Pagine
venerdì 28 settembre 2012
martedì 18 settembre 2012
Prometheus, di Ridley Scott (2012)
Nell'anno 2094, l'astronave Prometheus arriva, dopo un lungo viaggio, sul pianeta LV-233. A bordo è presente un equipaggio, riunito da un ricco imprenditore, che ha il compito di rintracciare gli "Ingegneri", una specie aliena umanoide, che secondo due archeologi presenti sull'astronave, ha dato origine alla razza umana sulla terra.
evidenziare l'importanza della rimemorazione storica, del passato, come a dirci che il passato è presente in questo presente, e sarà ancora presente nel futuro, ehi, non dimenticatelo mai. In ogni caso Scott non vuole dimenticare il suo passato filmico, il suo Sè-filmico genetico, le sue di origini (oltre a quelle dell'umanità), infatti ogni sequenza, ogni inquadratura di questa pellicola, trasuda dello stile narrativo di questo padre della sci-fi contemporanea: uso e descrizione degli spazi, tempi, movimenti di macchina, tutto sembra rimandare ad "Alien" (1979). "Alien è figlio mio", sembra volerci dire Scott, anzi, sembra gridarlo a gran voce lungo tutto il percorso del film, ma sembra volerci anche dire: "io sono il padre del cinema di fantascienza contemporaneo". E su questo ha ragione, siamo del tutto d'accordo con lui. Scott ha infatti "visto cose" che noi umani non osavamo immaginarci, come il mutante di "Blade Runner", prima di spegnersi sotto la pioggia scrosciante, sul tetto di un grattacielo. Ma Scott invece non si spegne, la sua fiamma è ancora accesa e desidera illuminarci di nuove epifanie fantascientiche, di non ancora viste visioni del futuro. Ma allora perché Scott si rivolge a Damon Lindelof per realizzare questo desiderio auto ed etero rigenerativo, che poi regala a tutti noi? Questa è la domanda che dobbiamo porci, la vera chiave per aprire le giuste porte interpretative di questo film, almeno secondo il mio modesto avviso. Sì, perchè Lindelof è uno dei creatori di "Lost", lunga, eterna, labirintica serie televisiva che tutti conosciamo, nonché co-writers di "Cowboys & Aliens" (2011), quindi non proprio vicino ad Asimov in quanto a talento narrativo specificamente fantascientifico. E, soprattutto, molto lontano dai climi claustrofobici e perturbanti di "Alien" (in quel caso lo script era di Dan O'Bannon, decisamente più esperto in fatto di storie spaziali cinematografiche, non televisive). Continuiamo con le riflessioni sparse. Un altro elemento interessante è decisamente il cast: il volto giovane e fresco di Sigourney Weaver in "Alien", viene qui sostituito da quello di Noomi Rapace, nome al momento molto gettonato, dopo le buone performance di "Uomini che odiano le donne" (2009), di Niels Arden Oplev, e "La ragazza che giocava col fuoco" (2009), di Daniel Alfredson. Ma quali similitudini possiamo effettuare tra il volto terreo della Weaver in Alien, e lo sguardo da giovane fanciulla in fiore proustiana della Rapace, in "Prometheus"? Nessuna. La Rapace, semplicemente, in questo film non possiede il personaggio, non lo fa suo. Sembra un'attrice pirandelliana, che si rifiuta di vestire i panni del suo carattere (vedi Pirandello, "Sei Personaggi in cerca d'Autore", 1921). Zero espressività, zero pathos, che diventa poi grottesca messa in scena nella sequenza dell'operazione chirurgica all'interno della capsula medica robotica. Proprio su questa sequenza vorrei soffermarmi un pò, poichè, se usiamo una metafora spaziale, è un vero "buco nero" del film, un pasticcio tremendo entro cui tutte le buone intenzioni di Scott vengono risucchiate via senza possibilità di recupero. Si tratta di una sequenza-chiave, perbacco, densissima di rimandi simbolici, e Scott la dirige in modo