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sabato 30 aprile 2011

Open Obscura


Desidero segnalare una mostra di Tony Oursler, proteiforme e inquietante artista statunitense, noto per le sue installazioni perturbanti. La mostra si terrà al Pac (Padiglione d'Arte Contemporanea) di Milano, Via Palestro, 14,  fino al 12 giugno. Come scrive A. Besio, Open Obscura è una "spettacolare, inquietante, misteriosa full immersion nell'ultramondo di Tony Oursler, il visionario artista americano famoso per le sue video-sculture". Vedremo al Pac molte sue opere perturbanti, come "Faccioni grotteschi dai profili mostruosi ma dai nomi bizzarri come i personaggi dei cartoons (Pet, Crunch, Sss, Ello) che bisbigliano frasi sconnesse all'indirizzo di un pubblico sempre più coinvolto e insieme sconcertato (...) una delle sue installazioni più sconcertanti si intitola DPM, acronimo di Disturbo della Personalità Multipla. Metafora, secondo lui, della condizione dell'uomo postmoderno. Venticinque sagome sferiche sono appese a una parete, come gli schermi televisivi di uno studio di regia. Ciascuna riflette l'immagine in movimento dello stesso volto, ma in una posa sempre diversa. Come diversi sono i frammenti di parole che pronunciano. La mostra diverte i bambini, conquistati dagli effetti speciali, e turba gli adulti" (A. Besio). Credo sia una mostra da vedere assolutamente. E che recensirò, non appena ne avrò il tempo. Qui sotto alcune opere di Oursler.

    


martedì 26 aprile 2011

Habemus Papam, di Nanni Moretti (2011)


Il film si apre alla morte del Pontefice e con il Conclave che deve eleggere un nuovo Papa. Ma il neoeletto (Michel Piccoli) è preda dei dubbi e delle ansie, depresso e timoroso di non essere in grado di assolvere il suo compito. Il Vaticano chiama allora uno psicanalista (Nanni Moretti) perché lo assista e lo aiuti a superare i suoi problemi.

Devio dalla mia consueta routine recensoria, che guarda soprattutto al cosiddetto "Cinema Perturbante", per rivolgere la mia attenzione all'ultimo film di Nanni Moretti, "Habemus Papam". Ma forse non è neanche una vera "deviazione", nel senso che si tratta di un film di genere comedy che contiene comunque spunti molto perturbanti, per non dire inquietanti, visto che si muove intorno a un vuoto identitario molto grave, molto pesante e molto amplificato, dal momento che riguarda un nuovo eletto al soglio pontificio. "Habemus Papam" non è certo il cosiddetto "capolavoro" di Moretti, infatti alcuni punti della sceneggiatura non sono sviluppati nel modo migliore; alcuni personaggi, soprattutto direi la psicoanalista moglie di Moretti (Margherita Buy) sono, a mio avviso, anche mal tratteggiati, e non hanno uno spazio adeguato e un ruolo coerente all'interno della struttura narrativa del plot. Anche il personaggio stesso del Papa (un bravissimo Michel Piccoli umanissimo e a tratti commovente) poteva forse essere disegnato rendendo più comprensibili i motivi biografici che lo portano alla sua crisi di identità: al contrario  lo vediamo immerso nel suo horror vacui agorafobico, di fronte alla folla di San Pietro, ma non capiamo che storia c'è dietro a questo sconosciuto Cardinale Melville, che sarà a noi sconosciuto fino