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sabato 17 maggio 2014

Megan is missing, di Michael Goi (2011)



Megan Stewart, 14 anni, e la sua migliore amica, Amy Herman, 13, hanno due personalità molto diverse. Megan è la ragazza più popolare e disinibita del gruppo dei pari del quartiere: ama la trasgressione, le feste in cui si consuma cocaina e si fa sesso con il primo che capita. Amy è molto timida, e si lega a Megan proprio per non vivere intensi sentimenti di esclusione dal gruppo. Nonostante queste notevoli diversità, le due sono molto legate, si potrebbe dire inseparabili. Le due ragazze si frequentano con regolarità quotidiana attraverso videochat da computer fisso o da cellulare, ma usano anche frequentare ragazzi in chat. La propensione al comportamento a rischio, induce Megan a frequentare via chat un ragazzo di 17 anni, Josh, il cui indirizzo gli è stato fornito da un'amica. Megan non può infatti resistere alla tentazone di incontrare ragazzi più grandi di lei al di fuori delle solite noiose compagnie con le quali si organizzano i soliti consumati festini. Dopo vari incontri virtuali, Megan un giorno riesce a convincere Josh ad uscire con lei. L'incontro tra Josh e Megan avverrà, come segnalano le telecamere di videosorveglianza che si trovano nel vicolo che è il luogo del loro appuntamento. Tuttavia Megan non tornerà mai più a casa. L'amica Amy, disperata, farà di tutto per ritrovarla, tanto quanto le forze dell'ordine locali, completamente disorientate e impotenti.

E' da ormai più di due decenni che mi occupo, costantemente, quotidianamente, di adolescenti (e preadolescenti). Ragazzi la cui tipologia, nel caso del mio lavoro, è variegata: adolescenti delinquenti, rapinatori, traumatizzati, tossicomanici, depressi, autolesionisti ma anche relativamente "normali", vitali, creativi. Quello che posso dire sulla base dell'esperienza maturata fin qui, è che per lavorare con gli adolescenti occorra innanzitutto tollerarne l'assoluta, rocciosa, incontrovertibile ambiguità. L'adolescente è infatti un pesce ambiguissimo, chiaroscurale, che nuota in acque sabbiose dalle quali emerge quando vuole lui (se lo vuole) e nelle quali poi si inabissa nascondendosi in luoghi (mentali e fisici) dove nessuno riuscirà mai a trovarlo. Occorre rispettare, prima di ogni cosa, tale modo di essere per poterlo incontrare davvero dove lui si trova. Tale ambiguità possiamo immaginarcela come una luminosità rifrattiva perennemente cangiante, che descrive a 360 gradi, anche nell'arco di pochi minuti, una gamma di emozioni che vanno velocemente da un'estremo all'altro, dalla gioia più vitalistica e travolgente all'umore più nero e nichilista. A complicare questo quadro bisogna pensare a questa "luminosità dell'essere-adolescente" come sempre inserita all'interno di un gruppo di pari che rispecchia, rifrange, amplifica ulteriormente il fascio d'onda individuale, deformandolo, nascondendolo, rendendolo ancora più inafferrabile. Seguendo altri modelli più "psicologisti", potremmo dire che l'adolescenza utilizza la seduzione narcisistica come volàno quintessenziale per muoversi nel mondo, ma anche qui la seduzione è declinata secondo tutti i registri possibili, dalla perversione sadomasochistica, all'affetto più genuino, al bisogno di contatto e sensorialità di cui può aver bisogno un neonato. E' per tutti questi motivi (e sicuramente anche per altri, ancora tutti da scoprire) che il rapporto tra adulto e adolescente è una roba difficilissima, sempre provvisoria, mutevole, che si muove su terreni sempre scivolosi, sconnessi, da ricomporre, dissodare e ricostruire di minuto in minuto.

Perché tutta questa lunga premessa, voi direte, nel momento in cui mi accingo a scrivere una doverosa (e sottolineo doverosa) recensione a questo - qualcuno direbbe ennesimo- found footage diretto da Michael Goi, direttore della fotografia e del comparto elettrico fin dagli anni '80 (andatevi, vi prego a leggere il suo lungo curriculum su IMDB), dopo tanti anni al suo primo lungometraggio? Prima di rispondere a questa domanda della quale troverete varie risposte nel corso di questa recensione, desideravo però ringraziare vivamente l'amico Elvezio Sciallis che ci ha segnalato quest'opera in una sua fondamentale recensione che vi invito, pure quella, a leggere con attenzione. 

Un primo abbozzo di risposta alla domanda che facevo più sopra è che "Megan is missing" va ben aldilà di un cosiddetto found footage, perché possiede una rara, forse unica, capacità al limite del sonsoriale puro, di farci entrare esperienzialmente in quelle acque ambigue e rifrattive in cui si muove la modalità adolescenziale di "essere-nel-mondo". Prima di tutto il casting: Goi riesce ad estrarre dalla popolazione umana dei "ragazzi di oggi", un campione di ambiguità strutturale adolescenziale quant'altri mai ne avevo visti all'interno di una pellicola. Il "Twin Peaks" di Lynch, e i suoi accenni alle morbosità nascoste dietro il mulino bianco della provincia americana, franano decisamente in un secondo ordine di cose cinematografiche di fronte ai lunghi primi piani di una Amber Perkins (Megan), ripresa - attenzione - con una semplice Canon XH-A1 mentre chatta con "Skaterdude". Qui Goi ha una capacità inesorabilmente magistrale nel rendere chiare tutte le movenze narcisistico-seduttive del tutto intrinseche, genetiche, enzimatiche, dell'adolescenza che sta vivendo Megan. Pulsionalità, aggressività, trasgressione, perversione, fragilità estrema, tutto quello spettro luminoso di cui dicevo più sopra, ci appare in tutta la sua bellissima e insieme dolorosa epifania. 