goffo, ultrarapido, spettacoloso, con un occhio al necessario gore che l'intertainment richiede a un film di questo tenore. Il risultato è una serie giustapposta di inquadrature senza spessore e tensione alcuna, alla quale andava dedicato più tempo, togliendone magari ad altre parti, superflue (come ad esempio quelle degli ologrammi umanoidi che corrono per i corridoi della postazione aliena). Sono portato a pensare che Sigourney Weaver si sarebbe rifiutata di girare quella scena, dopo aver letto lo script, dal momento che qui il "femminile" e la sua psicologia sono piegati all'immaginario hollywoodiano, sono davvero "prostituiti", e questo a mio avviso è molto grave, dopo prove mitiche come "Alien", alcuni suoi sequel, e "Blade Runner". Personalmente, una sequenza come quella della capsula medica, da Ridley Scott proprio non me la sarei aspettata. Sempre rispetto al cast, Michael Fassbender, l'androide David, tanto osannato da certa critica positiva, non mi è parso così profondamente pensato, come personaggio. Si perde anche lui nella magniloquenza e nella prosopopea dell'effettistica, come quasi tutti gli altri protagonisti. Sono presenti nel film, certamente, momenti di ispirazione visiva altissima, come le prime inquadrature ambientate in Islanda e in Scozia: senso delle panoramiche raffinatissimo, utilizzo di locations evocative di un Altrove che invece non è così lontano da noi, una sequenza iniziale che ci parla subito di trasformazioni psico-fisiche inquietanti. Ma è il raccordo (necessario!) tra sceneggiatura, regia e direzione del cast, poi, a condurre un film in una direzione sinfonica, oppure cacofonica. "Prometheus" non è quella "sinfonia" sci-fi che qualcuno vorrebbe descrivere. E' il tentativo, da parte di uno dei padri del cinema di fantascienza contemporanei, di produrre un'opera che contenga, biograficamente, tutto se stesso, cercando un rilancio di questa insigne biografia verso mete ulteriori. Il tentativo non riesce, perchè si impantana nella palude di uno stile seriale-televisivo lindelofiano, che nulla ha a che vedere con il Cinema. Che cosa evita che quanto detto sin qui, si trasformi in puro disastro? Direi la sedimentazione di un segno estetico che è depositato nell'inconscio dello spettatore: il tocco di Ridley Scott, la sua cifra stilistica, il ricordo dei suoi movimenti di macchina, che ci rimandano continuamente al nostro passato di spettatori. E quel passato è "Alien", con tutta la sua potenza evocativa. "Prometheus" è come l'androide David: è tenuto in vita dalla presenza dello spettatore, dal suo sguardo. Solo nell'inconscio dello spettatore trova un suo senso, un riverbero rimemorativo, una sorta di rispecchiamento narcisistico con la storia e la memoria di chi è seduto sulla sua poltrona, in sala. Forse è proprio per questo che si ha la tentazione di perdonargli le pecche di cui, a mio avviso soffre enormemente. Non credo, tuttavia che questa sua caratteristica di "specularità" sia sufficiente a descriverlo come un film di fantascienza riuscito. Anzi, direi che la sua apertura a vari sequel (è già infatti annunciato "Prometheus 2"), lo appiattiscono ancora di più a prodotto commerciale fra i tanti. "Prometheus": da vedere senza idealizzazioni preconcette, ma tenendo in conto di uscire dalla sala con una certa tristezza. Regia: Ridley Scott Soggetto e Sceneggiatura:Jon Spaihts, Damon Lindelof Fotografia: Dariusz Wolski Montaggio: Pietro Scalia Musiche: Marc Streitenfeld Cast: Michael Fassbender, Noomi Rapace,Charlize Theron, Kate Dickie, Idris Elba, Sean Harris, Rafe Spall, Logan Marshall-Green Nazione: USA Produzione: Scott Free Productions, Brabdywine Productions Durata: 124 min.
