Desideravo
da tempo mettere insieme alcuni pensieri sperabilmente
sensati circa il trend perturbante
contemporaneo più recente, che vede le serie TV sempre più
protagoniste indiscusse di una nuova mitopoiesi narrativa nascente
proprio sotto i nostri occhi, e
quotidianamente. Una terrificante influenza
che si è in questi giorni abbattuta sul sottoscritto mi permette
dunque di avere
il tempo di provare a mettere
insieme questi pensieri. Come diceva un
noto psicoanalista ginevrino, ogni tanto “ammalarsi fa bene”.
Non si tratta, come vedrete,
di una vera e propria recensione, ma di una riflessione che
naturalmente passa a volo d'uccello su varie serie, diverse tra loro,
comunque caratterizzate da tematiche ascrivibili al Perturbante,
alcune delle quali mi sono piaciute di più mentre altre di
meno. In veritá (partiamo da questo prima
riflessione), ciò che mi colpisce particolarmente di questo
proliferare di serie TV che sono seguite da milioni di telespettatori
(compreso il sottoscritto, che ama il cinema e odia la TV,
attenzione), è intanto proprio il fatto che ciò che caratterizza
quelle maggiormente seguite è proprio
l'aspetto perturbante. Non si tratta cioè di quelli che una volta si
chiamavano "sceneggiati", cioè storie usualmente tratte da
opere famose di vario genere, ad esempio
storico. Le attuali narrazioni seriali sono
tutte caratterizzate da un loro naturale, quasi scontato attingere al
genere Perturbante in quanto tale. E credo che questo, innanzitutto,
rispecchi lo Zeitgeist.
Il nostro tempo è infatti attraversato da un senso di precarietà,
di perdita e di "lutto sociale", di instabilitá del senso
di speranza, che non sono mai stati così intensi, e che forse
l'umanità, almeno in
area europea, ha provato forse
solo durante la Prima e
la Seconda Guerra Mondiale. Crisi economica, sfiducia totale nei
confronti della politica intesa come contenitore ideologico e guida
etica, nuove patologie tossicomaniche utilizzate come sedativo a
questo senso di lutto generalizzato, senso di precarietà nelle nuove
generazioni che non vedono orizzonti progettuali realizzabili,
divaricazione mai vista prima tra potere dell'alta finanza e povertà
assoluta della rimanente parte dell'umanità, ridotta a
"consumatrice/schiava" di tale dispositivo
economico-capitalistico, sono tutti ingredienti che vanno a formare
il background affettivo per la generazione delle narrazioni
perturbanti che vediamo proposte e raccontate nelle serie TV che più
ci piacciono.
Emblematica
in questo senso è senz'altro The
Leftovers, di Damon Lindelof, dalla
quale mi sembra giusto cominciare, poiché pone il lutto come
principale protagonista di un plot che ci introduce immediatamente in
una dimensione melanconica in un
senso quasi psichiatrico
del termine. Una melanconia descritta in
chiave iperbolica potremmo dire, dove la
perdita dell'oggetto diventa il motore di tutto ed è perturbante in
sè (e come potrebbe non esserlo?). Sul piano tecnico molte sono le
sequenze che sottolineano pesantemente tale aspetto di natura
francamente depressiva, a partire dal bellissimo primo episodio, con
quel carrello della spesa che improvvisamente si sposta da solo
mentre là voce di un bambino chiama smarrita: "Papà, dove sei,
papà?", il tutto condito da una
colonna sonora struggente e architettata ad hoc dall'ispiratisimo Max
Richter. Quale perdita più tragica di
quella di un padre per un bambino? Naturalmente, sul piano narrativo
tutto ciò non é niente di nuovo, basti pensare a Bambini
nel tempo, il famoso libro di Ian Mc
Ewan, autore perturbante come solo gli inglesi sanno essere. Ma qui
il punto é che il tema del lutto, della perdita, della
destrutturazione melanconica del soggetto, non è oggigiorno solo
roba da intellettuali inglesi continuatori di Virginia Woolf. Questo
tema sembra oggi
invadere tutto e tutti, al punto che la TV lo fa suo, come se, avendo
annusato l'aria che tira, le case di produzione avessero colto
l'opportunità di cavalcare subito questo mood che sta investendo
l'umanità.
Elemento
ulterioriormente significativo
è che la qualità di questa nuova estrinsecazione
estetico-televisiva del mood depressivo che sta
coinvolgendo il mondo occidentale,
è incredibilmente buona, pensata e, in buona parte, molto profonda.
