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martedì 3 maggio 2016

The Invitation, di Karyn Kusama (2015)



Invitato ad un dinner party dalla sua ex moglie, Will comincia a sospettare che i nuovi padroni della sua vecchia casa non abbiano buone intenzione nei suoi confronti e verso tutti gli amici presenti...

Regia: Karyn Kusama  Soggetto e Sceneggiatura: Phil Hay, Matt Manfredi Cast: Logan Marshall-Green, Tammy Blanchard, Emayatzy Corinealdi, Michiel Huisman, Lindsay Burdge, John Carrol Linch, Jay Larson, Mike Doyle.  Nazione: USA Produzione: Gamechanger Films, Lege Artis Durata: 1h e 40 min.

"The Invitation" è un thriller metafisico (non possiamo propriamente definirlo un horror) che nel corso del suo svolgersi si trasforma sempre più profondamente in riflessione sul lutto patologico, un lutto che per sovramercato è quello per un figlio morto, da parte di una coppia, quella di Eden e Will, ormai separata da alcuni anni (Logan Marshall-Green nei panni di Will sembra un Cristo crocifisso da una Tammy Blanchard-Eden completamente intossicata dal suo stesso narcisismo distruttivo: mai scelta di casting fu più azzeccata). Tale poetica ci viene tuttavia nascosta per quasi tutto il tempo, squadernandosi invece completamente negli ultimi 15-20 minuti, coincidenti poi con un vero e proprio bagno di sangue che non ci saremmo aspettati, quantomeno di tali dimensioni. Ho scritto "metafisico" perché la regista Karyn Kusama declina tutta la grammatica dello script sul piano della costruzione di un'atmosfera paranoide e surreale, entro la quale si muovono personaggi tra di loro apparentemente molto familiari: i personaggi sulla scena si conoscono tutti da tempo, sono vecchi amici, a parte la giovane Sadie e l'enigmatico Pruitt che ci appaiono subito come oggetti bizzarri rispetto all'amalgama del gruppo. Eden organizza una festa nella sua casa sulle colline di Los Angeles, invitando il suo ex-marito, Will e la sua nuova compagna, Kira.

All'inizio tutto appare soavemente amichevole. Il compagno di Eden abbraccia Will; un vecchio amico della coppia si lancia in volgarità goliardiche che fanno ridere tutti; si brinda; ci si accomoda mollemente sui divani del salotto. Poi, lentamente, dopo lunghi piani sequenza sui vasti ambienti della casa, sui corridoi in penombra, sulla piscina azzurrognola, sulle colline illuminate che circondano la villa, il surreale, il metafisico, come in un quadro di De Chirico di nuova fattura, irrompe sulla scena, attraverso la comparsa di un breve video che David (il nuovo compagno di Eden, interpretato da un Michiel Huisman davvero sottilmente perverso) decide di mostrare al gruppo di amici: il video riprende una donna distesa in un letto che esala il suo ultimo respiro, mentre una sorta di santone post-moderno propone alcune sue considerazioni non particolarmente profonde sulla morte e sulla possibilità di liberarsi da ogni sofferenza. Eden e David plaudono a tale raggelante visione, mentre il gruppo di amici, Will soprattutto, rimangono attoniti e imbarazzati di fronte alla piega incomprensibile che sta prendendo la serata. Subito dopo lo stesso David  propone a tutti un gioco che consiste nell'esprimere, da parte di ciascuno, un desiderio che vorrebbe realizzare lì, quella sera. Anche qui il surreale la fa da padrone: Eden desidera baciare sulla bocca il vecchio amico Ben, e lo bacia davvero, mentre Sadie che ha sempre più l'aria di una sgualdrinella da due soldi capitata lì nessuno sa per quale motivo, afferma che il suo desiderio è quello di amare tutti i presenti. Di seguito Pruitt racconta col sorriso sulle labbra della morte della moglie, causata inavvertitamente da lui durante un violento litigio con lei. 

A questo punto lo script subisce un essenziale avvitamento sul registro della paranoia. Una delle partecipanti al gruppo decide di andarsene, si sente molto imbarazzata, non se la sente di restare. David insiste che rimanga, Will mette a tacere il compagno di Eden, e la donna se ne va, seguita da Pruitt  che deve spostare la sua automobile parcheggiata dietro quella della donna. Da qui in poi il narrato diventa tutto un susseguirsi di dialoghi sotto forma di battibecchi tra Will, Eden, e David, in un andamento schizo-affettivo che aumenta a vista d'occhio la tensione. La paranoia sale, qualcuno insinua che i due ospiti appartengono ad una setta, e Will comincia a sentirsi molto confuso e spaventato. Si aggira per la casa nella quale ha abitato in anni passati con moglie e figlio, ricorda il volto del suo bambino, attraverso immagini struggenti che il regista colloca in alcuni punti nodali della storia (vedi il flashback "edipico" in cui Will ed Eden sono nella vasca da bagno, e il figlio li sorprende in atteggiamenti teneramente erotici).

Fino al settantesimo minuto tutto procede su un registro esistenzialistico-metafisico, cioè non accade nulla se non sul piano di dinamiche gruppali stranianti, e il girato appare come teatrale, statico. Il viraggio catastrofico arriva inaspettatamente a circa 15 minuti dalla fine del film, durante la bellissima sequenza del brindisi, il cui drammatico, sconvolgente seguito è girato con un uso del ralenty perfetto, toccante, un ralenty cadenzato da note cupe, lente, funeree. È proprio tra prefinale e finale che il tema del lutto persecutorio si mostra come il cuore pulsante, ferito a morte, di tutto il film. Kusama, inaspettatamente, dopo un "Jennifer's Body" (2009) che non aveva lasciato un segno significativo, ci mostra invece, con artiglio da pantera, il segno, il marchio a fuoco del lutto, e lo fa senza nessun velo, "a cuore aperto" potremmo dire, e senza mai toccare le corde di un romanticismo manieristico o di qualsivoglia tipo, tenendosi lontano da sequenze gratuitamente lacrimevoli (a partire dalla morte del figlio di Eden e Will, le cui modalità rimangono avvolte nel mistero).

La fine di Eden, sdraiata sull'erba del giardino è una rappresentazione emblematica di questa scelta stilistica tutta centrata sul tema del dolore mentale e della sua pensabilitá/impensabilitá. "The Invitation" è un'altra bella, intensa, indimenticabile prova del nuovo corso cinematografico perturbante statunitense. Un film al quale mi sono avvicinato con cautela, avendone letto fin troppo bene da più parti, ma che ho trovato molto intenso e tecnicamente raffinato, in particolar modo dal punto di vista di una scrittura filmica altamente poetica e incisiva nel creare atmosfere emotive che Melanie Klein credo definirebbe senz'altro "schizo-paranoidee" allo stato puro. Atmosfere che avvelenano le menti dei protagonisti e dei padroni di casa (Eden e David), e che tendono a contagiare il gruppo intossicandone i legami e le relazioni. Tale rappresentazione della paranoia come fenomeno di gruppo (anche religioso, anche politico, anche aziendale ad esempio) è molto suggestiva e anche scientificamente fondata, se guardata da un punto di vista ad esempio psicoanalitico. Basti leggere alcuni testi significativi in merito al funzionamento mentale dei gruppi (vedi, W.R. Bion, 1958 E. Jaques, 1990, R. Kaes, 2009 etc.) per rendersi conto che "The Invitation" ha a tale proposito molto da dire, anche a psicoanalisti, gruppo-analisti, terapisti di coppia e figure affini. Ha molto da dire in ogni caso, e a tutti, quindi lo consiglio vivamente.