domenica 16 settembre 2012
Stacco musicale (in attesa di "Prometheus")
In attesa della recensione a "Prometheus", di Ridley Scott, cui sto lavorando, ma che ha bisogno di essere sedimentata e pensata (il film l'ho visto ieri in una bella e grande sala, insieme ad amici e a mio figlio), vi lascio all'ascolto di questo antico video dei Deep Purple, che suonavano più o meno nel periodo di uscita del primo Alien, che è del 1979 (il video è del 1973). "Blade Runner" è di circa dieci anni dopo (1982). Ritorniamo un pò, insomma, nel clima storico-culturale e psicologico del primo Scott. Questa rimemorazione mi sembra utile per prepararci a capire meglio l'attuale "Prometheus"
venerdì 14 settembre 2012
The Possession, di Ole Bornedal (2012)
Un giovane padre divorziato è preoccupato per Em, sua figlia minore, poichè da quando ha acquistato in un mercatino dell'usato di paese, un mobiletto di legno che porta incise inscrizione in ebraico, non sembra essere più la stessa. Si scoprirà ben presto che l'oggetto contiene un dybbuk, cioè uno spirito demoniaco capace di impossessarsi di chi lo rende libero, e questa volta è toccato di Em liberarlo...
Atmosfere cupe, script semplice e lineare, fotografia contrasta e plumbea, rendono "The Possession" di Ole Bornedal un film per certi versi apprezzabile nel generare un clima perturbante che non scivola via come acqua sui sassi, cosa che invece accade spesso, come ben sappiamo, a molta produzione mainstream. Il film è esteticamente molto curato, ben fotografato, allestito bene nell'alternanza di interni ed esterni, nonchè montato in modo scorrevole e attento alle svolte narrative principali. L'interpretazione della giovane protagonista, Em (una Natasha Calis imprevedibile e sinistra come solo una adolescente può manifestarsi agli occhi degli adulti che hanno la ventura di frequentarla) è piuttosto inquietante, soprattutto nelle inquadrature di piano medio e primo piano, cioè quando Bornedal desidera soffermarsi sulla mimica facciale, che ha sempre molto da esprimere (molto bella la sequenza del garage della casa della mamma di Em, dove assistiamo ad una sorta di non-dialogo surreale, attraversato da emozioni potenti che sentiamo muoversi pur nel silenzio più assoluto, tra Em e il nuovo fidanzato della mamma). Oltre alla mimica ben gestita di Natasha Calis, risultano molto suggestive altre sequenze, sul piano perturbante, come quella, terribile, dei denti sanguinanti dello stesso malcapitato fidanzato materno. Il film, dunque, si fa visionare producendo nello spettatore una certa dose di curiosità, non solo perchè vogliamo sapere "come va a finire", ma anche perchè le atmosfere risultano molto evocative e trasmettono un senso di attesa continua, che da una parte inquieta, ma dall'altra non annoia mai. Complice di questa modalità estetica presente nel film è certamente il montaggio, di Anders Villadsen, che indugia a tratti su dialoghi e su spazi interni casalinghi, per poi smorzare di colpo la tensione, e aprire su successivi capitoli narrativi relativamente più tranquilli (per poi rilanciare verso nuovi colpi di scena, sempre parcamente oscillanti tra il risaputo e l'nnovativo). "The Possession" contiene tuttavia altri elementi non sviluppati ed elaborati a sufficienza, primo fra tutti il tema dell'esorcismo ebraico, in effetti nuova icona cinematografica, che poteva essere approfondita con mano sicuramente più decisa, da parte del regista. L'ambiente ebraico newyorkese chassidico, ad esempio, è tratteggiato a mio avviso in modo caricaturale, pur sottolineando climi misterici da setta imperscrutabile. C'è molta confusione qui, da parte