Anche Stranger Things,
dei Duffer Brothers, splendido affresco perturbante sci-fi ambientato
negli anni '80, in fondo mette in scena una nostalgia per un passato
in cui lo spettatore medio era
senza dubbio un bambino, avvolto in una sensazione di eternità delle
cose, degli affetti, dell'amicizia e dell'amore. Questo microcosmo
caldo e fusionale, all'interno della
sceneggiatura di Stranger Things, è messo
a dura prova dal "papà"/scienziato pazzo di 11, la bambina
superdotata, e quindi questo tecnocrate folle si
fa rappresentante di una realtà che
diventa Superio sadico distruttivo, rompendo
quella bolla di tenerezza nella quale i Duffer ci fanno guardare con
nostalgia e tenerezza. Anche qui, dunque,
viviamo un lutto rispetto alle "cose andate" che non
torneranno, un lutto nei confronti della nostra rassicurante
onnipotenza infantile
di uomini che pensavano
erroneamente l'umanità come
un valore stabile, continuò, inestinguibile. Stranger Things (come
ancora di più, altre serie televisive odierne, coralmente)
ci indica che stiamo tutti vivendo il
lutto per la graduale perdita della nostra umanità. Stiamo
cioè entrando in un periodo storico-culturale in cui sono attivi
processi di de umanizzazione graduale, soprattutto relativamente ad
uno scollamento progressivo tra tecnologia e legame affettivo,
aspetto che costituisce l'essenza del legame tra esseri umani. Anche
Lost, nato
dal genio di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, descrive
un disastro, cioè quello che in psicoanalisi Wilfred Bion ha
definito un "cambiamento catastrofico", non tanto, e non
solo, dei passeggeri del volo 815 dell'Ocean Airlines, ma
dell'umanità
intera che quei passeggeri rappresenta, costretta in un un "nuovo
mondo" (cioè in un nuovo tempo)
senza più riferimenti, a vivere una perdita irreversibile che li
lega e li fa soffrire. Sembrerebbe, cioè, che gran parte delle
odierne serie televisive, stia costruendo una mitopoiesi del dolore
della perdita, un dolore -questo sembra essere il messaggio che le
accomuna – che non
é stato vissuto a tempo debito: un dolore mai sofferto, ma, anzi,
sempre accuratamente evitato, e che adesso torna a chiedere il conto.
Penso che questo
aspetto sia
centrale nella poetica interna che muove le
storie raccontate dalle
serie televisive che ci appassionano in questi anni, scalzando
decisamente il ruolo del cinema, di cui si sente parlare sempre meno,
nei blog, suo social e dovunque. Questo "dolore mai vissuto",
a cui non è mai stato dato sufficientemente spazio, che si è sempre
cercato di evitare, sembra essere connesso ad una lenta
e graduale perdita di umanità favorita
essenzialmente dal progresso della tecnica, che pone sempre di
più l'uomo su un piano di subalternità e di
dipendenza tossica dalla tecnologia stessa,
e che si fa onnipervasiva, quotidiana, intrecciandosi strettamente
con i diktat dell'economia (un potere
economico che a sua volta diventa Superio
sadico, come lo scienziato pazzo che vuole sfruttare i poteri di
Eleven in Stranger Things, oppure come il misterioso fenomeno della
scomparsa improvvisa del 2% di umani dalla faccia della terra in The
Leftovers).
Un'altra
serie da ricordare perché anch'essa ci parla di un'umanità
perduta, è senz'altro Wayward Pines,
ideata da Chad Hodge, sulla base dei romanzi di Blake Crouch. Qui
viviamo in un
futuro in cui l'umanità é davvero estinta e
messa a dura prova dall'assalto di mostruosi muta forma geneticamente
degenerati e aggressivi.
E anche qui siamo sotto il dominio ideologico di uno scienziato
pazzo, il dottor Jenkins. Il “visioning”
che sottende la scrittura filmica di Wayward Pines è decisamente
pessimistico circa la possibilità, da parte dell'uomo, di gestire
quel “disagio della civiltà” necessario alla convivenza civile,
disagio di cui ci ha parlato Freud nel suo famoso saggio pubblicato
nel 1930. Un pessimismo che non è solo di Freud, ma anche quello
di molti psicoanalisti contemporanei, primo fra tutti Andréè Green,
che non vedono nel progresso della cultura e della tecnica
un'antidoto efficace alle spinte distruttive che albergano da sempre
all'interno della comunità umana.
