Kevin (James McAvoy) è un individuo nel quale convivono ventitré differenti personalità, e le ha mostrate tutte alla sua psichiatra, l'anziana dottoressa Fletcher (Betty Buckley). Tutte tranne una, la ventiquattresima, nascosta, che sta lavorando nell'oscurità della sua mente per esprimersi e dominare su tutte le altre. Dopo aver sequestrato tre ragazze adolescenti, guidate da Casey (Anya Taylor-Joy), ragazza molto intelligente e coraggiosa, nella mente di Kevin comincia una vera battaglia tra le molte personalità che coabitano in lui e i confini instabili della sua identità cominciano lentamente ad andare in pezzi.
È
facile cadere nel ridicolo quando si mette al centro di uno script un
protagonista che contiene dentro di sé ben 23 personalità, cioè un
protagonista che di fatto è un paziente psichiatrico puro, affetto
da Disturbo di Personalità Multipla, secondo i criteri diagnostici
più diffusi e riconosciuti a livello internazionale. Si tratta,
inoltre, di una forma di patologia epidemiologicamente piuttosto
rara, dalle radici eziotologiche oscure, che si suole far risalire ad
abusi infantili gravi, ma anche su questo aspetto tutto è relativo
poiché il disturbo dipende quant'altri mai da una multifattorialitá
intrinseca nella storia di ciascun soggetto preso singolarmente.
Abbracciare un interesse psichiatrico di tale natura per un regista è
cioè, di per sé, una decisione quantomeno coraggiosa, per non dire
ardita, e che, se non portata avanti con un "grano salis"
adeguato, può certamente presto condurre sul confine del ridicolo.
M. Night Shyamalan prende un attore non particolarmente pregnante
come James McAvoy, lo rade a zero, lo veste e traveste variamente, e
lo piazza a dirigere l'orchestra di almeno 5 o 6 differenti
personalità (tra cui quella di Hedwig, un bambino di 9 anni),
affiancandolo per giunta a sole altre quattro co-protagoniste, di cui
una anziana Betty Buckley (la psichiatra del "mostro", cioè
la dottoressa Karen Fletcher). Messo
in piedi tutto questo circo è persino capace, non solo di non cadere
affatto nel ridicolo, ma per di più, di raggiungere una profondità
e di instillare a piene mani un senso di cupezza perturbante che non
si erano mai viste in nessuno dei suoi precedenti film.
Per operare
questo quasi-miracolo Shyamalan intanto genera,
fin dalle prime sequenze, una dialettica geometricamente perfetta tra
i caratteri delle due personalità più centrali della scena, e cioè
quello di Kevin e quello di Casey (Anya
Taylor-Joy), adolescente dallo sguardo scuro
come il suo passato, tempo antico che
Shyamalan ricostruisce a colpi di fini flashback collocati in forma
di agnizione graduale lungo il corso di tutta la storia. Tali flashback sono fotografati magistralmente da quel grande fotografo che aveva già svolto un gran lavoro in "It Follows" (2014), e cioè Michael Gioulakis. Un fotografo che sa davvero "fotografare" le luci e le ombre dell'adolescenza quant'altri mai.
La
sconvolgente simmetria personologica tra Casey e Kevin, la risonanza
profonda tra queste due personalità così diverse e insieme simili,
la scopriamo tuttavia solo nel prefinale, che ci colpisce come una
martellata su un piede, ma é questo il cuore del film, il suo
compimento giustamente spiazzante, e
amaro, molto amaro, tanto che vorremmo vomitarlo fuori al più presto
se potessimo questo orrido boccone,
ma non possiamo farlo, ahimè.
Il tema dell'abuso perpetrato da adulti folli su minori fragili e
indifesi per costituzione ed etá sembra essere molto caro a
Shyamalan, perché anche nel suo precedente "The visit"
(2015), avevamo
visto capovolgersi le consuete trame affettive che vedono di solito
nonni e nipoti avvolti in un amorevole abbraccio. In "Split"
questo capovolgimento è
denunciato a caratteri cubitali, forse anche mediante la scelta di un
personaggio davvero "cubitale" come appunto Kevin. La sua
24esima personalità emergente, che lui stesso e la sua psichiatra,
la dottoressa
Fletcher, chiamano "La Bestia", infatti non appartiene in
realtà a lui, al tessuto della sua personalità, bensì a quella del
suo abusatore: si tratta cioè di una "identificazione con
l'aggressore" (Ferenczi, 1932).
