Una donna, trasferitasi con il marito poliziotto in una zona rurale degli Stati Uniti, è posseduta da un'entità misteriosa. Ma più del demone che la divora dall'interno, dovrà affrontare uno sconvolgente segreto che si cela dentro di lei...
Halloween e le sue suggestioni si avvicinano: come si fa, dunque, a lasciarlo passare senza dare uno sguardo a qualcosa di perturbante che sia utile a commemorarlo come si deve? Diamo dunque un'occhiata a questo recente "The Appearing", del giovane regista Daric Gates, nato a Louiseville, Kentucky, USA, che ci sforna un "dolcetto-scherzetto" molto gradevole per essere il suo primo esordio in fatto di Cinema Perturbante, sapendo scegliere i giusti ingredienti del sottogenere possession-movie, e riuscendo a spaventarci al punto giusto, in modo onesto e non "telefonato", pur scivolando su alcuni stereotipi ricorsivi e consunti, primo fra tutti quello del trauma da cui provengono i due protagonisti.
Michael e Rachel sono infatti un marito e una moglie corrosi dal lutto per la morte della loro giovanissima figlia, annegata nello stagno confinante con la loro vecchia casa. Michael è un poliziotto che decide di trasferirsi, ascoltando la richiesta di Rachel, nella remota cittadina di Glenwood Bay, allo scopo, del tutto illusorio, di porre una distanza geografica tra se stesso e le sue emozioni più dolorose. A ricevere la coppia presso il nuovo cottage dove risiederanno è il detective Hendricks (un Don Swayze legnoso e paternalistico ma anche molto rappresentativo di certi personaggi normalmente "schizoidi" e isolati della provincia americana).
Ciò che colpisce subito (positivamente) di questo film è la cupezza immersiva delle atmosfere in cui Gates introduce lo spettatore fin dai primissimi minuti della storia: niente inizio idilliaco, niente tramonti dorati su morbide colline punteggiate di aceri; al contrario abbiamo immediate visioni/flash-back della figlia che cade in acqua, visi straziati dal dolore, come a ridisegnare una sorta di "Antichrist" in minore e per giunta senza le pretese e le ambizioni estetiche dell'originale. "Antichrist" sembra quasi una lontana eco che Gates evoca sommessamente, e a mio avviso del tutto consapevolmente, ben sapendo che da certi "brand" non è molto facile emanciparsi, così, in quattro e quattr'otto, soprattutto se si scrive un film centrandolo sulla tragedia della morte di un figlio. Tale eco tuttavia non disturba affatto, e soprattutto non fa da freno ad una storia che prosegue per la sua strada perturbante lasciando von Trier indisturbato a casa sua, a Copenhagen.
Diciamolo subito: la strada su cui prosegue il cammino di "The Appearing", aldilà di von Trier, è certamente un percorso accidentato. Gates innanzitutto ci invade con un profluvio di immagini visionarie dai colori acidi: si tratta delle visioni di Rachel, di cui non capiamo il motivo e il cui senso lo script ci dispiega in modo molto sfilacciato e del tutto incongruo nel corso del minutaggio. Sembra quasi che il regista voglia ricucire i buchi di sceneggiatura con il filo composto dalle stesse visioni di Rachel nella casa maledetta che sta maestosamente adagiata sulla collina. E naturalmente a Gates questa ricucitura non riesce, poiché ci vorrebbe ben altro sarto a comporre una trama che chiama a raccolta filoni diversi costringendoli all'interno dello stretto contenitore di un possession movie. Sì, certo, i riferimenti biblici ad Asmodeus, demone della lussuria, dell'odio e della gelosia, legati al tema del fratricidio, segreto inenarrabile che ritorna con la sua potenza coattiva incontrollabile, sono stilemi interessanti, ma vanno dosati e mescolati per bene, altrimenti disperdono molto facilmente la loro vis evocativa. Si tratterebbe cioè di possedere una maestria espressiva e integrativa che Gates non sembra sappia dove stia di casa.
