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domenica 28 ottobre 2012

Adolescenza e cinema perturbante



Vi propongo il mio intervento di commento a "Them", di David Moreau e Xavier Palud, di cui ho proposto una lettura psicoanalitica, alla rassegna cinematografica "Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi", venerdì 26 ottobre, presso la Biblioteca Comunale di Vittorio Veneto, dove sono stato invitato da un gruppo di gentilissimi e ospitalissimi colleghi. E' stata un'esperienza molto piacevole e interessante (il pubblico si è un pò spaventato, ma il dibattito successivo ha stemperato le angosce circolanti).

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Il trauma adolescenziale e la sua rappresentazione narrativa attraverso il cinema “horror”: una lettura di “Them”, di David Moreau e Xavier Palud (2006).

Biblioteca Comunale di Vittorio Veneto
Rassegna Cinematografica “Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi” –
26 ottobre 2012



                                                                        “Al principio è la relazione”
                                               Martin Buber (Il Principio Dialogico e altri saggi, 1959)

L’adolescenza è un periodo di transizione esistenziale portatore di valenze fortemente traumatiche. Il mutamento fisico-sessuale modifica infatti in modo radicale l’immagine che il ragazzo aveva di se stesso fino a quel momento, ma questa modificazione investe anche l’assetto relazionale e il rapporto genitori-figli. Di fronte allo sguardo dei genitori il figlio adolescente è diventato più “forte” e rispetto a quando era un bambino, non gli si può dare un limite solo attraverso un benevolo “scappellotto”. La sessualità intesa come occorrenza traumatica sottolinea inoltre il cambiamento catastrofico rappresentato, sul piano degli affetti, dal graduale ma inesorabile processo di separazione-individuazione. Il ragazzo deve abbandonare il contenitore infantile nel quale la fantasia onnipotente era fonte di rassicurazione, per volgersi verso nuovi compiti di sviluppo, verso nuove responsabilità. I cambiamenti sul piano cognitivo, nonché  quelli relativi alla  percezione del tempo cronologico, fanno sì che l’Io dell’adolescente percepisca poi l’infanzia come un “paradiso perduto”. Per certi versi l’idea di “infanzia” nasce  proprio durante l’adolescenza, che può quindi essere vista come un periodo della vita in cui si manifesta per la prima volta quella nachtreglichkeit su cui Freud è più volte tornato: una scoperta rivoluzionaria, “copernicana” (Pellizzari, 2008), e appunto per questo, ancora una volta, traumatica.
L’adolescente ha dunque bisogno di trovare una rappresentazione narrativa di questo momento così complesso, ha cioè bisogno di “sognare” il suo trauma, di “metterlo in scena”, e non semplicemente di viverlo, sentendosene travolto e annichilito: non ci sono più le fiabe a confortarlo. Le fiabe hanno fatto il loro tempo, come l’infanzia. Le esperienze emotive dell’adolescente, in risonanza con le esperienze passate, riattivano tuttavia quei nuclei ove l’Io non ha potuto esplicitare una funzione rappresentativa “sufficientemente buona”, né sperimentare una “grammatica degli affetti”, in quanto pulsioni, sensazioni, sentimenti rivolti ad oggetti ancora parziali, rimangono nel caos di un indistinto rapporto Sé-oggetto. La delicata e complessa opera trasformativa del processo di simbolizzazione, rischia di essere travolta dall’emergere di quei nuclei primitivi, poiché la psiche dell’adolescente non è ancora in grado di elaborarli compiutamente. Il ragazzo fa quindi ricorso alle difese più immediate, come l’evacuazione attraverso l’agito, perché non è in grado di affrontare il trauma che sta vivendo. Secondo Ogden (2009), il trauma determina infatti un funzionamento mentale rigido, con aspetti non mentalizzati che necessitano di una “funzione sognante”. Si tratta di “sogni non sognati”, cioè di esperienze emotive che non possono essere trasformate, simbolizzate, in quanto insopportabilmente dolorose, ma che permangono nell’individuo sottoforma di sofferenza patologica.
