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sabato 8 giugno 2013

The Bay, di Barry Levinson (2013)



A Claridge, piccola città sulla baia di Chesapeake, nel Maryland, sono in corso i festeggiamenti per il 4 luglio. E' una bellissima giornata di sole e tutti gli abitanti stanno invadendo gioiosi le piazze e le strade. Ma tutto non è come sembrerebbe: i cittadini di Claridge non sono consapevoli che un grave pericolo che viene dal mare incombe su di loro: un tipo di parassita marino, la Cimothoa Exigua, ha invaso le acque del luogo, introducendosi nei pesci . La situazione sfugge di mano alle autorità locali quando si scopre che il parassita è passato ad infestare anche il corpo degli umani...

Molti complimenti a Barry Lenvinson, regista di un certo valore e merito ("Rain Man", 1988, "Sleepers", 1996) che con questa sua ultima operazione di taglia e cuci mockumentaristico pone un'altra pietra miliare sul sentiero del found footage horror, iniziato possiamo dire con "The Blair Witch Project" (1999) di Myrick e Sànchez, continuato con "Rec" (2007) di Balaguerò e Plaza, e portato avanti egregiamente da "Cloverfield" (2008) di Matt Reeves. Lenvinson propone una variazione horror su tematiche ecologiche, costruendo un collage di finti video amatoriali, filmati di videoconferenze tra autorità locali, riprese di videocamere a circuito chiuso, spezzoni di telegiornali e così via, un puzzle composito e polimorfo in cui tutti i pezzi sono montati e scanditi con mano da vero maestro, a partire dall'idea portante dell'intervista via Skype della giornalista unica testimone non silenziata dall'FBI (una giovane e bravissima Kether Donohue che in quell'unico continuo primo piano costituisce da sola una vera e notevole innovazione del concetto di "Io narrante"). Nel caso di "The Bay" il found footage viene appositamente sgravato dai soliti difetti di eccessivo "realismo" da videocamera mossa e saltellante, e viene invece proposto attraverso una coerente e fluida continuità narrativa che con determinazione procede inesorabilmente ad instillare nello spettatore una sottile inquietudine generata proprio dal perfetto realismo delle sequenze (impressionanti gli spezzoni in cui vediamo la bambina in connessione Skype con l'amica a cui mostra le vesciche che il parassita le ha procurato, e a cui racconta quanto dolore fisico sta soffrendo). Levinson sa creare un'atmosfera sempre più mortifera e catastrofica ma attraverso modalità stilistiche evocative, suggestive, mai violente (a parte la sequenza del suicidio del poliziotto). Il mosnstrum rappresentato dalla Cimothoa Exigua mutante, parassita peraltro realmente esistente in natura e dalle abitudini di per sé poco raccomandabili (si installa sotto la lingua dei pesci divorandola dall'interno e sostituendosi alla lingua stessa del malcapitato) , non è sbattuto in faccia allo spettatore, ma è mostrato come una sorta di normale scarafaggio casalingo, ma proprio per questo assume valenze angoscianti nel momento in cui è associato ad una sua penetrazione nel corpo umano. Levinson in tal senso riesce ad evocare angosce molto primitive in chi guarda, cioè nel bambino che ha paura del buio mentre scende in cantina da solo e che vive in noi aldilà delle nostre adulte rimozioni. Lenvinson riesce cioè a muovere davvero quei fantasmi che in tutti noi albergano, che sono poi derivati emotivi dell'angoscia di morte