Il tema della "possessione demoniaca" è tuttavia denso di suggestioni, anche da un vertice di osservazione psicoanalitico, e non solo cinematografico (vedi in particolare Grotstein, 2006). Include infatti (inconsapevolmente, per quanto riguarda il cinema) ed esplora in modo creativo e pregnante il concetto di "identificazione proiettiva", modalità di interazione molto studiata nella clinica psicoanalitica, soprattutto nell'analisi di casi borderline o psicotici (ma non solo). Stiamo parlando di situazioni in cui, all'interno di una relazione eminentemente duale (ad esempio quella paziente-analista), uno dei due membri della coppia fa provare all'altro emozioni relative a parti di sè (di chi "proietta") che trova o vive come intollerabili, facendo sì che l'altro vesta i panni dell'altro ("interpreti", come un attore appunto) pur non essendone consapevole. Da qui il termine di "identificazione proiettiva", che si può vedere dunque come una vera e propria "possessione"/impossessamento di un soggetto inconsapevole, di parti del Sè di un altro soggetto (nel caso di pazienti borderline si tratta spesso di figure genitoriali disfunzionali e/o francamente psicotiche). Il lavoro dell'analisi consisterebbe dunque nel ridare i panni all'attore giusto, svelando l'intento inconsciamente invasivo delle proiezioni, che devono tornare là da dove sono venute, pur bonificate e rese più "digeribili" da parte dell'apparato psichico del proiettante.
Tornando a "The Appearing", se sul piano della scrittura filmica Gates fallisce in più punti, come detto più sopra (lo stesso passaggio del demone nel corpo di Rachel appare piuttosto mal scritto, per non parlare del "colpo di scena" all'interno dell'ambulatorio psichiatrico, in cui scopriamo improbabili cose sull'adolescenza di Rachel), ma sul piano della resa della "possessione" come fenomeno identificatorio-proiettivo, il film fornisce buoni spunti visivo-emotivi che determinano momenti di perturbazione inquietante -a tratti molto fine- in chi guarda. Quest'ultimo aspetto è a mio avviso apprezzabile poiché non proprio tutti i film (soprattutto statunitensi) sanno trattare il tema "possessione" in modo non caricaturale o stereotipato.
La stessa ambientazione claustrofilica, dal sapore molto spesso neo-gotico (il paesino di Glenwood Bay, circondato da sterminati boschi di pini, oppure Rachel in vestaglia bianca che sale lentamente le scale della casa, con in mano un coltello), la fotografia piuttosto contrastata, le riprese molto più spesso in notturna che in diurna, la conduzione lenta della storia (92 minuti non sono proprio pochi per un horror...), la scelta di una protagonista femminile sufficientemente scevra dai soliti facili isterismi attoriali hollywoodiani, sono tutti elementi che da soli sanno trasmettere "sotto pelle" un senso di mistero e di insensatezza perturbante, aldilà della stessa sceneggiatura: tanto che a un certo punto pensiamo che della sceneggiatura possiamo tranquillamente fare anche a meno, e cioè che è molto meglio se ci lasciamo sommergere dall'esperienza sensoriale ed emotiva pura che stiamo vivendo. Lo sguardo di Rachel, in alcune sequenze, è infatti capace di trafiggerci, di toccarci nel profondo, di "possederci", ed è questo che infatti di solito vogliamo ci capiti mentre guardiamo un film di questo tipo.
Poco riuscito sul versante della scrittura (vedi anche tutto l'inutile pistolotto sul suicidio della moglie del detective Hendricks), ma molto efficace in alcuni tratti di pennello visivo che da soli valgono la visione di tutto il film in fatto di generazione di brividi lungo la schiena di chi guarda (vedi la sequenza del giradischi con lo sfondo della tenda di velluto rosso), "The Appearing" è un buon esempio di come si possa rimaneggiare il tema dell'"esorcismo" in ambito Perturbante, attraverso modalità non semplicemente ricorsive. Un buon modo per festeggiare il vostro Halloween, e anche un'occasione per riflettere sul tema dell'"identificazione proiettiva" e del suo manifestarsi come un demone insospettabile, quanto subdolo e corrosivo, anche nelle nostre relazioni quotidiane.