Il genere cinematografico cosiddetto “horror”, può fornire all’adolescente una cornice rappresentativo-narrativa che “contiene” gli effetti traumatici dei cambiamenti esistenziali che sta vivendo. Forse è questo uno dei motivi per cui gli adolescenti sono molto attratti, sedotti narcisisticamente potremmo dire, da un tipo di opera cinematografica che possiamo descrivere come fortemente “perturbante” (Freud, 1919). Il cinema, come il teatro, così come il setting della cura psicoanalitica, rappresentano infatti una “rappresentazione drammatica della passione” (Green, 2011). Così come il bambino può avvicinarsi alle proprie emozioni attraverso il gioco, allo stesso modo l’adolescente, attraverso il cinema, può avvicinarsi e pensare al dramma identitario che sta vivendo, utilizzando un terreno artistico-transizionale, uno “spazio potenziale” (Winnicott, 1971), un “ambiente onirico” (Bezoari, 2011), com’è appunto quello rappresentato dal cinema.
Il Cinema Horror possiede inoltre, all’interno della sua struttura drammaturgica di base, quelli che potremmo definire degli “isomorfismi” con il processo di costruzione identitaria in adolescenza, tali da rappresentare molto bene, ma “a distanza di sicurezza”, cioè sullo schermo, il “cambiamento catastrofico” adolescenziale. L’attrattiva narcisistica che possiede questo genere di film, per l’adolescente, diventa comprensibile se si guarda cioè alla sua costruzione sintattica, nella quale l’adolescente trova un suo intimo rispecchiamento, un “riconoscimento” emotivo. La sintassi di un “film horror” è infatti del tutto differente da quella di un film tradizionale, di un film “adulto”, cioè un film horror è, mi si passi la metafora, di per sé un “film adolescente”: la metrica del minutaggio è per cominciare, più corta di un film del classico tipo sofisticated comedy hollywoodiana. Alla tradizionale suddivisione metrica in tre atti: 30-60-30, il cinema horror sostituisce una suddivisione del tipo, ad esempio, 30-40-10, cioè non sviluppa un finale lungo, narrativo e risolutivo, quindi rassicurante, come nel caso del cinema classico. Il tempo dell’adolescente non è infatti quello dell’adulto, è al contrario un tempo più rapido, è il tempo dell’irruenza delle pulsioni, dell’azione, del fare concreto sul pensare distanziante e razionalizzato dell’adulto. Il terzo atto di un film horror è dunque più breve, caotico, usualmente molto traumatico per lo spettatore, ma anche non definito, anzi, al contrario aperto a nuove evoluzioni, che lo spettatore potrà vedere in eventuali sequel (vedi ad esempio la nota saga di “Nightmare: dal profondo della notte”, bellissimo e innovativo racconto teen-slasher inaugurato dal regista Wes Craven negli anni ‘80). Rispetto alla sintassi filmica tradizionale, questo genere di film si gioca tutto nel Terzo Atto, preceduto da un Primo Atto che serve da introduzione alla storia, e da un Secondo Atto nel quale ci viene di solito presentato un primo finale (o “prefinale”) con colpo di scena. Il Terzo Atto si compone di due sequenze distinte, che si avvicendano drammaticamente in modo molto veloce e che hanno lo scopo deliberato di porre lo spettatore in una posizione spiazzata. La prima sequenza del Terzo Atto ci mostra un epilogo sereno in cui l’eroe crede nella propria vittoria. La seconda e ultima sequenza ci propone un colpo di scena finale dal sapore pessimistico-depressivo che ribalta completamente la posizione acquisita dall’eroe nella sequenza precedente. Tale conclusione è tuttavia anche “aperta”, cioè non risolve compiutamente la storia, e rimanda evocativamente ad altri esiti, sebbene a loro volta incerti.
Questo schema narrativo si presta molto bene a rappresentare la rottura traumatica del contenitore onnipotente infantile nel quale l’adolescente ha soggiornato fino a non molto tempo prima, ma allo stesso tempo fa intravedere e organizza narrativamente una speranza. Il finale pessimistico segnala un lutto, un crollo di certezze, ma l’apertura ad altre narrazioni successive, a un sequel,  evidenzia che “la vita continua”.