infantile, quell'angoscia, quel resto traumatico che non è mai stato possibile bonificare del tutto, neanche da parte della madre più buona, consolante e sollecita. Si tratta di un'angoscia sia ontogenetica che filogenetica, sembrerebbe, infatti non è un caso ad avviso di chi scrive, che il regista abbia preso come protagonisti maligni della storia proprio i pesci, i nostri veri progenitori biologici, facendoli diventare i portatori di una morte che dall'interno divora le sue vittime. Un'autodistruttività, sembra volerci dire Lenvison, già insita nell'uomo stesso che per via della sua avidità di denaro e di potere non esita ad inquinare il mare, grembo materno da dove filogeneticamente deriva, pur di mantenere vivo un modello illusorio di onnipotenza e megalomania. E' il modello consumistico americano della deregulation, del liberismo reaganiano, che produce come unico effetto quello di creare ipertrofia narcisistico-distruttiva. La Cimothoa Exigua rappresenta tutto questo e altro ancora, ma è l'estetica complessiva del film a lasciare una traccia indelebile sullo spettatore, poiché molte sequenze contengono una certa poesia perturbante raramente visibile in altri prodotti di genere. Ci riferiamo ad esempio alle sequenze in cui Stephanie, dopo la morte in diretta, ancora una volta su Skype, del marito Sam, con il suo bambino si incammina sulle buie strade di Claridge alla ricerca di un'automobile per sfuggire dal pericolo: sono sequenze asciutte, semplicissime, ma simultaneamente molto forti ed emblematiche. Notevoli sono anche gli scambi in videoconferenza tra il dottor Jack Abrams dell'ospedale di Claridge, e le autorità sanitarie dello Stato, molto professionali, secche e insieme potenti. Molte angolature perturbanti vengono poi trasmesse mediante i dialoghi, senza che nulla venga mostrato, come nella bellissima sequenza con inquadratura a camera fissa in notturna della casa in cui i due poliziotti sono entrati, mentre noi sentiamo il dialogo agghiacciante tra loro due e gli abitanti feriti a morte della casa. Ulteriore merito del regista è quello di aver condotto un casting magistrale perché sa rendere molto bene il senso della normalità quotidiana della middle class americana di provincia "reale". In sintesi l'ottimo esito di questo film risiede nella perfetta integrazione tra ancoraggio al "reale" (ricordiamoci che lo schifosissimo parassita di cui si parla nel film esiste veramente) ed evocazione di angosciosi fantasmi inconsci impalpabili ma altrettanto emotivamente reali, utilizzando il genere mockumentary con rara maestria, delicatezza e grande attenzione alla scelta del cast. Il mood musicale orchestrato da Marcelo Zavros, e il montaggio coerentissimo di Aaron Yanes, incorniciano l'opera in un complessivo e felice equilibrio d'inquietudine. "The Bay", film toccante che sa muovere acque e sedimenti antichi e fa riflettere sul futuro. Da vedere. (N.B. Il doppiaggio italiano in sala purtroppo è pessimo e non rende l'originale, che suggerisco vivamente).
Regia: Barry Levinson   Soggetto e Sceneggiatura: Michael Wallach, Barry Levinson   Fotografia: Josh Nussbaum   Montaggio: Aaron Yanes  Musiche: Marcelo Zarvos  Cast: Kristen Connolly, Jane McNeill, Anthony Reynolds, Christopher Denham, Michael Beasley, Stephen Kunken, Frank Deal, Justin WelbornStacy Rabon  Nazione: USA  Produzione:  Automatik Entertainment, Hydraulx  Durata: 84 min.  