Tutto questo materiale vivente viene poi lavorato da Goi nella costruzione del rapporto tra le due amiche, anche qui declinato rappresentandone una freschezza e "primitività" tra l'infantile e l'"adulto", che fa venire i brividi per quanto ti tocca, empaticamente, da vicino (alla faccia di tutti i detrattori del maledetto mockumentary, tra i quali anche tu stesso a volte tendi a collocarti. "Megan is missing" è in realtà una pietra miliare, angolare a mio avviso del genere mocku perturbante, pietra che si pone al termine di una parabola estetico-filmica che parte "The Blair Witch Project", passa da "Cloverfield", devia egregiamente su "REC" (il primo), si sposta ovviamente sul profondo "The Bay" di Barry Levinson, e infine arriva alla nostre povere Megan & Amy).   

Sul piano della resa perturbante, come scrive giustissimamente Elvezio nella sua recensione, Goi utilizza in genere FF solamente come mezzo per infliggere allo spettatore pugni nello stomaco ad altissimo gradiente di penetrazione emotiva, costruendo una storia che dapprima ci avvolge nel ventre molle, ambiguo e seducente dell'adolescenza, e poi ci fa crollare il pavimento (emotivo), improvvisamente sotto i piedi, proprio nel momento in cui ci eravamo messi comodi comodi. 

Ma vediamolo da un'angolatura psicoanalitica, questo film. E fermiamoci in particolare sulle due truculente foto che Goi ci mostra pur brevemente (quasi dei rapidi flash visivi, potremmo dire) come reperto fotografico inviato alla polizia dal proprietario di un sito fetish sul quale "Skaterdude", il rapitore sadico, le ha introdotte. Queste due foto, in termini bioniani sono due bombe emotive che prendono il nome di Elementi Beta. Gli Elementi Beta, secondo Bion sono stimoli traumatici di varia intensità e natura, che colpiscono le nostre frontiere emotive mentali, le nostre barriere paraeccitatorie, che servono a mettere al riparo la nostra omeastasi mentale, il nostro equilibrio psichico. Tale barriera possiamo immaginarcela come le ciglia dei nostri occhi, che si chiudono per ripararci dalla polvere, in una giornata di vento. Quanto la barriera viene infranta da qualche Beta, ecco che tuttavia entra in scena l'Elemento Alfa, cioè un'innata capacità immaginativo-emotiva che ha lo scopo di ricucire (sempre secondo il modello psicoanalitico di Bion) le rotture provocate da stimoli Beta esterni disturbanti (sotto vari profili). Alfa è una capacità che potremmo definire "poetica", "sognante", produttrice di senso, che ci è in primis stata trasmessa dalla mente e dalla dedizione di chi si è preso cura di noi, subito dopo la nostra nascita. E' quindi una funzione curativo-trasformativo materna. Viste in questa prospettiva le due foto che Goi ci butta lì dopo quaranta minuti di tranquillo andamento mockumentaristico, sono una sorta di antimateria poetica. Sono il buco nero in cui tutte le capacità poetico-ricostruttivo-creative della mente (elementi Alfa) scompaiono senza speranza. E Goi riesce (eccome se ci riesce) a rappresentare tale "lato oscuro della forza" attraverso quello che è un piccolo film che ci racconta una piccola, "inutile" storia di provincia. 

A guardare "Megan is missing" viene in mente "Martyrs" di pascal Laugier, l'avvitamento continuo e inesorabile, in senso catastrofico, del suo script. Se in "Martyrs" l'escalation del prefinale e del finale è costituito dalla metodica ripresa  del processo di disumanizzazione della protagonista, in "Megan is missing" tale escalation consiste in un rovesciamento improvviso e radicale di prospettiva, ribaltamento che si cronicizza tragicamente negli ultimi, lunghi, estenuanti minuti finali, a camera fissa, dove il semplice muoversi di quell' insetto sulla terra scavata da "Skaterdude" è in grado di iniettarci un senso di inquietudine dal quale non è mai possibile allontanarci. Il rapporto vittima/carnefice, così come è condotto narrativamente in questo film, mi ha fatto tornare alla mente un importante capitolo del libro di Christopher Bollas "Cracking Up. Il lavoro dell'inconscio", dal titolo emblematico "La struttura del male". In questo scritto Bollas descrive la mente di un serial killer come una struttura che capovolge drammaticamente il rapporto adulto-bambino, tradendo in modo radicale le aspettative e i bisogni di chi, appunto, ha più bisogno (il bambino). Vedetevi con attenzione come "Skaterdude" utilizza l'orsacchiotto di Amy, e successivamente leggetevi quel capitolo: poi, a bocce ferme, ne riparliamo. 