Il “rispecchiamento narcisistico” che l’adolescente ritrova di fronte a questo genere di film, si attua anche attraverso un altro topos di questo genere cinematografico, e cioè il mettere usualmente in scena le vicende di un gruppo. Molti film horror raccontano infatti di gruppi di teen-ager che devono far fronte agli attacchi omicidi di un misterioso assassino che improvvisamente compare su una scena fino a quel momento tranquilla, terrorizzando la comunità. Il gruppo dei pari, così come in preadolescenza, il gruppo-classe, rappresentano importanti contenitori transizionali per l’adolescente, ambienti sociali cioè, che prendono il posto dell’accudimento ambientale materno e familiare, e promuovono così la crescita, l’autonomia e il processo di separazione. Ma il gruppo dei pari può anche diventare un “rifugio della mente” (Steiner, 1993), un ambiente regressivo, una difesa dal trauma della crescita.
Il film che abbiamo visto insieme stasera, credo rappresenti efficacemente quanto abbiamo detto sin qui. L’aspetto innovativo della pellicola di Moreau e Palud consiste nel capovolgere il topos del “gruppo di adolescenti” minacciati dal villain assassino (come accade in gran parte nei film teen-slasher nell’ambito della cultura cinematografica statunitense), facendo diventare il gruppo stesso il vero l’”assassino”, spiazzando così lo spettatore adolescente (o la parte adolescente dello spettatore adulto) e sottraendogli la possibilità difensiva di proiettare su un solo individuo le proprie parti distruttive, erotiche e  sadiche.
Il film di Moreau e Palud costruisce inoltre una cornice drammaturgica coerente nella quale sono presenti tutti i “personaggi” del dramma psicologico adolescenziale: c’è una coppia di adulti, chiusa nel proprio invidiabile spazio di intimità edipica, dal quale il bambino è escluso; c’è un gruppo di ragazzi in assunto di base di attacco-fuga (Bion, 1948), chiuso in un “rifugio della mente” gruppale, che va all’arrembaggio di quel fantasticato sancta sanctorum che è la stanza dei genitori, di quello “spazio genitale” idealizzato e onnipotente di cui Meltzer ci ha parlato in modo così suggestivo; c’è la “casa nel bosco”, che rappresenta qui una sorta di capovolgimento maniacale, tutto adolescenziale, della fiaba di Hansel e Grätel: le angosce infantili non sono cioè elaborate attraverso la loro proiezione nella mamma-strega, come accade nella fiaba riportata dai fratelli Grimm, ma al contrario sono evacuate e fatte provare, mediante identificazione proiettiva, alla sfortunata coppia costituita da Clementine e Lucas. Sono loro (e noi spettatori identificati a loro), infatti, a provare angoscia, mentre il gruppo dei ragazzi si pone in una dimensione di invulnerabilità e onnipotenza controllante, dimensione accentuata dalla conformazione “a branco” che presidia un territorio molto ben conosciuto,  e che considera – possiamo ipotizzare -  come una “terra-madre” da proteggere dagli “stranieri”. A proposito di "Adolescenza, Cinema e Psicoanalisi", "Them" declina in chiave adolescenziale, e attraverso tonalità molto intense, questo tema molto caro alla psicoanalisi, cioè il rapporto individuo-gruppo, discorso affrontato già da Freud in "Psicologia e delle masse e analisi dell'io" (1921). In molte circostanze, scrive Freud, l'individuo diventa succube del gruppo abdicando al progetto di sviluppo delle sue quote di specificità soggettiva, finche "ulula con i lupi" (Freud, 1921, pag. 275). Il gruppo adolescenziale, in particolare, rischia molto facilmente di trasformarsi in "branco" nel quale l'unico mezzo per essere riconosciuti rimane appunto quello di "ululare". Come scrivono Gaburri e Ambrosiano: "Nel gruppo in assunto di base, ideologico e compatto fino al fanatismo, l' azione è il principio organizzatore: l'Io e' stato distrutto" (Gaburri e Ambrosiano, 2003, pag.27). Il film ci racconta un fenomeno di questo tipo, ci racconta l'azione che prende il posto del pensiero e della relazione quando il gruppo si fa branco, in assenza di un'etica sociale condivisa che si assuma la funzione di  limite. In questo senso "Them" può essere visto come la versione adolescenziale del romanzo di William Golding, "Il Signore delle mosche", tradotto cinematograficamente da Peter Brook nel 1963, nel quale l'assenza di un contenitore genitoriale limitante, determina una sorta di "dittatura dell'infanzia", all'interno di un gruppo di bambini naufragati su un'isola.

