Circa dieci anni dopo la tragica morte dei loro genitori, Kayle Russel e suo fratello Tim tornano nella casa dove si è consumato sotto i loro occhi quel terribile evento. Kayle è sempre stata convinta che suo fratello, ritenuto colpevole della morte del padre, fosse innocente, e ora che Tim è uscito dal carcere minorile dove ha scontato la sua lunga pena, è decisa a dimostrare che la causa della loro traumatica infanzia risiede in uno specchio antico e stregato. Armata di telecamere e altri ausili tecnologici la ragazza è pronta a tutto pur di dimostrare la sua tesi, nonchè l'innocenza del fratello. Chiusi nella vecchia casa della loro infanzia, i due fratelli daranno inizio ad una lotta micidiale contro il malefico specchio...
A dispetto dei dotti pareri di molti "barbagianni lacaniani" sempre alla ricerca della Verità e soprattutto del "vero" Perturbante freudiano nel cinema, "Oculus", secondo lungometraggio di Mike Flanagan (dopo il notevole "Absentia", 2011), credo sarebbe certamente stato inserito da Freud come elemento di indagine per il suo famoso saggio sul Perturbante (1919). E lo penso almeno rispetto al significato cui personalmente uso dare a tale termine applicandolo ad un film (su cosa intendo per "perturbante" nel Cinema, in particolare horror, ma non solo, invito alla lettura, per chi ne avesse voglia, della mia lunga recensione a "Them" di Xavier e Palud pubblicata sul sito della Società Psicoanalitica Italiana, che trovate qui).
Ma andiamo con ordine: innanzitutto ci troviamo davanti ad un oggetto inanimato (uno grande specchio che ha più di 300 anni), capace di animarsi e generare atmosfere da incubo all'interno del suo raggio di azione ambientale. In seconda istanza abbiamo a che fare con un intreccio di relazioni familiari all'interno del quale spicca il rapporto tra un fratello e una sorella di circa 10-12 anni (il tema della "fratria" è caro a Flanagan, e lo abbiamo visto svilupparsi in modo altrettanto inquietante nel film "Absentia". Ma ci torniamo sopra fra poco, perché è un tema molto importante). Con questi due soli ingredienti (oggetto inanimato + rapporto tra fratelli), posti in dialettica tra loro, Flanagan riesce ad allestire un diorama allucinatorio e demoniaco degno di un Hoffmann, producendo atmosfere angoscianti senza ricorrere ai soliti mezzucci tecnici hollywoodiani che ben conosciamo.
Come avevamo già felicemente notato nel suo film del 2011, il regista di Salem, Massachusetts, è capace di costruire il plot mediante la rappresentazione di rapporti familiari nei quali la parte da leone la fanno soprattutto i dialoghi, sottolineati da primi piani illuminati in modo diafano e surreale, tra i componenti della famiglia, la cui disgregazione affettivo-emotiva viene descritta con graduale, lenta ma inesorabile senso di ineluttabilità. In tale prospettiva sono presenti nel film rimandi sottili, delicati e non compiacenti o fatti in malafede, a "Shining" di Stanley Kubrick.
Ma è il tema del rapporto fraterno (come accennavo più sopra) che viene qui sviluppato da Flanagan con una finezza psicologica così particolare, a risultare, almeno ai miei occhi, il vero, piccolo capolavoro interno ad un film che ha peraltro anche alcuni ovvi difetti, di cui parleremo dopo. Attraverso un montaggio morbido e ottimamente concatenato (di Flanagan medesimo), il regista ci fa oscillare continuamente tra flashback risalenti alla traumatica infanzia di Kayle e Tim, e il racconto presente del rapporto ritrovato tra due fratelli separati per più di 10 anni. Tale oscillazione diventa una vera e propria regressione percettiva ed emotiva costruita sul registro del climax. Un andamento accompagnato da una colonna sonora cupissima e incisiva ma mai strillata, mai invadente. All'interno di questa frammentazione dei piani temporali, Flanagan riesce a mantenere comunque sempre a fuoco la relazione fraterna, mediante dialoghi molto espressivi, nei quali risaltano gli aspetti di conflitto, rivalità, ma insieme di profonda intimità tra i due, nonché la posizione di "saggia sorella maggiore", protettiva e determinata, che riveste Kayle. E questo vale sia per i due fratelli del presente, che per i due fratelli da bambini (un plauso ai piccoli Annelise Basso e Garrett Ryan Ewald, diretti con delicata maestria, ma anche di per se stessi davvero bravi, accidenti).