Goi riesce addirittura a farci diventare, nostro malgrado, degli spettatori di quello che potrebbe essere, tranquillamente, uno snuff movie se non sapessimo che siamo pur sempre all'interno di una rappresentazione finzionale. Snuff movie pur sempre al di qua di qualsiasi intento eccitatorio, poiché le sequenze più drammatiche della riduzione di Amy a cosa, sono sempre fuori campo. 

Quello di Goi è un'operazione che, oltre a rappresentare a mio avviso una vera chiave di volta del genere found-footage, permette, anzi promuove una riflessione sui rapporti tra realtà e immagine, tra "realismo" cinematografico come tecnica narrativa e iperrealismo massmediatico nel proporci la "realtà" all'interno delle nostre case, ad esempio attraverso la TV. Le sequenze del film che riportano le immagini dei telegiornali e delle trasmissioni locali, ci dicono proprio questo, e in questo forse il film di Goi cade in un errore non da poco, che è quello di esporsi alla critica di voler essere didascalico, pedagogico. Come se Goi avesse scritto questo film per "educare" gli adolescenti di oggi rispetto all'uso acritico del web.  

Ben altro è in verità lo spessore perturbante di questo film, che, pur nei suoi limiti di scrittura e di tecnica, rimane comunque un oggetto da manovrare con cura e non certo per spiriti delicati. Oggetto che fa scivolare in secondo e terzo piano tutte le dispute odierne sul found-footage, dipingendo un affresco agghiacciante, pur facendoci sentire il palpito vitale e ambiguamente sofferto dell'adolescenza. Da vedere (quando si hanno tuttavia i bioritmi in stato di grazia, sia chiaro...). 

Regia: Michael Goi   Soggetto e Sceneggiatura: Michael Goi  Cast: Amber Perkins, Rachel Quinn, Dean Waite, Jael Elizabeth Steinmeyer, Kara Wang, Brittany Hingle, Carolina Sabate, Trivge Hagen, Rudy Galvan, April Stewart, John Frazier, Tammy Klein, Lauren Lea Mitchell, Jon Simonelli, Craig Stoa. Nazione: USA Produzione: Trio Pictures Durata: 85 min. 


domenica 11 maggio 2014

Afflicted, di Derek Lee e Clif Prowse (2013)


Derek e Clif sono amici da una vita, legati come fratelli. I due stanno organizzando il viaggio che hanno sempre sognato: questa volta l'occasione è quella buona per partire per un viaggio intorno al mondo, avente come prima tappa l'Europa. 

Poco prima della partenza a Derek viene purtroppo diagnosticato un aneurisma cerebrale silente, tuttavia (o proprio per questo) decide ugualmente di partire per il viaggio insieme a Clif, un tour orbe-terraqueo che aveva sempre desiderato ardentemente. 

Cliff e Derek si tuffano così nella vita: paracadutismo, notti insonni, musica, locali e chi più ne ha più ne metta. Pochi giorni dopo la partenza, in un locale dove si recano ad ascoltare musica, Derek ha un incontro occasionale con una donna con la quale passerà la nottata. 
A partire da quel momento Derek comincerà a dare segni di una misteriosa malattia che esploderà in tutta la sua virulenza mentre i due ragazzi si trovano in Liguria, a Vernazza, circondati dallo splendore naturalistico delle mitiche Cinque Terre. 

Lontani migliaia di chilometri da casa, in un paese a loro del tutto sconosciuto del quale non conoscono la lingua, Clif e Derek riprendono con una telecamera Go-Pro tutte le loro imprese, per poi inviare loro notizie via internet ai familiari che li seguono trepidanti da casa. Ciò che le telecamere dei due ragazzi riprenderanno non saranno tuttavia le immagini di una vacanza, bensì quelle di un incubo sempre più cupo e catastrofico...  

Ecco un altro interessante esempio di riflessione sul "fraterno" declinato in ambito horror-perturbante. Un "fraterno" inteso come doppio oscuro, come altra faccia del legame affettivo che fonda il rapporto, in questo caso, di due amici-fratelli. L'esperimento condotto dal duo Lee-Prowse è interessante innanzitutto perché mescola fin dall'inizio tutte le carte: i registi sono anche i principali protagonisti di una storia in stile found-footage da loro stessi girata essenzialmente utilizzando una telecamera Go-Pro, professionale certo, ma anche assai amatoriale. Il film inoltre si è portato a casa le migliori menzioni al recente Fantastic  Fest-Horror di Austin, Texas (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura), in un sol colpo, il che non è cosa di poco conto, se pensiamo che lo stilema utilizzato dai due registi non è altro che il solito mocku che ormai dilaga come una piaga d'Egitto su tutto il genere cinematografico perturbante contemporaneo. 

Personalmente ho trovato interessante questo film per due ragioni, di cui parlerò diffusamente qui: 1. la "leggerezza" della scrittura filmica; 2. il tema del legame di amicizia fraterna tra i due protagonisti nonché una sua rappresentazione molto realistica all'interno della contemporaneità. 