Il film di Moreau e Palud genera inoltre una pregnante rappresentazione della dialettica familiare/estraneo che è un altro elemento fondamentale che caratterizza l’adolescenza. In adolescenza, come scrive Pellizzari: “Il familiare è divenuto straniero, sconosciuto e potenzialmente nemico e i fantasmi del passato si ripresentano all’interno di un nuovo contesto di realtà non più soccorso dall’area protetta dell’infantile. La crisi d’identità del bambino che diviene adolescente si incontra con la crisi d’identità complementare dell’adulto genitore: la messa in discussione fisiologica della sua autorità e del suo potere. L’ignoranza reciproca tra adulto e adolescente, come un vuoto, subisce la tentazione di essere  riempita in entrambi i sensi dalla violenza degli stereotipi, dei preconcetti, dei dogmi, vale a dire degli oggetti parziali non elaborati della storia passata con tutta l’urgenza e l’esasperazione ripetitiva dell’agire coatto” (Pellizzari, 2003). Il film dei due registi francesi si muove esattamente sul confine tra il “familiare” e l’“estraneo” di un infantile che non si riconosce più come tale, diventando proprio per questo minaccioso. Non è forse un caso se il film si apre in un ambiente scolastico, al termine di una lezione della maestra Clementine, e si chiude con le parole del più giovane dei ragazzi omicidi: “Non volevano giocare con noi “. Immagini e parole che fanno pensare,  che rimandano all’area del “gioco” infantile, e alla sua importanza come “messa in scena” di passioni molto potenti, che in adolescenza si riattivano, amplificate, e che sono altrettanto bisognose di una presa in carico e di un ascolto  responsabile da parte dell’adulto. In una situazione evolutiva “sufficientemente buona”, la madre agisce sognando i contenuti proiettati dal bambino, all’interno di un ritmo di accudimento rassicurante nel quale un’identificazione proiettiva “benigna” costruisce quella che Bion chiama “unione conviviale” tra madre e bambino. Contenuto e contenitore, attraverso la funzione di reverie materna, generano reciprocamente uno spazio di ascolto emotivo riverberante nel quale può evolvere il pensiero. Se lo spazio per questo ascolto, per una nuova “messa in scena”, da parte della madre e dell’ambiente socio-familiare circostante, viene a mancare, il processo di riconoscimento dell’altro e di se stessi, cioè il processo di formazione del pensiero e dell’identità, viene svuotato di senso, favorendo una deriva narcisistica e distruttiva, come è ben rappresentato nel film. Deriva narcisistica che trova il suo ideale brodo di coltura nella cultura di gruppo,  che il film fotografa nell’ intensa, lunga sequenza finale gettando una luce chiarificatrice,  molto poetica, su tutta la narrazione precedente. Il film sembra cioè, in sintesi, dirci che l’adolescenza è essenzialmente un fenomeno psicosociale, relazionale, non semplicemente individuale, e che l’ambiente di appartenenza contribuisce grandemente al processo di soggettivazione dell’individuo. L’adolescente infatti, come sottolinea Cahn (2000) “non ha la fortuna dell’adulto, il quale ha completato l’introiezione delle imago genitoriali che gli fornisce il supporto di un’autentica autonomia psichica, per quanto relativa possa essere. Egli invece resta più o meno dipendente dagli oggetti genitoriali nella loro realtà, confondendo quasi inevitabilmente ciò che si gioca ancora nel registro della realtà con questi ultimi, e ciò che di fatto è determinato dal modo in cui ormai egli stesso colloca, si rappresenta, ha soggettivato quelle relazioni” (Cahn, 2000).  
Come una fiaba per adolescenti, il film di Moreau e Palud mette in scena la deriva distruttiva di un gruppo di ragazzi il cui trauma evolutivo e il cui stato di deprivazione sociale non sono stati riconosciuti, accompagnati e “sognati” da un ambiente competente in questo senso. Il film si fa carico di sognare questo “sogno non sognato” (Ogden, 2009), evidenziando così il valore etico di un certo tipo di rappresentazione cinematografica come quella messa in scena, in molti casi, dal cosiddetto “genere horror”.