alla fine. Certamente interessante il rimando al Melville di "Moby Dick", con tutte le dislocazioni associative e culturali del caso, associazioni che tuttavia rimangono sospese e interne alla nostra mente. Ma, aldilà di queste note critiche collaterali, il film possiede un impianto estetico di indubbia e grande forza. Le inquadrature fisse sulla finestra vuota di San Pietro dalla quale svolazzano i pesanti tendaggi di velluto che ammiccano verso un interno buio,  sono di grande effetto poichè evocano e descrivono quel vuoto identitario e di leadership di cui accennavamo più sopra. Si tratta del vuoto identitario di una "guida", di una "responsabilità", di una "leadership", appunto, che sembra voler rappresentare in toto la crisi di valori che la nostra società (italiana in primis) sta attraversando. In fondo è la stessa accusa che Moretti ha rivolto ai politici di sinistra durante il periodo dei "girotondi", e "Habemus Papam" rende questa critica filosofica, metafisica, rasentando il pessimismo esistenzialista, e introducendo il conflitto e la Krisis proprio nel punto più alto dell'Ideale Simbolico del valore della Fede cattolica. Sul piano estetico, questa operazione è mirabile e davvero perturbante, anche perchè l'andamento del film è drammaturgicamente condotto in stile comedy e comico fino a tre quarti di minutaggio, per poi virare verso un climax drammatico e concludersi in modo psicologicamente ancor più drammatico e straniante. Sul piano tecnico ho trovato semplicemente geniale l'uso della slow-motion nelle riprese della partita di pallavolo tra cardinali, tanto quanto l'espediente di inserire la rappresentazione teatrale de "Il Gabbiano" di Anton Checov all'interno del plot. Com'è noto, "Il Gabbiano" possiede notevoli relazioni testuali con l'"Amleto" di Shakespeare, e rimanda così, ancora una volta, coattivamente, al tema del dubbio, dell'identità in crisi ("essere o non essere?"), del conflitto con le origini e col Padre (Dio Padre Onnipotente). Il film consente poi notevoli chiavi di lettura psicoanalitiche, sulle quali Moretti ironizza, ma anche mette in seria dialettica, dal momento che siamo qui nei paraggi di un'analisi filmica del tema dell'Ideale dell'Io nei suoi rapporti con l'Io, tematica centrale, per esempio di "Lutto e Malinconia" (1915), di Sigmund Freud. Il tema del lutto, intrecciato con quello della Psicoanalisi, era peraltro già presente e orchestrato con modalità toccanti nel precedente "La stanza del figlio" (2001), vera e propria indagine psicologica di grande finezza sul tema, appunto, del lutto. "Habemus Papam" sembra continuare questo percorso relativo a un'indagine sull' Identità come scarto, come vuoto di senso, nel momento in cui è posta a confronto con responsabilità enormi, con Ideali, con Fedi, con Fondamentalismi e Ortodossie che finiscono per schiacciare l'Io e la sua "teatrale" ma fragile vitalità. Il film di Moretti è molto complesso e pensato, sebbene non sviluppato in alcuni punti, come si sarebbe meritata una storia che vola molto alto in fatto di riflessione sulla natura umana di ognuno di noi. Film senza dubbio da vedere e al quale dedicare cineforum, dibattiti o semplici discussioni serali tra amici fidati. 