1. "Leggerezza" della sceneggiatura: il film è molto "semplice", descrive una storia attraverso quadri di quotidianità di viaggio che sembrano fluidi acquerelli liberamente appesi su una parete bianca. Vediamo stanze di locande liguri proprio come quelle che utilizzeremmo noi se organizzassimo un week-end fuori porta; verande sul mare di trattorie qualsiasi; nulla è costruito o allestito in nessun modo particolare. La scrittura filmica di Lee e Prowse sembra dirci che la realtà si incontra cammin facendo ed appare come desidera, la si incontra là dov'è, così com'è (il cinema non la costruisce, e non costruisce niente della realtà, non c'è nessun kit preconfezionato da nessuna parte; semmai il Cinema costruisce un racconto, che è una realtà "altra", sebbene altrettanto, se non maggiormente, reale). Questo significa ad esempio la sequenza della visita alla vigna con l'agricoltore che invita i due turisti nella cantina: spazi disordinati, brutte botti dalla forma poco seducente, ferraglie sparse in giro. All'interno di questa visione erratica, provvisoria, altalenante, frammentata (la realtà, la vita sono fatte proprio così, non è vero?), i due filmaker sanno tuttavia imprimere un ritmo crescente al disagio che producono gradualmente, a partire dall'incontro di Derek con la donna misteriosa nel locale notturno. Vediamo solo un bacio, di sfuggita, tra di loro, in mezzo a molti ragazzi che bevono birra e ascoltano musica, ridanciani, sempre all'insegna del frammentario fluire delle cose. Poi, sempre nel flusso di questo acquerello morbidoso e un pò bohemien che è la scrittura filmica di questa pellicola, ecco che arriva il "taglio nella tela", il morso della creatura, che comincia a scrivere sul corpo di Derek la sua storia da incubo. 

Da questo punto in poi è come se il Doppio oscuro apparisse come un secondo pittore sulla scena: assistiamo ad un alternarsi di Folon (Clif) e  Pollock (Derek), abbracciati in una danza-lotta mortale dalla quale non possono staccarsi, dalla quale non possono prendere distanza, perché la musica di morte che li trascina è come quella delle sirene di Ulisse, ma nessuno dei due si è preventivamente legato all'albero maestro della nave. 

Ancora una volta è il sangue, simbolo di legame narcisistico profondissimo tra i due, a emergere come archetipo che muove le cose, shakespearianamente, "tra terra e cielo". Non ci appare affatto strano o incongruo, infatti, che Clif tenti di donare davvero il suo sangue all'amico per "curare" la sua strana malattia. Sotto questo profilo la sequenza dell'ambulanza, pur risentendo di alcune risonanze forse superflue alla "REC", rimane eccellente prova di regia (le reazioni dell'operatrice del 118 sono personificate in modo molto genuino ed efficace). 

Il film non si fa prendere mai in contropiede dal "già visto": non siamo affatto nei territori di uno zombie movie, e neppure di un vampire movie. La verità è che non sappiamo mai dove siamo, sebbene siamo sempre nello stesso posto, cioè in un found-footage-horror, e lo sappiamo bene. Lee e Prowse ci inchiodano in un labirinto di rimandi e citazioni (viene in mente naturalmente Chronicle, di Josh Trank, 2012, con tutto quel bailamme di superpoteri alla Spiderman di cui Derek si ritrova dotato). Tali citazioni  -scopriamo però a fine visione-sono trattate dai due registi come semplici spezie per condire un piatto che alla fine possiede un sapore particolare e tutto suo.

2. Il legame di amicizia fraterna: non ci è dato di sapere molto circa la storia dell'amicizia tra i due protagonisti. Ci viene presentata come un dato di fatto dal quale siamo implicitamente esclusi. Ma proprio questo espediente muove in noi identificazioni multiple, rimandi a situazioni similari che possono esserci accadute. Chi di noi non ha avuto un "amico del cuore"? Chi di noi non ha fatto trekking con un amico, tentando di realizzare il sogno di essere "lontani da tutto", liberi, rispecchiati narcisisticamente in questo desiderio di libertà tutto adolescenziale? E' proprio questo il significato del Doppio gemellare, del "gemello immaginario" (di cui ci ha parlato anche lo psicoanalista inglese W. Bion, ma questo è un lungo discorso, su cui magari torneremo in un altro post): l'idea di una dimensione relazionale in cui lo scambio fraterno significa illusoriamente "esser fatti l'uno per l'altro". Tale illusione (onnipotente) nasconde l'altra faccia mortifera della medaglia. Il lato oscuro si presenta come avidità orale primitiva (la sete di sangue) che distrugge l'altro cannibalizzandolo: l'ombra dell'oggetto scisso-sdoppiato di Caino e Abele cade sul soggetto come Doppio del legame affettivo fraterno.

Su un piano più eminentemente tecnico, Lee e Prowse sanno mantenere un ritmo sempre rapido, serrato, alternando in modo inusuale e arioso sequenze piuttosto cruente (vedasi l'auto-enucleazione  di Derek) a sequenze d'azione volutamente, creativamente iperboliche (il salto di Derek dalla finestra della pensione ligure sulla piazza affollata della cittadina, con quella panoramica mossa in Go-Pro sulle case colorate tutt'intorno, riprese dal basso verso l'alto). Si arriva ad un finale che è un redde rationem neanche tanto scontato, che chiude ciò che era iniziato come un viaggio da sogno, aprendo una lugubre finestra su quello che potrebbe essere la rappresentazione di un'inferno sulla terra. Cosa vogliamo di più da un film che si muove nel territorio del Perturbante?   