Riferimenti bibliografici

Bezoari, M. (2011), Ambiente onirico e ambiente analitico. Seminario tenuto presso il Centro Psicoanalitico di Pavia, il 15 novembre 2011.

Bion, W.R. (1948), Esperienze nei gruppi. Tr. It. Roma, Armando, 1971.

Cahn, R. (1998), L’adolescente nella psicoanalisi. L’avventura della soggettivazione. Roma, Borla, 2000.

Freud, S. (1919) Il Perturbante. OSF, Boringhieri, Torino Vol. 9.

Freud, S. (1921) Psicologia delle masse e analisi dell’Io, OSF, Boringhieri, Torino, Vol. 9

Gaburri, Ambrosiano (2003) Ululare con i lupi. Torino, Boringhieri.

Green, A. (2011), Illusioni e disillusioni del lavoro psicoanalitico, Milano, Raffaello Cortina Editore.

Gulli, D.M. (2009) Il cinema horror e la sua drammaturgia. In Horror made in Italy- Pubblicazione di cultura cinematografica. Gemma Lanzo Editore, Taranto. Pagg. 86-100.

Ogden, T. H. (2009), Riscoprire la psicoanalisi. Pensare e sognare, imparare e dimenticare. Milano, CIS Editore.

Meltzer, D. (1992) Claustrum. Uno studio dei fenomeni claustrofobici. Tr.it. Milano, Raffaello Cortina, 1993.

Pellizzari, G. (2003), La psicoanalisi degli adolescenti ha cambiato la tecnica psicoanalitica? Adolescenza e psicoanalisi, Anno III, N° 1, Gennaio 2003.

Steiner (1993), J. I rifugi della mente. Tr.it. Torino, Bollati Boringhieri, 1996.

Winnicott (1971), Gioco e Realtà,  Armando, Roma, 2006.






5 commenti:

  1. Io adesso non la leggo per dispetto.
    Tu vieni a Vittorio Veneto e non mi mandi neanche un microscopico avviso!??!?!
    Sarei venuto volentieri, e magari avremmo potuto scambiare due chiacchiere, no?
    Adesso sono a credito di una bottiglia di ottimo champagne... ma va bene anche una birra!

    (cmq, lo leggo lo stesso l'intervento...;) )

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  2. Leggerò il tuo post con estrema attenzione (visto il tema che mi intriga non poco). Ti farò sapere quanto prima...

    Jena

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  3. @ Eddy: maledizione, Eddy, non sapevo che sei di Vittorio Veneto, altrimenti ti avrei segnalato la mia presenza colà. Altrochè che ti avrei ben volentieri conosciuto in carne ed ossa! E ti avrei pure invitato alla visione del film, nonché al mio intervento successivo che è stato seguito da un dibattito. Ma credo che tornerò, vista l'ospitalità di colleghi-amici davvero ospitali in sommo grado. Non so però se avremmo potuto avere molto tempo per farci un'ombra insieme, perchè sono arrivato venerdì alle 17 e i colleghi di cui sopra mi hanno subito catturato presso le loro dimore. Poi il film alle 20 e il resto fino a circa le 23,30, con successiva cena con gli organizzatori. Sabato mattina partenza alle 8,30 per Padova e poi per Milano dove ho partecipato ad un altro convegno (week-end stancosissimo ma bello e intenso, insomma). Ma vedrai, tornerò :)

    @ Jena: come al solito grazie dell'attenzione e della tua profondità d'analisi :)

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  4. Bene! Perché altrimenti ti bacchetto :)
    Io comunque abito a 10km da Treviso e per arrivare a VV ci metto 20 minuti sulla A27. Attendo tue notizie!

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  5. @ Eddy: naturalmente l'invito è reciproco, cioè se vieni in quel del milanese, segnalami la tua presenza :)

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