Sito del film dove potete trovare: sceneggiatura, trailer, foto, locandine, filmografia e tutto il resto: Habemus Papam. Qui sotto un video dal backstage (molto carino).

lunedì 25 aprile 2011

25 Aprile

Quale modo migliore per commemorare il 25 Aprile, Festa della Liberazione, che non quello di guardarci insieme trailer e locandina del nuovo, attesissimo film di Terrence Malick, "The Tree of Life"?






The tree of life Trailer di Nelson44405

sabato 23 aprile 2011

Scream 4, di Wes Craven (2011)


Sono passati dieci anni da quando Sidney Prescott ha definitivamente sconfitto l'ennesima incarnazione del killer mascherato da “Ghostface”. Il vice-sceriffo Dewey Riley è diventato nel frattempo sceriffo e si è sposato con la giornalista Gale Weathers.
La serena vita di tutti loro sta per essere di nuovo messa in pericolo: il killer mascherato sta infatti per tornare a uccidere...



L'ultima puntata di "Scream" è un'operazione "semplicemente" autoriflessiva e metafilmica. Ho collocato l'avverbio semplicemente tra virgolette non a caso, poichè tale operazione portata avanti da Wes Craven, uno dei più insigni "grandi vecchi" del sottogenere slasher, produce più di una suggestione e merita certamente una visione. Confesso che non sono mai stato un fan della saga di Scream, che, a differenza di quella di "Nightmare on Elm Street", partorita e patrocinata dallo stesso Craven, mi è parsa  sempre troppo stereotipicamente teeny, a parte naturalmente il primo film della serie, piuttosto innovativo. Per tale ragione mi sento abbastanza neutrale e scevro da insane passioni da poter prendere una giusta distanza critica rispetto a questo quarto episodio della saga. Il primo aspetto della sceneggiatura (scritta ancora una volta da Kevin Williamson, come al solito sagace e narrativamente contorto al punto giusto) che colpisce molto positivamente, è il continuo rimando a tematiche sociali attuali: siamo nell'epoca del trionfo della tecnologia audiovisiva, dell'essere inteso come apparire, sempre attraverso protesi tecnologiche quali i telefonini, gli iPad, i video. La comunicazione virtuale e globalizzata (Internet, blogs, Facebook) entra in "Scream 4" come protagonista centrale, dal momento che soffonde tutto lo script con la sua presenza, a tratti anche (volutamente) eccessiva. Il picco assoluto di questa presenza ingombrante e insieme effettivamente reale della tecnologia, la vediamo nelle sequenze nel prefinale della festa, quando il grande schermo collocato all'interno del fienile, fa da contraltare alle videocamere nascoste dalla moglie dello sceriffo Dewey Riley: un vero tripudio orgasmico voyeuristico portato avanti dalle protesi tecnologiche della ripresa. Credo che questa sia la riflessione più importante di tutto il film, cioè il descrivere l'attualità di una nuova generazione di giovani completamente appiattita sul versante esibizionistico-voyeuristico della relazione sociale. In fondo anche il finale, circonvoluto e barocco, ma anche assai rispettoso delle regole auree drammaturgiche del cinema horror classico, porta avanti queste riflessioni, e lo fa con leggerezza, cioè senza "fare la morale". Lo sviluppo della storia contiene inoltre molti spunti autoironici (vedi la battuta su Bruce Willis del poliziotto nero appena accoltellato da Ghostface), nonchè parecchie citazioni appartenenti alla horror teenager culture, e proprio in questo senso "Scream 4" si propone esplicitamente come operazione metafilmica. Lo fa tuttavia attraverso modalità che da una parte rimangono saldamente ancorate a stilemi ortodossi, e che dall'altra riscrivono il genere slasher inserendolo con perfetta pertinenza estetica nel mondo di oggi. Uno slasher che sa dunque ben interpretare costumi e derive di un gruppo sociale giovanile odierno, totalmente assorbito e plagiato dalla cultura dell'immagine. Sul piano tecnico,  alcuni movimenti di macchina sono magistrali, come nella lunga sequenza della classe del college dove si passa da soggettive con la web-cam di Robbie e Charlie, alla macchina da presa di Craven. Effetti speciali e sonoro sono ingredienti ben temperati e integrati all'interno della gestione scenica del plot, e non mancano di verve perturbante, così come alcune sequenze thrilling (vedi quella dell'armadio che Kirby sta per aprire, incitata dalla voce gracchiante dell'assassino al telefono). In sintesi "Scream 4" vede quella vecchia volpe di Wes Craven molto ispirata e desiderosa di riflessioni metafilmiche e cine-storiografiche di grande attualità in tema di horror, come non capita spesso di vedere nello stagno remakkettaro hollywoodiano. Da vedere.  Regia: Wes Craven Sceneggiatura: Kevin Williamson Cast: Neve Campbell, David Arquette, Courteney Cox, Lake Bell, Ashley Greene, Hayden Panettiere, Rory Culkin Nazione: USA Produzione: Dimension Films, Corvus Corax Productions, Outerbanks Entertainment Anno: 2010 Durata: 111 min.

venerdì 22 aprile 2011

The Unconscious in Cinema

Il 47° Congresso Internazionale dell'IPA (International Psychoanalytical Association) che si terrà a Città del Messico dal 3 al 6 agosto 2011, ospiterà un Festival del Cinema dal titolo "The Unconscious in Cinema".  Saranno proiettati e discussi tre film molto importanti, tra cui "Il Labirinto del Fauno" di Guillermo del Toro, 2006. Potete trovare qui The Unconscious in Cinema, ulteriori informazioni e trailer dei film di cui si parlerà. 











l Labirinto del Fauno, di Guillermo del Toro, 2006









Babel, di Alejandro González Iñárritu, 2006











Los Olvidados, di Luis Buñuel, 1950

domenica 17 aprile 2011

Insidious, di James Wan (2011)


I coniugi Josh e Renai Lambert, appena si trasferiscono nella nuova casa, avvertono strane presenze. Dopo qualche giorno, il figlio Dalton, sentendo rumori strani in soffitta, sale per curiosare ma cade rovinosamente da una scala scricchiolante finendo in coma. I Lambert, allora, con amara sorpresa scoprono che il corpo inerme del figlio si è così trasformato in una calamita per gli spiriti maligni mentre la sua mente è stata rapita ed intrappolata in una oscura dimensione dominata da una minacciosa entità che si fa chiamare “The Further” (L’”Ulteriorità”).