Halloween e le sue suggestioni si avvicinano: come si fa, dunque, a lasciarlo passare senza dare uno sguardo a qualcosa di perturbante che sia utile a commemorarlo come si deve? Diamo dunque un'occhiata a questo recente "The Appearing", del giovane regista Daric Gates, nato a Louiseville, Kentucky, USA, che ci sforna un "dolcetto-scherzetto" molto gradevole per essere il suo primo esordio in fatto di Cinema Perturbante, sapendo scegliere i giusti ingredienti del sottogenere possession-movie, e riuscendo a spaventarci al punto giusto, in modo onesto e non "telefonato", pur scivolando su alcuni stereotipi ricorsivi e consunti, primo fra tutti quello del trauma da cui provengono i due protagonisti.
Michael e Rachel sono infatti un marito e una moglie corrosi dal lutto per la morte della loro giovanissima figlia, annegata nello stagno confinante con la loro vecchia casa. Michael è un poliziotto che decide di trasferirsi, ascoltando la richiesta di Rachel, nella remota cittadina di Glenwood Bay, allo scopo, del tutto illusorio, di porre una distanza geografica tra se stesso e le sue emozioni più dolorose. A ricevere la coppia presso il nuovo cottage dove risiederanno è il detective Hendricks (un Don Swayze legnoso e paternalistico ma anche molto rappresentativo di certi personaggi normalmente "schizoidi" e isolati della provincia americana).
Ciò che colpisce subito (positivamente) di questo film è la cupezza immersiva delle atmosfere in cui Gates introduce lo spettatore fin dai primissimi minuti della storia: niente inizio idilliaco, niente tramonti dorati su morbide colline punteggiate di aceri; al contrario abbiamo immediate visioni/flash-back della figlia che cade in acqua, visi straziati dal dolore, come a ridisegnare una sorta di "Antichrist" in minore e per giunta senza le pretese e le ambizioni estetiche dell'originale. "Antichrist" sembra quasi una lontana eco che Gates evoca sommessamente, e a mio avviso del tutto consapevolmente, ben sapendo che da certi "brand" non è molto facile emanciparsi, così, in quattro e quattr'otto, soprattutto se si scrive un film centrandolo sulla tragedia della morte di un figlio. Tale eco tuttavia non disturba affatto, e soprattutto non fa da freno ad una storia che prosegue per la sua strada perturbante lasciando von Trier indisturbato a casa sua, a Copenhagen.
Diciamolo subito: la strada su cui prosegue il cammino di "The Appearing", aldilà di von Trier, è certamente un percorso accidentato. Gates innanzitutto ci invade con un profluvio di immagini visionarie dai colori acidi: si tratta delle visioni di Rachel, di cui non capiamo il motivo e il cui senso lo script ci dispiega in modo molto sfilacciato e del tutto incongruo nel corso del minutaggio. Sembra quasi che il regista voglia ricucire i buchi di sceneggiatura con il filo composto dalle stesse visioni di Rachel nella casa maledetta che sta maestosamente adagiata sulla collina. E naturalmente a Gates questa ricucitura non riesce, poiché ci vorrebbe ben altro sarto a comporre una trama che chiama a raccolta filoni diversi costringendoli all'interno dello stretto contenitore di un possession movie. Sì, certo, i riferimenti biblici ad Asmodeus, demone della lussuria, dell'odio e della gelosia, legati al tema del fratricidio, segreto inenarrabile che ritorna con la sua potenza coattiva incontrollabile, sono stilemi interessanti, ma vanno dosati e mescolati per bene, altrimenti disperdono molto facilmente la loro vis evocativa. Si tratterebbe cioè di possedere una maestria espressiva e integrativa che Gates non sembra sappia dove stia di casa.
Il tema della "possessione demoniaca" è tuttavia denso di suggestioni, anche da un vertice di osservazione psicoanalitico, e non solo cinematografico (vedi in particolare Grotstein, 2006). Include infatti (inconsapevolmente, per quanto riguarda il cinema) ed esplora in modo creativo e pregnante il concetto di "identificazione proiettiva", modalità di interazione molto studiata nella clinica psicoanalitica, soprattutto nell'analisi di casi borderline o psicotici (ma non solo). Stiamo parlando di situazioni in cui, all'interno di una relazione eminentemente duale (ad esempio quella paziente-analista), uno dei due membri della coppia fa provare all'altro emozioni relative a parti di sè (di chi "proietta") che trova o vive come intollerabili, facendo sì che l'altro vesta i panni dell'altro ("interpreti", come un attore appunto) pur non essendone consapevole. Da qui il termine di "identificazione proiettiva", che si può vedere dunque come una vera e propria "possessione"/impossessamento di un soggetto inconsapevole, di parti del Sè di un altro soggetto (nel caso di pazienti borderline si tratta spesso di figure genitoriali disfunzionali e/o francamente psicotiche). Il lavoro dell'analisi consisterebbe dunque nel ridare i panni all'attore giusto, svelando l'intento inconsciamente invasivo delle proiezioni, che devono tornare là da dove sono venute, pur bonificate e rese più "digeribili" da parte dell'apparato psichico del proiettante.