di Bornedal, che a un certo punto sembra non sapere più se seguire la storia sul piano del perturbante in quanto tale, oppure se aprire sul versante ebraico e dirci qualcosa di più. I due aspetti rimangono però non integrati. L'ebraismo resta per così dire come "in orbita", lasciato lì come il personaggio secondario di una rappresentazione che parla decisamente d'altro. Probabilmente, comunque, l'aspetto più interessante del film è che non ricorda affatto illustri antecedenti, come "L'Esorcista" (1973) di Friedkin, cioè se ne smarca abbastanza bene, il che non è poca cosa. La pellicola risente invece (e questo è il secondo elemento di demerito rispetto a un'opera per altri versi interessante) dell'influsso dell'ultimo, consumistico, Sam Raimi, che produce questo film con la sua Ghost House Pictures. Da Raimi il film di Bornedal deriva infatti una certa "patinatura", nonchè il guardare al "demoniaco", ma in modo piuttosto superficiale, non approfondendo culturalmente nessuna associazione o riflessione che vada aldilà dell'intrattenimento di un certo pubblico di adolescenti statunitensi di medio livello culturale. Direi che questa dipendenza dal clan di Raimi diventa una vera e propria palla al piede per questo film, che evidenzia peraltro un certo gusto visivo da parte del regista, che indubbiamente possiede un talento e un'ispirazione personale nel creare atmosfere angosciose. In tal senso direi anche che Bornedal deve ancora "crescere". Attendiamolo quindi alle prossime future prove filmiche . "The Possession": certamente da vedere, ma senza eccessivi entusiasmi e/o particolari aspettative.
Regia: Ole Bornedal Soggetto e Sceneggiatura: Leslie Gornstein, Juliet Snowden, Stiles White Fotografia: Dan Laustsen Montaggio: Anders Villadsen Musiche: Anton Sanko Cast: Jeffrey Dean Morgan, Madison Davenport, Natasha Calis, Grant Show, Quinn Lord, Rob LaBelle, Jhon Cassini, Erin Simms Nazione: USA Produzione: Ghost House Pictures, North Box Productions Durata: 92 min.
lunedì 3 settembre 2012
Straw Dogs, di Rod Lurie (2011)
David Sumner sceneggiatore di Los Angeles, si trasferisce nella città natale di sua moglie, nel profondo sud degli Stati Uniti. A poco a poco la conflittualità della coppia aumenta, intrecciandosi con la propensione alla violenza degli abitanti locali. Questo cocktail emotivo si rivelerà ben presto molto pericoloso per i nuovi arrivati...
Il film di Rod Lurie è un remake-omaggio del violento (per l'epoca) film del grande Sam Peckinpah (1971), sebbene le locations siano state spostate da Lurie, dall'originale Cornovaglia al Mississipi. Sul piano drammaturgico la sceneggiatura non è molto lontana da quella del primo film, solo che il protagonista, David, non è un matematico, ma a sua volta uno sceneggiatore. Un "intellettuale", comunque. Lurie dà inoltre più spazio all'environment comunitario locale, con tanto di messa domenicale nella quale il pastore benedice la squadra di football della città, e partita serale annessa. Credo che di questo remake non ci fosse molto bisogno, tuttavia il film è costruito con una certa sapienza nella conduzione dei dialoghi, e nella creazione di un'atmosfera di conflitto che aumenta in modo esponenziale nel corso del minutaggio, fino alla sequenza dell'impiccagione del gatto Flutie, ritrovato nell'armadio, da David. Tale sequenza è il vero spartiacque narrativo del film, poiché da questo punto in poi il "darwinismo" ormonale del gruppo dei violenti locali, abbandona del tutto i propri freni inibitori, e si dirige a vele spiegate verso un orizzonte del tutto delinquenziale, aprendo la storia al suo drammatico finale. La