"Insidious" è un film complesso e pluristratificato, che necessità quindi di una lettura mobile e ugualmente diversificata, cioè capace di guardare al visivo e al narrativo attraverso u'ottica che potremmo definire a tal proposito "binoculare". Fino a circa un quarto di pellicola ci sembra infatti di assistere ad una riproposizione di stilemi risaputi quanto evocativi: il tema della "haunting house", tanto quanto quello del "bambino demoniaco" o posseduto, ci vengono messi su un piatto d'argento, e il tema del "coma" ci rimanda (o almeno me ha rimandato) suggestivamente addirittura a "Patrick" (1978) dell'australiano Richard Franklin, lontanissimo cult anni '80, nel quale il protagonista, un paziente in coma, si scopre dotato di poteri soprannaturali e omicidi. Il piccolo Dalton cade da una scala nella soffitta della nuova casa in stile neovittoriano in cui i due giovani e prolifici genitori (Patrick Wilson e Rose Byrne) si sono appena trasferiti per vivere il loro radioso futuro. Con gradualità straniante, e senso del perturbante di non trascurabile spessore, il regista James Wan (che già si era fatto ben notare con le precedenti e solide prove di "Saw", 2004 e "Dead Silence" ,2007), lavora una sceneggiatura spiraliforme, ascendente a scatti come una scala a chiocciola lugubre e scricchiolante, spiazzando ogni aspettativa dello spettatore, nonchè introducendo, ad ogni giro di scala, nuovi curiosi personaggi che di volta in volta aggiungono grani di inquietudine. Lasciateci alle spalle le suggestioni in stile "Paranormal Activity" e "Patrick", presenti nella prima parte del film, ecco che il giovane regista originario di Kuching, Malesia, prende in mano la sceneggiatura di Leigh Wannel (molto ben scritta, e prima ancora, molto ben pensata) e la cucina con pennellate visive e sceniche in cui i brividi non mancano, rielaborando in modo geniale addirittura alcuni stereotipi di genere. Ad esempio l'ingresso in scena dei due "indagatori del paranormale", che ci sembreranno sulle prime degli sprovveduti "ghostbusters", si rivelerà invece una vera e propria chiave di volta del film, immergendoci in un abisso visionario che porterà felicemente via tutta la nostra attenzione nell'ultima mezz'ora di pellicola. Ma, oltre ai due "indagatori", è certamente la figura-chiave della medium Elise Rainier (una notevole e molto ispirata Lyn Shaye) a fare da punto cardinale di un film che proprio nell'ultima mezz'ora dà il meglio di sè, soprattutto perchè sviluppa spunti perturbanti molto efficaci nel costruire un "mondo dell'Ulteriorità" in cui le anime morte popolano un vero e proprio regno dell'inquietudine. Il sonoro è uno dei mezzi portanti di questa operazione simbolopoietica di Wan: le risatine dei fantasmi, gli scricchiolii della vecchia casa, i pianti della neonata, giungono in modo improvviso e ansiogeno, tanto quanto le "apparizioni" visionarie che da un certo punto in poi popolano la mente e lo spazio abitativo della coppia di genitori. James Wan possiede una mirabile mano nel descrivere la dialettica tra esterno/interno abitativo e interno/esterno psichico, producendo l'effetto di creare uno spazio perturbante sempre più abissale, e abitato da esseri "ulteriori", nel quale ci trasporta con gradualità e, insieme,  inesorabilità. Lo spettatore ha infatti come l'impressione di sprofondare lentamente nelle sabbie mobili di una storia che si fa sempre più intricata quanto visivamente spaventosa. Un pò come se fossimo immersi piano piano in uno di quei fondali marini, tipo Fossa delle Marianne, dove a un certo punto si incontrano creature mai viste o comunque non segnalate dalle più note tassonomie naturalistiche. Alcune immagini finali di Josh con in mano la lampada da campeggio all'interno del buio dell'"Ulteriorità", fa giustappunto pensare a certi pesci abissali e molto aggressivi che portano sulla testa una protuberanza luminescente. Il film poteva essere forse più compatto in alcuni punti, soprattutto nella prima parte, ma comunque rimane un'opera molto interessante e capace di indagare l'immaginario perturbante con una  maestria e una profondità che non è facile reperire nella produzione di genere odierna. "Insidious": decisamente consigliato. 
   Regia: James Wan Sceneggiatura: Leigh Whannell Musica: Joseph Bishara Cast: Patrick Wilson, Rose Byrne, Ty Simpkins, Andrew Astor, Lin Shaye, Chelsea Tavares Nazione: USA Produzione:Alliance Films, Automatik Entartainment, Blumhouse Productions Anno: 2011 Durata: 103 min.

venerdì 15 aprile 2011

mercoledì 13 aprile 2011

Prowl, di Patrik Syversen (2010)


