Anno: 2009 Editore: Edition Viviane Hamy, Paris, Tr. it. Einaudi - Collana "Stile Libero Big", 2011 Traduzione: Fabio Montrasi Pagine: 280 ISBN: 978-88-06-20473-0 Euro: 18,00
Una catena di inspiegabili suicidi segna l'indagine di Guérin, l'eccentrico poliziotto, protagonista del romanzo che ha entusiasmato i lettori francesi. Il tenente Guérin è sempre stato un poliziotto un po' speciale. Misantropo, figlio di una prostituta, vive tutto solo in un appartamento immerso nel caos, con l'unica compagnia di un pappagallo che accoglie l'arrivo dei rari ospiti con vere e proprie esplosioni di turpiloquio. Ma Guérin è anche uno sbirro di prim'ordine, onesto fino al midollo e poco incline ai compromessi. Proprio per questo è stato spedito a dirigere la Sezione Suicidi della Surété. Un esilio ben poco dorato, nel quale sembra condannato all'inattività. Fino a quando Parigi viene sconvolta da una serie di suicidi spettacolari e sospetti. Convinto che l'universo sia una sola, immensa rete di connessioni, e che dunque non esistano fatti isolati, ma solo concatenazioni, Guérin si avvia lentamente a scoprire la verità, tra mille ostacoli, con la coscienza che il caso non esiste e che dietro quelle morti c'è qualcuno pronto a muovere tutte le leve del potere, pur di non essere scoperto...
E' con vera indignazione che mi appresto a recensire questo pessimo libro di Antonin Varenne, autore tanto osannato in Francia quanto immeritevole di lodi per vari motivi che andrò a elencare qui di seguito. Confesso innanzitutto che raramente mi era capitato di imbattermi in un testo tanto spocchioso ed esibitivo nel modus scribendi dell'autore, che sembra voler sedurre il lettore attraverso la presentazione e descrizione di ambienti e personaggi bizzarri al limite del surreale, fregandosene in toto di quel minimo di coerenza e stabilità narrativa interna di cui necessita ogni romanzo giallo-noir che si rispetti. Qui invece ci troviamo di fronte ad una storia completamente caotica, senza capo né coda, a tratti aggrovigliata e di difficile fruizione. Il personaggio centrale del tenente Guérin vorrebbe poi porsi come contraltare del ben più famoso commissario Adamsberg di Fred Vargas (ben altro talento narrativo, accidenti), ma sa diventare niente più che una macchietta grottesca, con quel pappagallo spennato con cui vive e che avrebbe potuto essere anche un'iguana, o un ornitorinco australiano, senza che il suo inutile ruolo diventi più o meno significativo all'interno dell'intero plot. Francamente questo libro a me è sembrato una immane presa per il culo del lettore, che si vuole stupire con gli effetti speciali di una scrittura molto disinvolta e densa di metafore pseudogeniali, che invece risultano appunto (almeno per me) solo esibitive per coprire il vuoto di un talento che non c'è. Come si fa a presentarsi al lettore con una prosodia di questo tipo: "Savane e Roman entrarono in tromba nella stanza, seguiti da una nuvola di fumo arrabbiato" (pag. 40)? A Varenne sembra di essere originale solo perché sforna una metafora così banale come quella del "fumo arrabbiato"? Oppure, sentite la seguente proposizione: "Guerin afferrò la giacca della tuta spagnola di Lambert e si piegò su un tombino per vomitare. Berlion, ancora in ginocchio, si mordeva la lingua e si teneva i coglioni con gli occhi fuori dalle orbite. Lambert portava il quarantaquattro e giocava a calcio. L'ispettore Bernier non sapeva più cosa fare. Era incazzato con il mondo intero" (pag. 170). Il lettore non è "incazzato con il mondo intero", ma solo con Varenne, che ammanta una storia sgangherata e non convincente di metafore posticce e costruite ad hoc per colpire l'occhio in modo retorico-iperbolico. Varenne, inoltre non ama i suo personaggi, li tratta come burattini senz'anima sbattendoli a destra e a manca per le strade di una Parigi per niente caratterizzata, come ad esempio sa fare in modo molto poetico ancora una volta la grande Fred Vargas. "Sezione suicidi" è un testo neanche tanto lungo (per fortuna), ma che ho trovato faticoso portare a termine, tanto risulta circonvoluto e lontano da qualsiasi tipo di pathos. Anche la coeranza interna di una storia thriller che sembrava partire bene nelle prime pagine, si perde lungo il racconto, fino a terminare con un finale inverosimile, che non permette alcuna vera riflessione in tema di guerra e potere politico-militare, cosa che Varenne desidererebbe vanamente proporci (ma lo desidera veramente?). Libro dunque sommamente sconsigliato, a meno che non vogliate irritarvi masochisticamente al punto, poi, di lanciare il volume violentemente fuori dalla finestra.
Anche tu, però, leggere un libro scritto da un cavallo... XD
RispondiElimina@ Eddy: molto bella questa tua battuta, ah ah ah, mi hai fatto proprio ridere di gusto: grazie! :)
RispondiEliminaSe Varenne è un cavallo, Kubrick è un regista.
RispondiEliminaL' osservazione sfora ben oltre la polemica:
"Ad ognuno, il proprio cielo".
Saluto entrambi : )
Cristian
@ Cristian: Kubrick è certamente un regista. E che regista, poi :)
RispondiEliminaConcordo in pieno.Il paragone con Vargas mi ha tratto in inganno.........ma come si può.
RispondiEliminaNon riesco a finire il libro e forse seguo il tuo consiglio.....lo lancio dalla finestra!
Grazia
Quella che a mio parere non funziona è la traduzione: un ispano-tunisino che dice"faso rubivecchi e non voio problemas" davvero non si può leggere!
RispondiEliminaPer il resto me ne sto godendo ogni pagina e Guérin mi acchiappa non poco.
Antonella
Meno male che esistono i blog come questo, che rimettono al mondo dopo i disastri da quarta di copertina.
RispondiEliminaQuando ho finito il romanzo (che già a metà mi aveva stancato) sono andato subito a leggermi la quarta di copertina e mi sono detto: delle due l'una. O sei matto, oppure non hai capito niente del romanzo.
Grazie ai commenti appena letti nel blog ho capito, invece, che avevo scartato la terza possibilità: il romanzo è brutto.
Dunque mi sfogo:
1) l'ambientazione è esageratamente triste, fino a diventare irreale, didascalica e, quindi, repellente.
2) Non c'è una storia, e quel poco di trama che emerge è lasciata all'immaginazione del lettore. Va bene che chi legge ha una sua coscienza e non lo si deve accompagnare, come un bambino, da ogni parte, ma insomma, in questo romanzo ho avuto la sensazione di essere portato in una stanza vuota e lasciato lì al buio a cercare la via per uscire.
3) I dialoghi dei personaggi sarebbero realistici? Ma non scherziamo. E poi i personaggi si leggono nel pensiero, e questo è il primo errore che si corregge agli aspiranti scrittori, anche nei corsi di scrittura creativa più scalcinati.
4) I suicidi narrati sono spettacolari quanto si vuole, ma fini a sé stessi, soprattutto dopo che la quarta di copertina, ed il fior fiore di critici, promettono un senso a tutte quelle morti.
Una cosa buona il romanzo ce l'ha: una specie di omaggio (fatto male anche questo, però) a Bunker, lo scrittore americano ex galeotto e mito della narrazione delinquenziale (la chiamo così perché quelli di Bunker non sono né gialli, né noir). La citazione indirizza verso la lettura dei suoi romanzi, che sono (quelli sì) dei veri capolavori.
Andrea