psicologia dei personaggi è molto attentamente amministrata dal regista, che dipinge il "ritorno a casa" di Amy Sumner (una Kate Bosworth molto seduttiva e che esprime, anche nel suo muoversi corporeo, tutto il suo passato controverso) come una sorta di affronto inconscio nei confronti dei "ragazzi" del luogo, "abbandonati" a suo tempo dalla reginetta locale che li ha lasciati per andare a sposarsi il professorino senza palle della grande città. Un pò come dire che "il primo amore non si scorda mai", con tutte le relative conseguenze. Il "nocciolo" del plot è tutto qui, ma anche il famoso "complesso di Edipo" è in fondo una storia semplicissima, con tre soli personaggi sulla scena, ma che ha fatto tremare le vene ai polsi del '900 europeo, e questo tremore non è certo ancora cessato. Lurie si muove in questi paraggi, cercando di essere fedele allo script originario di D. Zelag Goodman, ma anche innovando la storia, inserendola in un presente che contiene comunque emozioni primitive, mai estinte, dell'umanità. Oltre alla Bosworth e a James Marsden (David), che non possiede la potenza espressiva di Dustin Hoffman, ma è ugualmente bravo, il cast è scelto con cura: il "cattivo" Alexander Skarsgard aggetta sguardi assassini conditi in salsa di testosterone puro, e fa paura, perchè è una macchina da guerra ormonal-fascista irrefrenabile, cresciuta nella povertà di una provincia che certamente non può che allevare i suoi figli secondo tali orientamenti antropologici atavici. I suoi compari non sono da meno, veri e propri "cani di paglia", usati cioè come manovalanza e carne da macello, da una mentalità di gruppo intrisa di razzismo e di odio verso l'altro, fin dalle origini della fondazione del gruppo stesso. La Natura paludosa del Mississipi fa la sua parte diegetica, come sfondo simbiotico che ingloba una storia di pura violenza che questa Natura stessa ha generato: la notevole sequenza finale della tagliola (sebbene poco legata al corso delle concitate inquadrature precedenti) evidenzia ancora di più, metaforicamente, l'indifferenziazione tra umano e animale, rimarcando il messaggio pessimistico che Lurie ci invia. Come avrete notato non ho volutamente fatto confronti tra questo film e l'originale di Peckinpah, poichè ritengo che le due pellicole non vadano affatto paragonate. Il film di Lurie si fa infatti guardare dal primo all'ultimo minuto, e pur essendo chiarissimamente un remake del primo, tuttavia desidera ritagliarsi un suo spessore artistico autonomo rispetto al prototipo, e riesce benissimo in questo suo intento. Lo ritengo un prodotto apprezzabile, anche se non proprio necessario, come dicevo più sopra, perchè Lurie, dirigendolo con buona mano e buon movimento di macchina, ci ricorda alcune tematiche legate all'aggressività umana, già affrontate magistralmente da Peckinpah a suo tempo, sottolineando con questo suo gesto che certe peculiarità "primitive" dell'uomo è meglio tenersele a mente, rimemorarle, non gettarle facilmente nell'oblio (anche consumistico-cinematografico hollywoodiano), perchè possono tornare a galla nel corso della storia dell'umanità, e molto più velocemente di quanto ci potremmo aspettare. "Straw Dogs" (2011): film inconsapevolmente molto edipico, e (consapevolmente) molto attuale. Da vedere.
Regia: Rod Lurie Soggetto e Sceneggiatura: Rod Lurie, David Zelag Goodman Cast: James Marsden, Kate Bosworth, Alexander Skarsgard, James Woods, Dominic Purcell, Rhys Coiro, Billy Lush, Laz Alonso, Willa Holland, Walton Goggins, Anson Mount, Drew Powell, Nazione: USA Produzione: Screen Gems, Battleplan Productions Durata: 110 min.
Iscriviti a:
Post (Atom)