lunedì 3 giugno 2013

Iron Doors, di Stephen Manuel (2010)



Un uomo si sveglia all'interno di una cella chiusa da una solida e irremovibile porta d'acciaio. Deve trovare a tutti i costi il modo di uscire da lì, altrimenti morirà di fame e di sete...

Il giovane regista tedesco-irlandese Stephen Manuel mette in scena la scarna ed enigmatica sceneggiatura di Peter Arneson rappresentandoci una storia che potrebbe tranquillamente essere trasposta a teatro. Anzi, nel corso della visione di questo film ci si chiede perché Manuel non abbia preferito appunto un teatro di Dublino o di Berlino piuttosto che mettere in moto tutto l'ambaradàn cinematografico (molto più costoso, tra l'altro) per raffigurare una storia che forse avrebbe reso molto di più, su un piano drammaturgico, come piece per un pubblico più ristretto. "Iron Doors" è praticamente il mito di Adamo ed Eva capovolto: là dove i due nostri antenati sono scacciati dal Paradiso Terrestre, che presto diventa "Paradiso Perduto", qui i due soli protagonisti del film sono costretti ad una convivenza drammaticamente claustrofobica per poi raggiungere un paradiso (allucinosico? extraterrestre? Non importa a nessuno, e soprattutto non importa ad Arneson, lo sceneggiatore) di cui vediamo peraltro solo pochi secondi di un'inquadratura fissa nel finale. Il film è un beckettiano "Aspettando Godot", solo che alla fine Godot arriva, e questo è uno dei problemi principali della pellicola. Arneson scrive un film tutto proteso all'enigmaticità narrativa, all'evocazione simbolico-magrittiana, come testimoniano le sequenze in cui il prigioniero (Axel Wedekind) riesce ad aprire l'armadietto di metallo e trova le bombole di gas della fiamma ossidrica: scopriremo presto che la fiamma ossidrica non servirà certo a fondere la pesante porta in stile caveau di banca, ma a ben altra funzione (sebbene similare). Tale sequenza a me ha fatto venire in mente il famoso quadro di Magritte che rappresenta una pipa con la didascalia paradossale "Questa non è una pipa". Il film si dispiega tutto su questa linea, percorso nel quale le immagini assumono subito una valenza ipersimbolica (vedasi la bara e il paralume), eccessiva tuttavia, iper-astratta potremmo dire, al punto che al termine del film lo spettatore si sente semplicemente truffato, perché pensava di visionare un film horror di genere claustrofobico e invece scopre di aver visitato un allestimento artistico alla Biennale di Venezia. Non si fa così, caro Manuel, anche perché qua e là ci fai sentire il profumo dell'antico "Cube" di Vincenzo Natali (1997), per poi aspirarlo via tutto con un finale inspiegabile e al confine con il new-age.  Montaggio, fotografia e sonoro sono peraltro ineccepibili, e scandiscono la tempistica narrativa in modo denso e mai annoiante (a parte il secondo atto, forse un pò troppo tirato per le lunghe, ma bisogna pur arrivare agli '80 minuti canonici, altrimenti si faceva un cortometraggio, no?). Oltre a ciò il film parte bene, in modo utilmente straniante, con quel topo morto brulicante di vermi steso a terra, quasi a rappresentare un memento mori al prigioniero, ma ben presto lo script si annoda su se stesso  e diventa esercizio puramente autoreferenziale, fino all'auto ingessatura vera e propria. Un'ingessatura che, nell'economia della storia, in effetti non può che avere uno sbocco completamente eccentrico rispetto al girato precedente, ma che demistifica del tutto l'unico elemento su cui poggia il plot, e cioè l'angoscia claustrofobica di cui non capiamo l'origine. E' come se Manuel ci facesse girovagare per un'ora  in un ristorante indiano, per poi farci inopinatamente sedere in giardino dove ci serve invece i pizzoccheri con del buon vino rosso, cercando di convincerci che in simile contrasto risieda la vera e profonda natura di un'opera d'arte. Gli attori eseguono il copione in modo piuttosto scolastico e, come si diceva più sopra, teatrale: Wedekind si atteggia ad eroe prometeico in un contesto che meno mitopoietico non si potrebbe immaginare e per giunta non rende affatto l'idea della condizione umana in situazioni estreme. La bella Rungano Nyoni fa da spalla a Wedekind e rappresenta la pura "insostenibile leggerezza dell'essere" di kunderiana memoria, più di ogni altra cosa. Che dire? Un film che vorrebbe a tutti i costi rappresentare l'atopìa e lo straniamento, sfiorando tangenzialmente (e sideralmente) il genere horror, ma che sortisce poi solo l'effetto di apparire amorfo e senza spina dorsale. "Iron Doors": pellicola inutile e vuota, quindi da evitare. 
Regia: Stephen Manuel  Soggetto e Sceneggiatura: Peter Arneson Fotografia: Jan Reiff   Musiche: The Vibez, Stefan Ziethen  Cast: Axel Wedekind, Rungano Nyoni Nazione: Germania  Produzione: Fullfeedback Productions, Water Bear Productions Durata: 80 min.