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giovedì 31 marzo 2011

Hatchet II, di Adam Green (2010)


La giovane Marybeth riesce a scappare dalla palude dove vive il leggendario e sanguinario Victor Crowley ma, non contenta di essere sopravvissuta, convince il reverendo Zombie di New Orleans ad accompagnarla di nuovo nel covo del mostro per recuperare i resti dei suoi familiari. Organizzato un nuovo gruppo di spedizione, Zombie rivela ben altri progetti rispetto a quello di eliminare il terribile Crowley... 

Voglio pensare che Adam Green, con questo secondo capitolo di "Hatchet", abbia voluto riposarsi, dopo le fatiche e l'energia profusa in "Frozen", abbia voluto cioè dedicarsi a un divertissement senza pretese particolari, poichè di questo si tratta, cioè di un film poco ispirato e anche un tantino monocorde. Le spinte filologico-ricostruttive del cinema anni '80, della "old   school american horror", delle radici arcaiche dello "slasher", presenti ed egregiamente operanti nel primo episodio, sono qui certo presenti, ma trattate con superficialità. Ad esempio le sequenze splatter sono orchestrate e condotte in modo troppo automatico e freddo, così che non trasmettono nessuna sensazione, nè tantomeno inducono a particolari riflessioni circa il tema del corpo martirizzato e dissezionato, anche nelle sue valenze più sessualmente exploitate. Nonostante il cast sia assolutamente perfetto, e si muova fin dalle prime sequenze con autoironica e ponderata leggiadria, lo script procede lungo un percorso stancamente risaputo che evolve in successivi climax durante i quali il mostro-bambino Victor Crowley, ormai cresciuto anche come fantasma di se stesso, compare dalla giungla paludosa con la sua motosega iper-mega-fallica, immagine condensata di un padre-figlio primordiale castrante, ma nulla più. Tutto vira velocemente al grottesco, all'eccessivo, al grandguignolesco, ma sempre senza emozionare, spaventare, consentire uno straccio di identificazione. E' in questo senso che penso che "Hatchet II" sia da ritenersi un semplice momento di pausa per un Green che abbiamo visto decisamente più in forma, per esempio nell'ottimo "Frozen" (2010). E' come se Green si fosse cioè messo a giocare un attimo al computer, tanto per far passare il tempo, prima di tornare in ufficio. Come al solito la fotografia di Will Barratt è molto suggestiva e precisa nel rendere le location delle paludi di New Orleans, e direi che vale la pena di vedere il film anche per gustarsi questo elemento visivo-naturalistico che davvero è un piacere per gli occhi. L'attenzione per la natura selvaggia, nonchè una sua rappresentazione che si fa molto viva e presente nei suoi film, sono peraltro degli elementi importanti della poetica filmica di Green, e vanno dunque analizzati e osservati con attenzione. Per concludere, possiamo dire che "Hatchet II" va certamente visto per capire l'evoluzione artistica di un regista che ha  cominciato un suo percorso di sperimentazione e ricerca appunto ancora iniziali, ma che fanno ben sperare nei loro sviluppi futuri. Tuttavia non siamo certo di fronte all'opera più riuscita di Green. Regia: Adam Green Sceneggiatura: Adam Green Fotografia: Will Barratt Montaggio: Ed Marx Musica: Andy Garfield Interpreti: Danielle Harris, Kane Hodder, Tony Todd, Parry Shen, Tom Holland, R.A. Mihailoff, AJ Bowen, Kathryn Fiore Nazione: USA Produzione: Dark Sky Films, Ariescope Pictures Anno: 2010 Durata: 89 min.

domenica 27 marzo 2011

Husk, di Brett Simmons (2011)


Un gruppo di amici bloccati nei pressi di un campo di mais dopo un incidente stradale,  trovano rifugio in una vecchia casa colonica, ma scoprono ben presto che l'abitazione si trova al centro di una zona attraversata da misteriose forze soprannaturali.