Amber sogna di fuggire dalla piccola città di provincia in cui vive, e convince un gruppo di suoi amici di accompagnarla a trovare un appartamento a Chicago. Quando il veicolo su cui viaggiano ha un guasto, lei ei suoi amici accettano volentieri un passaggio da un camionista, nella parte posteriore del suo camion a rimorchio. Ma quando il conducente rifiuta di fermarsi, Amber scopre che il carico consiste di centinaia di cartoni di sangue. Il loro panico si trasforma in terrore quando il camion si verma all’interno di un capannone abbandonato, completamente al buio. Amber e i suoi amici scopriranno ben prersto che all’interno del sinistro magazzino creature assetate di sangue sono lì riunite per imparare a cacciare prede umane...

Il norvegese Patrick Syversen, dopo il precedente "Rovdyr" (2008), si dedica a quest'ultima prova sbagliando sciaguratamente tutto, ma proprio tutto, a partire dalla presentazione iniziale del solito gruppo di tardo-adolescenti in calore, alle prese con i tormenti di un'amica, Amber (Courtney Hope) che non e' in grado di separarsi dalla citta'-madre alla quale si sente ancora ambivalentemente legata. Il quadretto iniziale dei sei amiconi in festa intorno alla piscina fa immediatamente cascare le braccia per via delle stereotipie insulse che mette subito in scena, neanche tentando di sollevare mai tali stereotipie dalla bassa polvere di superficialità delle caratterizzazioni. Il villain che viene poco dopo chiamato in causa a scombinare la partita dei ragazzoni festaioli, possiede poi una credibilità horror-oriented pari allo zero assoluto. Li fa salire tutti sul suo camion blindato e costoro si mettono a giocare allo spogliarello lasciando il loro amico Eric a condividere la guida con il bruto. Come si vede, già a partire da una sceneggiatura similmente condita fin dalle prime sequenze, non molto si aspetta lo spettatore rispetto agli sviluppi della storia. Tuttavia fino a qui la nostra curiosità ha ancora qualche chance di essere stimolata: non sappiamo dove li porterà il guidatore pazzo, e quindi stiamo a vedere che succede, non ancora del tutto addormentati sulla poltrona. Ecco dunque che entrano in scena i veri "mostri", che pero' appaiono subito come degli pseudo-zombies neanche romeriani, forse piu' simili a vampiri che a zombies veri e propri, cioè in conclusione degli ibridi non molto mitopoieticamente riconoscibili, cioè molto confusi nel loro esibirsi per noi. Questi zombies vampiroidi sono poi frullati da un montaggio epilettico che ce li toglie dalla vista non appena li vediamo, il che, naturalmente, ce li rende ancor piu' antipatici. Dopo la grande apparizione dei nostri improbabili cattivoni, il film procede verso una noiosa sequela di fughe e controfughe di Amber all'interno del magazzino archeologico-industriale, arrivando ad una conclusione banalissima quanto pretestuosa. Effetti speciali scarni e ulteriormente raggelati da una fotografia saturata e insensatamente virante al verdastro, fanno decadere il film al rango di un b-movie che sembra girato da un filmaker che non aveva altro di meglio da fare. "Prowl": noioso, spento, banale e dunque decisamente sconsigliato.

Regia: Patrik Syversen Sceneggiatura: Tim Tori Cast: Ruta Gedmintas, Joshua Bowman, Perdita Weeks, Jamia Blackley, Courtney Hope, Saxon Trainor, Bruce Payne, Oliver Hawes Nazione: USA Anno: 2010 Produzione: After Dark Films, Dobre Films, Midsummer Films


sabato 9 aprile 2011

Source Code, di Duncan Jones (2011)


Colter (Jake Gyllenhaal) è un soldato che fa parte di un programma governativo sperimentale per le investigazioni su un attacco terroristico. Si trova quindi costretto a vivere e rivivere, attraverso la tecnologia, la tragedia di un treno fatto esplodere da una bomba fino a che non riesce ad individuare gli attentatori. Ad aiutarlo nel suo viaggio attraverso il tempo e lo spazio ci sarà un ufficiale di collegamento (Vera Farmiga), mentre sul treno verrà supportato e s'innamorerà di una ragazza (Michelle Monaghan).