Tornando a "The Appearing", se sul piano della scrittura filmica Gates fallisce in più punti, come detto più sopra (lo stesso passaggio del demone nel corpo di Rachel appare piuttosto mal scritto, per non parlare del "colpo di scena" all'interno dell'ambulatorio psichiatrico, in cui scopriamo improbabili cose sull'adolescenza di Rachel), ma sul piano della resa della "possessione" come fenomeno identificatorio-proiettivo, il film fornisce buoni spunti visivo-emotivi che determinano momenti di perturbazione inquietante -a tratti molto fine- in chi guarda. Quest'ultimo aspetto è a mio avviso apprezzabile poiché non proprio tutti i film (soprattutto statunitensi) sanno trattare il tema "possessione" in modo non caricaturale o stereotipato.
La stessa ambientazione claustrofilica, dal sapore molto spesso neo-gotico (il paesino di Glenwood Bay, circondato da sterminati boschi di pini, oppure Rachel in vestaglia bianca che sale lentamente le scale della casa, con in mano un coltello), la fotografia piuttosto contrastata, le riprese molto più spesso in notturna che in diurna, la conduzione lenta della storia (92 minuti non sono proprio pochi per un horror...), la scelta di una protagonista femminile sufficientemente scevra dai soliti facili isterismi attoriali hollywoodiani, sono tutti elementi che da soli sanno trasmettere "sotto pelle" un senso di mistero e di insensatezza perturbante, aldilà della stessa sceneggiatura: tanto che a un certo punto pensiamo che della sceneggiatura possiamo tranquillamente fare anche a meno, e cioè che è molto meglio se ci lasciamo sommergere dall'esperienza sensoriale ed emotiva pura che stiamo vivendo. Lo sguardo di Rachel, in alcune sequenze, è infatti capace di trafiggerci, di toccarci nel profondo, di "possederci", ed è questo che infatti di solito vogliamo ci capiti mentre guardiamo un film di questo tipo.
Poco riuscito sul versante della scrittura (vedi anche tutto l'inutile pistolotto sul suicidio della moglie del detective Hendricks), ma molto efficace in alcuni tratti di pennello visivo che da soli valgono la visione di tutto il film in fatto di generazione di brividi lungo la schiena di chi guarda (vedi la sequenza del giradischi con lo sfondo della tenda di velluto rosso), "The Appearing" è un buon esempio di come si possa rimaneggiare il tema dell'"esorcismo" in ambito Perturbante, attraverso modalità non semplicemente ricorsive. Un buon modo per festeggiare il vostro Halloween, e anche un'occasione per riflettere sul tema dell'"identificazione proiettiva" e del suo manifestarsi come un demone insospettabile, quanto subdolo e corrosivo, anche nelle nostre relazioni quotidiane.
Regia: Daric Gates Soggetto e Sceneggiatura: Daric Gates, Matthew J. Ryan Fotografia: Montaggio: Musiche: Cast: Will Wallace, Emily Brooks, Dean Cain, Don Swayze, Quinton Aaron, Wolfgang Bodison, Conroy Kanter, Abigail Cooper, Kris Deskins, Tom Calococci, Payton Wood, Meghan McGregor Nazione: USA Produzione: KK Ranch Productions, Sean Robert Entertainment Durata: 92 min.
Angelo:
RispondiEliminaDelle recensioni postate, continuo a prediligere Snowpiercer.
Mi ha molto colpito.
Cristian
@Cristian: Snowpiercer è in effetti un film che ha colpito molto anche me. Lo trovo molto attuale, peraltro. Ti ringrazio di avermelo ricordato :)
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