Una
delle ultime serie prodotte, Black
Mirror, ideata da Charlie Brooker e
prodotta da Endemol e Netflix, approfondisce con stile estremo questo
intreccio perverso e annichilente tra tecnologia e deumanizzazione,
frantumando il genere seriale stesso, e costruendo episodi singoli
per ogni puntata, lasciando come unico filo conduttore che li lega
l'ambientazione in un futuro tanto iper tecnologico quanto sinistro e
paranoiogenico. Il Black Mirror é infatti lo schermo digitale,
interfaccia cui
costantemente, quasi inenterrottamente, siamo
connessi nelle nostre vite. Ogni secondo
infatti siamo davanti ad uno schermo (televisione, pc, smartphone,
tablet, bancomat, etc), e in ogni luogo ci troviamo (casa, lavoro,
metropolitana, automobile, scuola: forse solo in chiesa o su un campo
da tennis non siamo in presenza di un qualche "black
mirror"). Lo specchio di un gadget
tecnologico ci ha ormai definitivamente soggiogato, l'inanimato guida
le nostre esistenze e noi abbiamo permesso a questo inanimato di
dominarle. L'uccisione lenta, progressiva, dell'umanità sta
avvenendo sotto i nostri occhi, attraverso una tecnicizzazione che
noi stessi abbiamo permesso. Le serie televisive odierne cercano
quindi di recuperare una dimensione affettiva
sempre più estinta attraverso un lavoro del lutto operato mediante
una mitopoiesi del Perturbante molto profonda, molto sottile quanto
utile. Una sorta di terapia collettiva inconsapevole. Tali
temi stanno
in verità investendo recentemente anche il
mondo dell'economia: ho avuto ad esempio
notizia che alcune aziende milanesi stanno organizzando corsi di
"disintossicazione dall'uso di smartphone" per i propri
dirigenti. Non sono novità di poco conto, se una organizzazione
professionale utilizza i propri soldi per simili progetti, ciò è
segnale di un degrado psichico che comincia farsi preoccupante.
Ma torniamo a Black Mirror, ultimo nato della nuova estetica
perturbante seriale. Si tratta di un quadro molto crudo della deriva
tecnologica quando essa arriva a dominare completamente ogni piano
del vivere umano e dell'interazioni tra individui.
Per ora ho potuto visionare pochi episodi, per mancanza di tempo, ma
ad esempio mi ha colpito il terzo della prima serie, intitolato
"Ricordi pericolosi". In esso si racconta di un microchip
inserito chirurgicamente dietro l'orecchio di ciascuno, che permette,
previo uso di un semplice telecomando, di rivedere su schermi i
ricordi delle proprie esperienze recenti e remote.
Vi è una sequenza di questo episodio, in particolare, che esprime
molto bene i possibili (e reali) effetti di una deriva tecnologica
che arrivi ad uccidere il desiderio erotico - obiettivo che la
tecnica sta peraltro egregiamente
raggiungendo, considerato il proliferare del voyeurismo e
dell'esibizionismo pornografico su internet. La
sequenza è quella in cui
il protagonista sta facendo l'amore con la sua compagna, ma
decide di estraniarsi dall'esperienza utilizzando il telecomando che
lo riporta ad altri ricordi erotici, che gli permettono di godere
dell'amplesso aldilà della sua compagna. La stessa cosa, vediamo,
sta facendo la sua ragazza.
Qui stiamo parlando di un'esperienza dissociativa auto indotta che
è consentita da un dispositivo tecnologico
non così lontano da una sua realizzazione, in
anni futuri. Una dissociazione che elimina
il rapporto umano distruggendone una radice fondativa,
quella appunto
del desiderio erotico-sentimentale che, come si sa, é una
pianta delicata, che ha bisogno di essere curata con attenzione e
continuità. Certamente studierò meglio Black Mirror, poiché mi
sembra uno sviluppo molto interessante di questo genere di prodotto
estetico che, molto più di altri (di certo cinema, ad esempio)
dipinge molto bene i tempi che viviamo, aiutandoci
ad avere il polso della situazione circa le
profonde mutazioni antropologiche che l'umanità sta
subendo. Riflettevo
in questi giorni sul fatto che Black Mirror
sembra infatti sceneggiato direttamente dalla mano di un filosofo
come Günther Anders, allievo di Heidegger, che con Heidegger stesso
condivideva una certa preoccupazione circa la fragilità dell'Essere
Umano. Fragilitá che per Anders consiste nell'incapacità
dell'uomo a governare il progresso da lui stesso generato (che sia
economico o tecnologico poco importa). Quello di Anders é peraltro
un pessimismo radicale, che si intravede già dai titoli di
alcune sue opere principali (vedi ad
esempio "Patologia della libertà. Saggio sulla non
identificazione", 2015; "Noi figli di Eichman", 1995;
"L'uomo è antiquato",1963). Anche
i sottotesti di molte serie televisive odierne rimandano ad un
pessimismo, ad una visione depressiva, luttuosa del vivere,
che non si erano mai visti prima in set
usualmente dedicati all'entertainment (di solito hollywoodiano, ma
oggigiorno soprattutto delle case di produzione televisive e on
demand). Sembrerebbe
(e questo è un punto a mio avviso
centrale) che di questo mood luttuoso che
attraversa l'umanità intera, si stia facendo carico solamente questo
filone estetico-artistico.
A
partire da quel prototipo fondante che è stato a tutti gli effetti
Twin Peaks di
David Lynch (che
non a caso pare stia tornando alla regia della terza serie, e
speriamo che veramente così succeda)
le serie
televisive stanno assumendo la funzione catartica di un grande sogno
collettivo, un sogno sognato dai vari Lindelof, Duffer, etc. come
tentativo di riparazione, di ricucitura della perdita di quell' umano
sentire che tutti noi stiamo quotidianamente soffrendo.
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