Mh, che dire di questo "Source Code" di Duncan Jones, che dopo il notevole "Moon" (2009), prosegue la sua ricerca all'interno del genere fantascientifico-tecnologico, gestendo ottimamente un Jake Gyllenhaal circondato da un cast femminile (Vera Farmiga, Michelle Monaghan) ineccepibile e caratterizzato da un tocco di sensualità molto azzeccato nonostante il contesto futuristico? L'aggettivo che mi veniva in mente accostandomi ad una possibile recensione del film è: "raffinato". Sì, perchè questo regista inglese, nato a Beckenham, Kent, nel 1971, ha dalla sua una indiscutibile vena estetica che non diventa mai, tuttavia, manierismo fine a se stesso, ma che rimane invece molto coerentemente ben inscritta nel genere sci-fi che vuole rielaborare ed indagare . Nel caso di "Source Code" Jones riesce infatti nella mirabile impresa di rendere visivo un plot in stile Philip Dick, maneggiando un tema spinoso e difficile come quello del "salto quantico" temporale. Tema tanto più spinoso quanto più costretto dentro i limiti della scrittura filmica. Far rivivere ripetutamente gli ultimi otto minuti di vita di un uomo all'interno di un vagone ferroviario che sta per esplodere a causa di un attentato terroristico, senza risultare noiosi, implica per prima cosa avere per le mani una sceneggiatura pensata e scritta in modo ferreo e coerente, altrimenti si corre il rischio di buttar via rapidamente il famoso bambino con l'acqua sporca. Oltre alla sceneggiatura, occorre che anche tutti gli altri reparti relativi all'allestimento scenico facciano egregiamente il loro mestiere. Sto parlando naturalmente delle musiche, nonchè degli effetti speciali, della fotografia e, last but not least, del posizionamento della macchina da presa e dei suoi movimenti. Tutto quanto detto sopra fila liscio in modo quasi incredibile. Ad esempio Jones riesce con precisione certosina a generare un equilibrio perfetto tra sequenze a volo d'uccello in modalità steady-cam su panoramiche di Chicago e della soleggiata campagna circostante la città, e gli interni claustrofobici del laboratorio tecnologico dell'esercito in cui il soldato Colter (Jake Gyllenhaal ) si trova. In tal senso il film non risulta mai noioso o pesante, nonostante noi siamo sempre lì a rivivere con Colter i fatidici otto minuti. Jones riesce altresì a dilatare questi pochi minuti, arricchendoli ogni volta di piccoli ma nuovi particolari, e tali da farci riflettere sulla relatività del tempo e sulle modalità soggettive con cui lo percepiamo. Da questo punto di vista "Source Code", nonostante manovri un plot molto più stringato e secco, per esempio del nolaniano "Inception" (2010), risulta molto più fresco, leggero e visivamente ispirato dell'opera di Nolan. Contribuisce a tale risultato certamente anche la fotografia di Don Burgess, capace di calibrare le luci degli interni e degli esterni in modo delicatamente modulato. Le performance attoriali non fanno una piega e si sposano alla perfezione con gli sviluppi di una storia che valorizza il talento dei personaggi sulla scena. Jake Gyllenhaal ha in verità un pò l'occhio di triglia, e proprio per questo motivo non è mai stato il mio attore prediletto, tuttavia qui sa interpretare molto bene un soldato, senza inutili gravami eroico-statunitensi. Michelle Monoghan è molto brava proprio perchè è in grado di contenere una grande sensualità integrandola all'interno dell'environment freddotecnologico che la circonda. Vera Farmiga è notevole perchè misurata e precisa nel reggere i dialoghi con il povero Colter, catacombizzato per motivi professionali nello stretto spazio del laboratorio dove si trova a far da cavia. "Source Code": film che contribuisce ad arricchire di nuovi stimoli il genere fantascientifico, avendo poi il non secondario pregio di non cadere mai in stereotipie e associazioni incongrue ma pericolosamente in agguato, del  tipo "Ritorno al futuro" o visioni di simile tenore. Molto consigliato.

REGIA: Duncan Jones SCENEGGIATURA: Billy Ray, Ben Ripley CAST: Jake Gyllenhaal, Vera Farmiga, Michelle Monaghan, Jeffrey Wright, Russell Peters, James A. Woods, Michael Arden, Cas Anvar, Joe Cobden, Neil Napier,Gordon Masten, Craig Thomas, Susan Bain. FOTOGRAFIA: Don Burgess MONTAGGIO: Paul Hirsch MUSICHE: Clint Mansell PRODUZIONE: The Mark Gordon Company, Vendome Pictures DISTRIBUZIONE: 01 Distribution PAESE: USA 2011 GENERE: Fantascienza, Thriller DURATA: 93 Min


giovedì 7 aprile 2011

Sezione suicidi, di Antonin Varenne (2009)