Con poche, millimetriche battute buttate lì con il giusto timing, Flanagan ci fa sentire l'intenso rapporto che lega un fratello e una sorella naturalmente molto diversi tra loro come tutti i fratelli, ma uniti da una stessa origine attraversata da un trauma praticamente impensabile, non ri-attraversabile sul piano dell'elaborazione psichica. Il regista ci fa toccare con mano i differenti stili caratteriali, le differenti posizioni circa quel passato, le modalità difensive, le piccole fobie, il diverso modo di percepire ed affrontare i problemi, il diverso modo di ricordare. Sebbene il tema del "fraterno" trovi anche in psicoanalisi poco spazio, Freud ne parla comunque in almeno tre sue opere: L'interpretazione dei sogni (1899), Il romanzo familiare dei nevrotici (1908) e, più estesamente in Totem e Tabù (1912-13), rilevandone naturalmente il ruolo di sostituto relazionale del complesso edipico, e sottolineandone la caratteristica di legame particolare, unico nel suo genere, all'interno delle relazioni d'amore. Se infatti il fratello-o la sorella- sono i primi nemici che il bambino incontra sulla sua strada, la relazione fraterna è anche quella in cui il gioco dell'identificazione e dell'amore è più stretto.
Flanagan sembra aver letto Freud molto attentamente, soprattutto se vogliamo guardare al finale spiazzante, drammatico, del film: amore e odio fraterni si mescolano qui come in un velenoso e insieme saporito cocktail che ci tramortisce obnubilandoci la mente. Allo spettatore accade cioè la stessa esperienza di mordere una mela scoprendo che invece è una lampadina che ci fa sanguinare i denti (come accade a Kayle nella memorabile sequenza della mela che diventa lampadina, appunto): il rapporto fraterno, sembra dirci Flanagan (come ci dice chiaramente anche Freud) è proprio come lo vediamo raffigurato metaforicamente in quella sequenza. E' un legame di sangue, nel senso che si fonda su una ferita narcisistica, sul vissuto di gelosia rispetto al non poter possedere, tutti per sè, i genitori. Non a caso lo psicoanalista francese Pontalis, parlando del fraterno, lo descrive come legame di frérocité, parola intraducibile in italiano, che fonde frère (fratello) con férocité (ferocia). Flanagan, attraverso il suo film riesce ad evocare il fraterno come metafora principale del legame di solidarietà umana, e insieme come esempio assoluto di discordia e morte (vedi la sequenza finale).
Certo, il film evidenzia alcune ingenuità dello script, prima fra tutte la rappresentazione dell'esperienza traumatica dei due fratellini, trauma familiare abnorme, che travolgerebbe in pochissimo tempo chiunque, paralizzandone in modo dissociativo qualsiasi reazione. Ma Flanagan sa che noi sappiamo che lui ci sta raccontando una una fiaba macabra sul rapporto fraterno, e nelle fiabe può accadere di tutto.
Film molto onirico, molto profondo, stratificato, valutabile secondo varie ermeneutiche (si potrebbe ad esempio vedere in chiave di rappresentazione di angosce primitive impensabili, trasmesse di generazione in generazione; oppure come riflessione sull'assenza di sguardo-oculus materno come causa di disorientamento, di crollo o non integrazione del Sè, e così via), Oculus rappresenta una notevole, pregevolissima prosecuzione elaborativa dei temi perturbanti abbozzati da Flanagan nel suo primo film (Abstentia). Consigliato, anche, se non soprattutto, per una riflessione non banale in tema di "legame fraterno".