Regia: Derek Lee, Clif Prowse   Soggetto e Sceneggiatura: Derek Lee, Clif Prowse Fotografia: Norm Li   Montaggio: Greg Ng    Cast: Derek Lee, Clif Prowse, Baya Rehaz, Michael Gill, Jason Lee, Gary Redekop, Lily Py Lee, Zach Gray, Edo Van Breeman   Nazione: Canada, USA   Produzione: Automatik Entartainment, IM Global, Téléfilm Canada  Durata: 85 min.  

giovedì 24 aprile 2014

Oculus, di Mike Flanagan (2013)


Circa dieci anni dopo la tragica morte dei loro genitori, Kayle Russel e suo fratello Tim tornano nella casa dove si è consumato sotto i loro occhi quel terribile evento. Kayle è sempre stata convinta che suo fratello, ritenuto colpevole della morte del padre, fosse innocente, e ora che Tim è uscito dal carcere minorile dove ha scontato la sua lunga pena, è decisa a dimostrare che la causa della loro traumatica infanzia risiede in uno specchio antico e stregato. Armata di telecamere e altri ausili tecnologici la ragazza è pronta a tutto pur di dimostrare la sua tesi, nonchè l'innocenza del fratello. Chiusi nella vecchia casa della loro infanzia, i due fratelli daranno inizio ad una lotta micidiale contro il malefico specchio...

A dispetto dei dotti pareri di molti "barbagianni lacaniani" sempre alla ricerca della Verità e soprattutto del "vero" Perturbante freudiano nel cinema, "Oculus", secondo lungometraggio di Mike Flanagan (dopo il notevole "Absentia", 2011), credo sarebbe certamente stato inserito da Freud come elemento di indagine per il suo famoso saggio sul Perturbante (1919). E lo penso almeno rispetto al significato cui personalmente uso dare a tale termine applicandolo ad un film (su cosa intendo per "perturbante" nel Cinema, in particolare horror, ma non solo, invito alla lettura, per chi ne avesse voglia, della mia lunga recensione a "Them" di Xavier e Palud pubblicata sul sito della Società Psicoanalitica Italiana, che trovate qui). 

Ma andiamo con ordine: innanzitutto ci troviamo davanti ad un oggetto inanimato (uno grande specchio che ha più di 300 anni), capace di animarsi e generare atmosfere da incubo all'interno del suo raggio di azione ambientale. In seconda istanza abbiamo a che fare con un intreccio di relazioni familiari all'interno del quale spicca il rapporto tra un fratello e una sorella di circa 10-12 anni (il tema della "fratria" è caro a Flanagan, e lo abbiamo visto svilupparsi in modo altrettanto inquietante nel film "Absentia". Ma ci torniamo sopra fra poco, perché è un tema molto importante). Con questi due soli ingredienti (oggetto inanimato + rapporto tra fratelli), posti in dialettica tra loro, Flanagan riesce ad allestire un diorama allucinatorio e demoniaco degno di un Hoffmann, producendo atmosfere angoscianti senza ricorrere ai soliti mezzucci tecnici hollywoodiani che ben conosciamo. 

Come avevamo già felicemente notato nel suo film del 2011, il regista di Salem, Massachusetts,  è capace di costruire il plot mediante la rappresentazione di rapporti familiari nei quali la parte da leone la fanno soprattutto i dialoghi, sottolineati da primi piani illuminati in modo diafano e surreale, tra i componenti della famiglia, la cui disgregazione affettivo-emotiva viene descritta con graduale, lenta ma inesorabile senso di ineluttabilità. In tale prospettiva sono presenti nel film rimandi sottili, delicati e non compiacenti o fatti in malafede, a "Shining" di Stanley Kubrick.  

Ma è il tema del rapporto fraterno (come accennavo più sopra) che viene qui sviluppato da Flanagan con una finezza psicologica così particolare, a risultare, almeno ai miei occhi, il vero, piccolo capolavoro interno ad un film che ha peraltro anche alcuni ovvi difetti, di cui parleremo dopo. Attraverso un montaggio morbido e ottimamente concatenato (di Flanagan medesimo), il regista ci fa oscillare continuamente tra flashback risalenti alla traumatica infanzia di Kayle e Tim, e il racconto presente del rapporto ritrovato tra due fratelli separati per più di 10 anni. Tale oscillazione diventa una vera e propria regressione percettiva ed emotiva costruita sul registro del climax. Un andamento accompagnato da una colonna sonora cupissima e incisiva ma mai strillata, mai invadente. All'interno di questa frammentazione dei piani temporali, Flanagan riesce a mantenere comunque sempre a fuoco la relazione fraterna, mediante dialoghi molto espressivi, nei quali risaltano gli aspetti di conflitto, rivalità, ma insieme di profonda intimità tra i due, nonché la posizione di "saggia sorella maggiore", protettiva e determinata, che riveste Kayle. E questo vale sia per i due fratelli del presente, che per i due fratelli da bambini (un plauso ai piccoli Annelise Basso e Garrett Ryan Ewald, diretti con delicata maestria, ma anche di per se stessi davvero bravi, accidenti). 