In questo plot così fosco, scritto completamente dallo stesso Shyamalan, tutto centrato sul l'esito di traumi psicologici e fisici perpetrati a
gravissimo danno
dell'infanzia, grande, grandissima
rilevanza possiede la caratterizzazione della dottoressa
Fletcher, psicoterapeuta che si muove certamente in un alveo teorico
psicoanalitico. Shyamalan riesce a costruire i densi e profondissimi
dialoghi tra la dottoressa e Kevin, durante le loro sedute, con
finezza incredibile, soprattutto agli occhi di uno psicoanalista,
poiché in quei colloqui c'è davvero studio e tecnica
psicoterapeutica non da poco. La Fletcher accompagna Kevin attraverso
il labirinto delle sue scissioni multiple interne, con modalità
niente affatto lontane da quelle utilizzate realmente da un terapeuta
di oggi con un suo paziente anche grave come Kevin. E
lo accompagna come prendendo davvero per mano un bambino solo e
disperato, di stanza in stanza, nella sua casa degli orrori interna.
La finezza empatica dimostrata dalla Fletcher e
sottolineata dai notevoli, a volte insistenti primi piani di una
bravissima Betty Buckley, raccontano il lavoro mentale immersivo e
difficilissimo che un terapeuta svolge tutti i giorni nel suo studio,
un racconto molto
più significativo e potente di quelli raccontati nella tanto
osannata serie televisiva di "In Treatment".
Insomma,
Shyamalan ha dei numeri nel descrivere sia la patologia che la cura,
mostrandone la dialettica insieme simmetrica e asimmetrica, elemento
che non si ritrova così facilmente in certo cinema che vuole
rappresentare ad esempio la psicoanalisi. In questo senso "Split"
è fortemente un film sulla psicoterapia intesa davvero come un
"Dangerous Method", per parafrasare il notissimo film di
David Cronenberg
su Jung del 2011.
Ritengo che se "A Dangerous Method" fosse un film notevole
sul piano della ricostruzione storica del metodo psicoanalitico,
"Split" è sommamente la rappresentazione plastica
dell'esperienza reale di una psicoterapia, con tutti i suoi
slittamenti intersoggettivi benigni
ma anche maligni che avvengono tra paziente e terapeuta, slittamenti
che possono diventare smottamenti e terremoti, perché mossi
essenzialmente da quella "Bestia" pericolosissima è
distruttiva che è il trauma infantile.
La giovane Casey e la sua
storia sono in
questo senso raccontate
con grande poesia e intensità
da uno Shyamalan, che, nel descrivere nello
specifico la figura dello zio John,
sembra proprio voler denunciare il tema dell'abuso, neanche come
"sottotesto", ma come testo dichiarato, seppur in un
contesto di cinema di fiction. La storia di Casey è, anche in questo
caso, molto realistica, una storia cioè che ai terapeuti (come il
sottoscritto) che lavorano spesso
con ragazzi abusati e traumatizzati, risulta purtroppo molto
familiare, cioè per nulla "cinematografica", nonché
raccontata con venature pessimistiche, per nulla edulcorate, come
dimostrano le ultime sequenze composte dalle inquadrature di Casey,
tristemente seduta su una automobile della polizia, luogo
rappresentativo di una Legge che dovrebbe alfine proteggerla, ma che
in realtà non la protegge affatto.
Shyamalan raggiunge una grande
maturità di pensiero e di poetica in questo suo film, che ha inoltre
il merito non secondario di fornire un' immagine autentica, realmente operativa della psicoanalisi e della psicoterapia, nonché della
lotta disperata dell'individuo contro il male che gli può essere
inflitto proprio dalle persone che dovrebbero amarlo di più, e
che si deposita dentro di lui, come una “bestia”, distruggendolo.
"Split" è dunque un film
da vedere, più e più volte per poi discuterne insieme lungamente
con amici, parenti, colleghi - anche non psicoanalisti.
Regia: M. Night Shyamalan Soggetto e Sceneggiatura: M.Night Shyamalan Fotografia: Michael Gioulakis Cast: James McAvoy, Anya Taylor-Joy, Betty Buckley, Jessica Sula, Haley Lu Richardson, Brad William HenkeSebastian Arcelus Nazione: USA Produzione: Blinding Edge Pictures, Blumhouse Productions Durata: 1 h e 57 min.