Anno: 2009 Editore: Edition Viviane Hamy, Paris, Tr. it. Einaudi - Collana "Stile Libero Big", 2011 Traduzione: Fabio Montrasi Pagine: 280  ISBN: 978-88-06-20473-0  Euro: 18,00

Una catena di inspiegabili suicidi segna l'indagine di Guérin, l'eccentrico poliziotto, protagonista del romanzo che ha entusiasmato i lettori francesi. Il tenente Guérin è sempre stato un poliziotto un po' speciale. Misantropo, figlio di una prostituta, vive tutto solo in un appartamento immerso nel caos, con l'unica compagnia di un pappagallo che accoglie l'arrivo dei rari ospiti con vere e proprie esplosioni di turpiloquio. Ma Guérin è anche uno sbirro di prim'ordine, onesto fino al midollo e poco incline ai compromessi. Proprio per questo è stato spedito a dirigere la Sezione Suicidi della Surété. Un esilio ben poco dorato, nel quale sembra condannato all'inattività. Fino a quando Parigi viene sconvolta da una serie di suicidi spettacolari e sospetti. Convinto che l'universo sia una sola, immensa rete di connessioni, e che dunque non esistano fatti isolati, ma solo concatenazioni, Guérin si avvia lentamente a scoprire la verità, tra mille ostacoli, con la coscienza che il caso non esiste e che dietro quelle morti c'è qualcuno pronto a muovere tutte le leve del potere, pur di non essere scoperto... 

E' con vera indignazione che mi appresto a recensire questo pessimo libro di Antonin Varenne, autore tanto osannato in Francia quanto immeritevole di lodi per vari motivi che andrò a elencare qui di seguito. Confesso innanzitutto che raramente mi era capitato di imbattermi in un testo tanto spocchioso ed esibitivo nel modus scribendi dell'autore, che sembra voler sedurre il lettore attraverso la presentazione e descrizione di ambienti e personaggi bizzarri al limite del surreale, fregandosene in toto di quel minimo di coerenza e stabilità narrativa interna di cui necessita ogni romanzo giallo-noir che si rispetti. Qui invece ci troviamo di fronte ad una storia completamente caotica, senza capo né coda, a tratti aggrovigliata e di difficile fruizione. Il personaggio centrale del tenente Guérin vorrebbe poi porsi come contraltare del ben più famoso commissario Adamsberg di Fred Vargas (ben altro talento narrativo, accidenti), ma sa diventare niente più che una macchietta grottesca, con quel pappagallo spennato con cui vive e che avrebbe potuto essere anche un'iguana, o un ornitorinco australiano, senza che il suo inutile ruolo diventi più o meno significativo all'interno dell'intero plot. Francamente questo libro a me è sembrato una immane presa per il culo del lettore, che si vuole stupire con gli effetti speciali di una scrittura molto disinvolta e densa di metafore pseudogeniali, che invece risultano appunto (almeno per me) solo esibitive per coprire il vuoto di un talento che non c'è. Come si fa a presentarsi al lettore con una prosodia di questo tipo: "Savane e Roman entrarono in tromba nella stanza, seguiti da una nuvola di fumo arrabbiato" (pag. 40)? A Varenne sembra di essere originale solo perché sforna una metafora così banale come quella del "fumo arrabbiato"? Oppure, sentite la seguente proposizione: "Guerin afferrò la giacca della tuta spagnola di Lambert e si piegò su un tombino per vomitare. Berlion, ancora in ginocchio, si mordeva la lingua e si teneva i coglioni con gli occhi fuori dalle orbite. Lambert portava il quarantaquattro e giocava a calcio. L'ispettore Bernier non sapeva più cosa fare. Era incazzato con il mondo intero" (pag. 170). Il lettore non è "incazzato con il mondo intero", ma solo con Varenne, che ammanta una storia sgangherata e non convincente di metafore posticce e costruite ad hoc per colpire l'occhio in modo retorico-iperbolico. Varenne, inoltre non ama i suo personaggi, li tratta come burattini senz'anima sbattendoli a destra e a manca per le strade di una Parigi per niente caratterizzata, come ad esempio sa fare in modo molto poetico ancora una volta la grande Fred Vargas. "Sezione suicidi" è un testo neanche tanto lungo (per fortuna), ma che ho trovato faticoso portare a termine, tanto risulta circonvoluto e lontano da qualsiasi tipo di pathos. Anche la coeranza interna di una storia thriller che sembrava partire bene nelle prime pagine, si perde lungo il racconto, fino a terminare con un finale inverosimile, che non permette alcuna vera riflessione in tema di guerra e potere politico-militare, cosa che Varenne desidererebbe vanamente proporci (ma lo desidera veramente?). Libro dunque sommamente sconsigliato, a meno che non vogliate irritarvi masochisticamente al punto, poi, di lanciare il volume violentemente fuori dalla finestra. 

sabato 2 aprile 2011

The Silent House (La Casa Muda), di Gustavo Hernandez (2010).