Con poche, millimetriche battute buttate lì con il giusto timing, Flanagan ci fa sentire l'intenso rapporto che lega un fratello e una sorella naturalmente molto diversi tra loro come tutti i fratelli, ma uniti da una stessa origine attraversata da un trauma praticamente impensabile, non ri-attraversabile sul piano dell'elaborazione psichica. Il regista ci fa toccare con mano i differenti stili caratteriali, le differenti posizioni circa quel passato, le modalità difensive, le piccole fobie, il diverso modo di percepire ed affrontare i problemi, il diverso modo di ricordare. Sebbene il tema del "fraterno" trovi anche in psicoanalisi poco spazio, Freud ne parla comunque in almeno tre sue opere: L'interpretazione dei sogni (1899), Il romanzo familiare dei nevrotici (1908) e, più estesamente in Totem e Tabù (1912-13), rilevandone naturalmente il ruolo di sostituto relazionale del complesso edipico, e sottolineandone la caratteristica di legame particolare, unico nel suo genere, all'interno delle relazioni d'amore. Se infatti il fratello-o la sorella- sono i primi nemici che il bambino incontra sulla sua strada, la relazione fraterna è anche quella in cui il gioco dell'identificazione e dell'amore è più stretto. 

Flanagan sembra aver letto Freud molto attentamente, soprattutto se vogliamo guardare al finale spiazzante, drammatico, del film: amore e odio fraterni si mescolano qui come in un velenoso e insieme saporito cocktail che ci tramortisce obnubilandoci la mente. Allo spettatore accade cioè la stessa esperienza di mordere una mela scoprendo che invece è una lampadina che ci fa sanguinare i denti (come accade a Kayle nella memorabile sequenza della mela che diventa lampadina, appunto): il rapporto fraterno, sembra dirci Flanagan (come ci dice chiaramente anche Freud) è proprio come lo vediamo raffigurato metaforicamente in quella sequenza. E' un legame di sangue, nel senso che si fonda su una ferita narcisistica, sul vissuto di gelosia rispetto al non poter possedere, tutti per sè, i genitori. Non a caso lo psicoanalista francese Pontalis, parlando del fraterno, lo descrive come legame di frérocité, parola intraducibile in italiano, che fonde frère (fratello) con férocité (ferocia). Flanagan, attraverso il suo film riesce ad evocare il fraterno come metafora principale del legame di solidarietà umana, e insieme come esempio assoluto di discordia e morte (vedi la sequenza finale). 

Certo, il film evidenzia alcune ingenuità dello script, prima fra tutte la rappresentazione dell'esperienza traumatica dei due fratellini,  trauma familiare abnorme, che travolgerebbe in pochissimo tempo chiunque, paralizzandone in modo dissociativo qualsiasi reazione. Ma Flanagan sa che noi sappiamo che  lui ci sta raccontando una una fiaba macabra sul rapporto fraterno, e nelle fiabe può accadere di tutto. 

Film molto onirico, molto profondo, stratificato, valutabile secondo varie ermeneutiche (si potrebbe ad esempio vedere in chiave di rappresentazione di angosce primitive impensabili, trasmesse di generazione in generazione; oppure come riflessione sull'assenza di sguardo-oculus materno come causa di disorientamento, di crollo o non integrazione del Sè, e così via), Oculus rappresenta una notevole, pregevolissima prosecuzione elaborativa dei temi perturbanti abbozzati da Flanagan nel suo primo film (Abstentia). Consigliato, anche, se non soprattutto, per una riflessione non banale in tema di "legame fraterno".   

Regia:  Mike Flanagan   Soggetto e Sceneggiatura: Mike Flanagan, Jeff Howard   Fotografia: Michael Fimognari    Montaggio: Mike Flanagan    Musiche: The Newton Brothers    Cast: Karen Gillan, Brenton Thwaites, Katee Sackhoff, Rory Cochrane, Annalise Basso, Garrett Ryan Ewald     Nazione:  USA  Produzione: Intrepid Pictures, Blumhouse Productions, WWE Studios    Durata:  105 min.  

domenica 13 aprile 2014

[Sogni e visioni] Monumenti di Memorie

[Inauguro con questo post, un nuovo  tag di cui avevo parlato all'inizio dell'anno]




