coppia subito sciolto nell'acido, nel putridume di un indifferenziato psico-biologico indotto dal "contagio", tutto rotola piano piano ma inesorabilmente verso il basso di una fossa settica dalla quale Jack non uscirà più (sì che ne uscirà, sul piano dello script, ma solo su quello, mentre su tutti gli altri Jack è già morto).
Dicevo di una tentazione di impronta filosofica che sembra brevemente voler catturare lo spettatore, o che il regista sembra voler praticare mediante un uso che appare deliberatamente iperbolico dei simbolismi legati al tema della natura e del suo rapporto con l'uomo. E' appunto un lampo fugace, un sentore all'inizio pungente ma che si fa leggero fino a svanire nell'aria. Il film infatti si incarta molto presto all'interno dei cunicoli claustrofobici che si dipartono dalla fossa settica in cui Jack, "Septic man", è rinchiuso. Buone le premesse, verrebbe da dire, ma catastrofici gli sviluppi. Risulta molto presto evidente che Cook non è affatto in grado di gestire gli spunti estetico-filmici che dissemina all'interno dello script. Li butta via, semplicemente, non li lavora.
Tutto è posto sulle spalle di un Jason David Brown dallo spessore attoriale inesistente, dalla "maschera" perturbante pressoché ininfluente, nonostante gli esperti di make-up arruolati alla bisogna lo abbiano conciato peggio del Freddy Kruger bruciato vivo quella lontana notte in Elm Street. E il peso il nostro Jason non lo regge (e perché dovrebbe?): per di più non lo aiutano le pessime, incoerenti musiche di accompagnamento di Nate Kreiswirth, e neppure la fotografia, presumibilmente dello stesso Cook (non sono riuscito a trovare nessuna menzione di un qualsivoglia Direttore della Fotografia nei titoli di coda, che ho peraltro letto e riletto attentissimamente). Il "coro greco" dei personaggi di contorno al protagonista sono semplici burattini senza fili che non producono alcuna vibrazione significativa nella spenta e vacua polifonia che Cook ci vuole a tutti costi propinare.
Film alla fine pretestuoso, dalle ambizioni eccessive, che produce il solo risultato di presentarsi come un contenitore vuoto e privo di ogni spessore, come ben raffigurato dalla sequenza del prefinale, in cui Cook tenta la carta del ricongiungimento tragico-mortifero (nel senso del teatro greco) della coppia Jack-Shelley, con Jack tramutato in una sorta di improbabile, impresentabile Medea al maschile, che non fugge follemente sul carro del Dio Sole, come nella tragedia di Euripide, ma s'inabissa nel liquame repellente di una terra che lo rifagocita. La vuotaggine dello script e della sua realizzazione filmica raggiungono poi l'acme assoluto nel finale, che forse vorrebbe rappresentare una sorta di rinascita mostruosa, per la precisione la ri-nascita di un freak come unica alternativa possibile ai danni provocati dall'uomo su una Natura che si vendica su di lui.
Buone le intenzioni, ripeto, buoni gli spunti, ma drammaticamente fallimentare la loro realizzazione narrativo-filmica, sotto ogni profilo. "Septic Man": film da evitare quindi con ogni cura.
Regia: Jesse Thomas Cook Soggetto e Sceneggiatura: Tony Burgess Musiche: Nate Kreiswirth Montaggio: Jesse Thomas Cook Cast: Jason David Brown, Molly Dunsworth, Julian Richings, Robert Maillet, Tim Burd, Stephen McHattie, Nicole G. Leier Nazione: Canada Produzione: Foresight Features. Durata: 83 min.
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