La giovane Laura arriva insieme a suo padre Wilson in una vecchia e isolata casa di campagna all'interno della quale viene chiesto al padre di effettuare alcuni importanti lavori di ristrutturazione. Durante la prima notte di permanenza in quel luogo misterioso e silenzioso, Laura comincia a sentire forti rumori al piano di sopra, e Wilson sale a investigare. Sarà l'inizio di una lunga e drammatica esperienza...


Il primo aspetto che colpisce di questo horror semi-sperimentale del regista uruguayano Gustavo Hernandez, è il fatto di essere girato in tempo reale mediante un unico, lunghissimo piano sequenza.  La macchina da presa, cioè, sta col fiato sul collo della protagonista per tutto il tempo della nostra visione, senza neppure una soggettiva. L'occhio del regista, e il nostro, seguono ininterrottamente  Laura all'interno e all'esterno della casa, e questo andamento, a lungo andare - e diciamolo subito - mette a dura prova il nostro occhio, benchè abituato ai vari Blair Witch Project e prodotti similari, sebbene non tutti in totale piano sequenza unitario, come in questo caso. L'idea del real-time è suggestiva, anche se un pochetto intellettualoide (i rimandi a Rope di Hitchcock, del 1948, oppure a Invasion di A. Pyun, del 2005, sono piuttosto evidenti in questa particolarissima scelta stilistica del regista), tuttavia il film appare subito sbilanciato tra scelta estetica del movimento di macchina e scrittura filmica, poichè la sceneggiatura non tiene, e si sfilaccia ben presto sgranandosi in molti punti. Già a circa venti minuti di pellicola cominciamo a capire che  Hernandez desidera rielaborare il tema, antico come il mondo, della "casa infestata", volendo  fare l'originalone a tutti i costi, ponendoci cioè davanti a un colpo di scena tanto improvviso quanto tuttavia capace di portarsi via gran parte del pathos di un film che è appena cominciato.  Da questo punto in poi, infatti, (cioè appunto dopo soli venti minuti) lo script sale e scende le scale della "casa muda", donandoci qualche piccolo, banale spaventuccio, ma senza dare mai spiegazioni circa il perigranare insensato di Laura all'interno della casa. Alcuni spunti sono poi elaborati in modo troppo ingenuo (come quello della Polaroid che scatta foto al buio, oppure quello della stanza delle fotografie appese al muro). Non sono trattati con nessuna attenzione neppure i temi più "psiciologici" (se non addirittura psicoanalitici), come il rimando incestuoso della coabitazione di padre e figlia all'interno di una casa-vagina mortifera, di una "balena di Pinocchio" pensata al femminile. Il finale cerca di recuperare tali omissioni simbolopoeitiche sul piano della sceneggiatura, mirando al capovolgimento di prospettiva per spiazzare ulteriormente lo spettatore, e utilizzando tonalità narrative connotate da un romanticismo pseudofemminista che stride con il resto del girato, e non convince. I tre protagonisti della storia, Laura soprattutto (Florence Colucci), appaiono poi come schiacciati nei loro movimenti, dalla presenza soffocante della cinepresa in piano sequenza ininterrotto. A salvarsi rimane una colonna sonora delicatissima  e intimista, molto efficacemente contrastante con il tema soprannaturale, ma del tutto insufficiente a rialzare le sorti di un film che è visibile solo per il suo carattere di sperimentazione cinematografica, nonchè perchè proviene da una nazione lontana (l'Uruguay) che non è famosa per il genere filmico "perturbante". Detto questo, "The Silent House" non ha molto da dire agli amanti del genere, e non produce innovazioni rimarchevoli, in particolare all'interno del genere "case infestate". "The Silent House": da vedere solo per il piano sequenza unico, espediente tecnico rarissimamente utilizzato in un film.  Regia: Gustavo Hernandez Sceneggiatura: Gustavo Hernandez Fotografia: Pedro Luque Cast: Florence Colucci, Abel Tripaldi, Gustavo Alonso Nazione: Uruguay Produzione: Tokio Films Anno: 2010 Durata: 78 min.