Siamo monumenti di memorie sedimentate che ci muovono dall'interno, crittografie di linee e ponti e collegamenti con ciò che anticamente ci ha dato origine. Origine che permane nel suo dileguarsi paleontologico, nella sua deriva di tempo che pure mantiene sottili fili di sonda, echi di sonar, palombarità dissimulate in movimenti in superficie. Siamo sedimenti che oscillano come quadri di Arcimboldo, un pò disegnati da noi stessi, ma in gran parte da un lontano ecosistema che ci attraversa, ecosistema tutto intrecciato di leggere ombre e suoni e sbuffi e ooooh, e aaaah, e ghirighirighiri, guarda l'orsetto! dormi dormi bel bambino, un frullio di tende di trine che lo sguardo rincorre insieme allo zigzagare delle forme della carta da parati sbiadita color albicocca e mio padre che ascolta la domenica mattina il Trovatore mette sul giradischi dischi di vinile e partono i suoni del coro o l'ouverture. Siamo profonde lunghe disseminate stratificazioni di oggetti, ammoniti, trilobiti dell'anima sulle nostre Dolomiti quotidiane, cercando il dolo più mite, non come quando, allora, le faglie stridevano l'una contro l'altra e il lupo nero era un vero lupo, e il ragno appeso nel corridoio buio era un mostro avido, e la straga di Hansel e Gratel mangiava i bambini sul serio e Frankenstein faceva capolino nella sua maschera grottesca sulla soglia della camera dove i nostri letti a castello di metallo arancione luccicavano sotto le luce della tua scrivania sulla quale tenevi gelosamente le cassette dei Deep Purple, dei Santana, dei Queen. Ogni tanto, nel silenzio di queste stanze attraversate dal vento ancora caldo dell'estate, ritrovo qualche fossile, la foto in bianco e nero, la vecchia pipa di mio nonno, il barattolo di alluminio leggerissimo dove mia madre metteva lo zucchero, il tavolo del tinello con su il vetro verdino, e sotto il vetro intravedevi, come in un acquario attraversato dalla luce primaverile, le figurine romantiche della caccia alla volpe, dei cani, dei corni e dei cavalli, aggrovigliati tutti insieme in un evanescente aurorale sottobosco inglese dello spirito, che si muove nel suo tempo transeunte.

sabato 5 aprile 2014

Dark House, di Victor Salva (2014)



Nick è un ragazzo molto speciale: quando il suo corpo entra in contatto con quello di un'altra persona, egli è in grado di vedere come quella persona morirà. All'inizio della storia Nick viene chiamato da sua madre che è rinchiusa in un ospedale. Qui la donna gli rivelerà che suo padre, che era stato dato per morto, in realtà è vivo, ed è la causa di tutti i mali della loro disgraziata famiglia. Ma questo padre-fantasma è forse l'unico a conoscere la causa profonda dei poteri paranormali di Nick. E' così che Nick decide di intraprendere un viaggio per scoprire dove si è nascosto suo padre. Durante il viaggio lo accompagneranno il suo migliore amico, Ryan e la sua fidanzata Eve, incinta e ormai quasi al termine della gravidanza. Durante il viaggio i ragazzi si troveranno di fronte ad una grande casa abbandonata immersa nei boschi: è la stessa casa che lui disegnava da bambino, e che credeva fosse il frutto di una sua fantasia. Ma ciò che più atterrisce Nick e i suoi compagni è il personaggio solitario e molto aggressivo che vive all'interno della casa. Si tratta di una figura inquietante, dai lunghi capelli sporchi e che impugna un'accetta. Riusciranno i nostri eroi a sopravvivere a tutto questo e a svelare il terribile segreto che si nasconde all'interno della casa?

Diciamolo fin da subito: ci aspettavamo qualcosa di molto diverso da quest'ultima prova di Victor Salva  , il mitico filmaker di "Jeepers Creepers" (2001), e "Jeepers Creepers 2" (2003)(un'ultima prova attesa con una certa, giusta curiosità). Invece il film è sciaguratamente, inaspettatamente deludente, per i motivi che andiamo di seguito enumerando. Non sappiamo se tale delusione dipenda dalla sceneggiatura, affidata non si sa perché, al giovane debuttante Charles Agron, alla sua prima prova in assoluto, ma il dubbio che dipenda proprio da tale scelta, rimane.   

1. Il soggetto. Salva si incarta immediatamente come una mosca appiccicata su una striscia di carta moschicida, su un soggetto bizzarro, sbilenco, appesantito da gravami stereotipici stantii (la haunted house, il bosco, l'accetta, il villain rurale violento e via dicendo), che poi il regista non sa più come alleggerire, bonificare, trasformare creativamente. Il film diventa così, ben presto, come una sorta di liofilizzato cui bisognerebbe saggiamente aggiungere del brodo, ma il minutaggio non lo consente: infatti come si fa a girare un horror superiore ai '90 minuti consueti? Dopo la sequenza iniziale del fuoco che divampa dall'abbraccio tra madre e figlio, che fa ben sperare, che colpisce, che emoziona, tutto successivamente si attorciglia pesantemente, proprio come il grande albero misterioso che cresce addossato alla casa che Nick e i suoi amici trovano durante il loro peregrinare lungo la Route 68. L'idea stessa di un ragazzotto qualunque posseduto da poteri paranormali che gli permettono, al tocco, di prevedere la morte di chi gli sta vicino, non convince, non si spiega, e appare appunto scelta bizzarra. 