Con poche, millimetriche battute buttate lì con il giusto timing, Flanagan ci fa sentire l'intenso rapporto che lega un fratello e una sorella naturalmente molto diversi tra loro come tutti i fratelli, ma uniti da una stessa origine attraversata da un trauma praticamente impensabile, non ri-attraversabile sul piano dell'elaborazione psichica. Il regista ci fa toccare con mano i differenti stili caratteriali, le differenti posizioni circa quel passato, le modalità difensive, le piccole fobie, il diverso modo di percepire ed affrontare i problemi, il diverso modo di ricordare. Sebbene il tema del "fraterno" trovi anche in psicoanalisi poco spazio, Freud ne parla comunque in almeno tre sue opere: L'interpretazione dei sogni (1899), Il romanzo familiare dei nevrotici (1908) e, più estesamente in Totem e Tabù (1912-13), rilevandone naturalmente il ruolo di sostituto relazionale del complesso edipico, e sottolineandone la caratteristica di legame particolare, unico nel suo genere, all'interno delle relazioni d'amore. Se infatti il fratello-o la sorella- sono i primi nemici che il bambino incontra sulla sua strada, la relazione fraterna è anche quella in cui il gioco dell'identificazione e dell'amore è più stretto.
Flanagan sembra aver letto Freud molto attentamente, soprattutto se vogliamo guardare al finale spiazzante, drammatico, del film: amore e odio fraterni si mescolano qui come in un velenoso e insieme saporito cocktail che ci tramortisce obnubilandoci la mente. Allo spettatore accade cioè la stessa esperienza di mordere una mela scoprendo che invece è una lampadina che ci fa sanguinare i denti (come accade a Kayle nella memorabile sequenza della mela che diventa lampadina, appunto): il rapporto fraterno, sembra dirci Flanagan (come ci dice chiaramente anche Freud) è proprio come lo vediamo raffigurato metaforicamente in quella sequenza. E' un legame di sangue, nel senso che si fonda su una ferita narcisistica, sul vissuto di gelosia rispetto al non poter possedere, tutti per sè, i genitori. Non a caso lo psicoanalista francese Pontalis, parlando del fraterno, lo descrive come legame di frérocité, parola intraducibile in italiano, che fonde frère (fratello) con férocité (ferocia). Flanagan, attraverso il suo film riesce ad evocare il fraterno come metafora principale del legame di solidarietà umana, e insieme come esempio assoluto di discordia e morte (vedi la sequenza finale).
Certo, il film evidenzia alcune ingenuità dello script, prima fra tutte la rappresentazione dell'esperienza traumatica dei due fratellini, trauma familiare abnorme, che travolgerebbe in pochissimo tempo chiunque, paralizzandone in modo dissociativo qualsiasi reazione. Ma Flanagan sa che noi sappiamo che lui ci sta raccontando una una fiaba macabra sul rapporto fraterno, e nelle fiabe può accadere di tutto.
Film molto onirico, molto profondo, stratificato, valutabile secondo varie ermeneutiche (si potrebbe ad esempio vedere in chiave di rappresentazione di angosce primitive impensabili, trasmesse di generazione in generazione; oppure come riflessione sull'assenza di sguardo-oculus materno come causa di disorientamento, di crollo o non integrazione del Sè, e così via), Oculus rappresenta una notevole, pregevolissima prosecuzione elaborativa dei temi perturbanti abbozzati da Flanagan nel suo primo film (Abstentia). Consigliato, anche, se non soprattutto, per una riflessione non banale in tema di "legame fraterno".
Regia: Mike Flanagan Soggetto e Sceneggiatura: Mike Flanagan, Jeff Howard Fotografia: Michael Fimognari Montaggio: Mike Flanagan Musiche: The Newton Brothers Cast: Karen Gillan, Brenton Thwaites, Katee Sackhoff, Rory Cochrane, Annalise Basso, Garrett Ryan Ewald Nazione: USA Produzione: Intrepid Pictures, Blumhouse Productions, WWE Studios Durata: 105 min.