2. Lo script. Lo sviluppo del soggetto, fino ad un certo punto sembrerebbe interessante e abbastanza ben congegnato. Ad esempio la sequenza del drugstore nel quale i ragazzi incontrano gli strani, curiosi autoctoni all'inizio del film, è visivamente molto ben curata e i personaggi ivi presenti sono molto caratteristici, a modo loro inquietanti quanto basta. Anche la sequenza in cui i protagonisti, tornati nel villaggio, non vedono anima viva nello stesso drugstore chiuso, mentre l'inquadratura in interno mostra che il locale è affollato, possiede una sua forza straniante, certamente perturbante, e rimanda a certe atmosfere alla King dei tempi migliori. La costruzione della narrazione filmica procede bene anche durante il primo attacco boschivo da parte dell'"armata dell tenebre" guidata da Tobin Bell, il cattivone, con quelle accette che roteano fischiando tra i rami, e colpiscono nei punti giusti le prime vittime. Qui però si chiude il felice esordio della fiaba horror che Salva vuole raccontarci. Da circa metà pellicola infatti tutto si appiattisce inesorabilmente e si "liofilizza", come riferito al punto 1. Il film diventa un miscuglio di stereotipie cinematografiche di genere, e chi guarda non sa mai bene se si trovi dalle parti di uno slasher, di un haunted house movie, o di cosa. Momenti di vero spavento come Dio comanda non se ne provano affatto. La casa è poi semplicemente un pretesto ambientale, una quinta teatrale come un'altra per poterci far ballare dentro gli attori di una storia confusa, vuota e che non cattura. 

3. La regia. "Jeepers Creepers" giocava molto, registicamente, con gli elementi della sensorialità e della pulsionalità adolescenziali, elementi su cui Salva faceva aleggiare la morte, una morte che poi piombava dall'alto, nascosta in mezzo ai campi di granturco. Notevole ispirazione e saggio, innovativo uso del simbolico perturbante, in quel film. I movimenti di macchina erano fluidi, larghi, giocati su piani medio-lunghi che riprendevano dall'alto il veicolo su cui viaggiavano i teenegers in viaggio. Una regia molto nuova, ariosa, che sapeva rendere terrorizzante un semplice campo coltivato, nel silenzio estivo della campagna americana. "Dark House" non vede nulla di questa perizia che Salva aveva mostrato così epifanicamente in "Jeepers Creepers". La cinepresa sembra qui inscatolata e paralitica, complice un'ambientazione instabile, sempre frammentata tra boschi, casa maledetta, suv, automobili in viaggio. A un certo punto viene da rivolgersi a Salva per dirgli: "decidi dove stare, Jesus Christ!". Ma lui non si decide. Vaga. Stabilizza primi piani nei dialoghi, poi muove velocemente la macchina lungo i muri tra un condotto di areazione e l'altro per seguire la voce del demone nascosto nella casa, per poi soffermarsi nell'abitacolo del caravan dove Ryan e la sua amica amoreggiano (peraltro dopo essere stati attaccati da un'orda di barbari armati di scure, così, come se niente fosse). In sintesi si capisce lontano un miglio che Salva non ha affatto il polso della situazione rispetto a ciò che sta girando. 

4. Fotografia, Sonoro, Make-up e CGI. Tutti i comparti che usualmente servono ad abbellire l'impalcatura di un film, in particolare fotografia e sonoro, non producono qui, in verità, nulla di particolarmente significativo. Fotografia (di Faunt LeRoy) e musiche (di Salvay) incidono assai poco. Forse sole le sequenze di attacco dei selvaggi armati di accetta sono accompagnati bene da un sottofondo musicale incalzante e indicato, ma in fondo anche questo elemento dello script si perde nell'andamento ondivago della narrazione complessiva. Make-up ed effetti speciali non sembra poi interessino molto a Salva, e francamente non si capisce perché faccia indossare all'esercito tenebroso dei wind-coats stile Driza-Bone australiano. Forse perché hanno freddo nel bosco? Mah. 

Poco, pochissimo da dire sul cast, che non si merita uno spazio specifico nell'elenco numerico svolto sin qui. Tutti attori poco significativi, compreso Tobin Bell, che certamente era più a suo agio nei panni di Jigsaw nei vari "Saw" che ben conosciamo. 

E' dunque possibile comprendere "Dark House" solo se lo guardiamo come uno scivolone davvero sgradevole da parte di un regista che aveva dato un suo contributo interessante al genere cinematografico Perturbante. Il film è inoltre sin troppo tirato per le lunghe pur non coinvolgendo minimamente lo spettatore, nè tanto meno  iniettandogli una qualche minimale dose di inquietudine, come invece ci saremmo aspettati. Il prefinale del film ci fa arrancare attraverso i futili dialoghi tra le donne del gruppo, dialoghi che poi si risolvono in colpi di scena drammaturgicamente debolissimi. Il finale è confusissimo, inutilmente caotico, strillato, come se Salva avesse voluto improvvisamente risollevare in extremis le sorti di un'opera ormai completamente alla deriva. Ma, si sa, la somma delle parti non mai uguale al tutto, e la gestalt globale del film rimane ciò che è, ferma nella sua generale inconsistenza, nonostante i colpi di coda finali. 

"Dark House", come avrete abbondantemente compreso, è purtroppo una pellicola che sconsiglio, e che anzi suggerirei proprio di evitare. 

Regia: Victor Salva Soggetto e Sceneggiatura: Victor Salva, Charles Agron   Fotografia:  Don E. Faunt LeRoy  Montaggio: Ed Marx   Musiche: Bennett Salvay   Cast: Tobin Bell, Luke Kleintank, Alex McKenna, Anthony Rey Perez, Zack Ward, Lacey Anzelc, Ethan S. Smith, Lesley-Anne Down   Nazione: USA   Produzione: Charles Agron Productions   Durata: 90 min.