Il punto debole, anzi debolissimo di "Husk", uscito fresco fresco dall'After Dark Horror Festival 2011, risiede in una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti, come una bagnarola gettata in pieno oceano. E l'Oceano è nientemeno che quello, archetipico, dell'America rurale dei vari "Jeepers Creepers" et similia. Brett Simmons, che è anche sceneggiatore, assumendosi quindi tutte le responsabilità relative alla scrittura filmica, non ha tuttavia la potenza visionaria di un Victor Silva, e si limita a costruire un improbabile labirinto di foglie in un campo di mais, nel quale far girovagare un cast altrettanto improbabile e per nulla convincente. La sequenza iniziale in cui vediamo il suv dei ragazzi bombardato da corvi che si schiantano in modo sanguinolento sul parabrezza, costringendoli a sbandare e a fermarsi ai bordi di un campo, farebbe ben sperare, senonchè Simmons decide di disperdere questi suoi "cinque personaggi in cerca d'autore", facendo loro vivere una diaspora inutile quanto priva di qualsiasi brivido tensiogeno. L'ingresso nella famigerata casa dei contadini assomiglia molto più alla casetta di Dorothy ne "Il Mago di Oz", che a qualsivoglia magione di un villain  horror veramente degno di questo nome. Gli sviluppi successivi dello script, a partire da questa dispersione iniziale dei personaggi nella selva di mais, si avvita  toccando pretestuosamente temi soprannaturali buttati lì tanto per riempire un vuoto di ispirazione assoluto (inspiegabile, ad esempio, sul piano della sceneggiatura, perchè  Scott (Devon Graye) a un certo punto scopre di avere poteri medianici e visioni paranormali) . Nessuna iniezione di suspense nei momenti in cui ce la aspetteremmo, arriva mai a confortarci durante la visione, e qualche chiodo piantato nelle dita di Ben Easter (Johnny), oppure l'uccisione per accoltellamento (che ci viene tuttavia accuratamente nascosta alla vista) della bella Natalie (Tammin Sursok), non ci faranno certo sobbalzare sulla sedia. "Husk", al termine della visione, produce l'effetto di un nanerottolo sulle spalle di ben altri giganti che hanno saputo raccontare con altro e superiore stile la mitopoesi perturbante del viaggio on the road nella solitudine infinita della campagna statunitense, dove il solito gruppo di teen-agers incontra il "lupo cattivo", o per meglio dire ascolta "il canto del diavolo". "Husk" mette in scena, al contrario, uno spento girotondo di personaggi senza alcuno spessore, nè capacità espressiva, cercando di farci credere che la semplice location sia di per sè evocativa e perturbante. Film davvero inutile e da dimenticare.
Regia: Brett Simmons Sceneggiatura: Brett Simmons Cast: Devon Graye, Wes Chatham, C.J. Thomason,  Tammin Sursok, Ben Easter Nazione: USA Produzione: After Dark Films Durata: 83 min. 

domenica 20 marzo 2011

World Invasion: Battle Los Angeles, di Jonathan Liebesman (2011)


Nella base militare Camp Pendleton, vicino Los Angeles, un gruppo di marines, capitanati dal Sergente Michael Nantz, è chiamato a rispondere immediatamente ad uno dei numerosi quanto improvvisi attacchi di nemici alieni, che da qualche ora è cominciato lungo la costa. Il Sergente Nantz e i suoi uomini intraprendono una feroce battaglia contro un nemico straniero, determinato ad impadronirsi delle riserve d'acqua e distruggere tutto ciò che incontra sul suo cammino.

Cominciamo innanzitutto col dire che il nuovo film di Jonathan Liebesman contiene bellissime sequenze d’azione bellica, come non ne vedevamo da “Salvate il soldato Ryan” (1998). Infatti “World Invasion: Battle L.A.” è a tutti gli effetti un “film di guerra” che a tratti strizza l’occhio all’azione in stile video-game, ma in modo solo leggermente evocativo, per poi dirigersi verso più alte radure poetiche, nelle quali lo script è completamente illuminato dalla luce tematica della “guerra dei mondi”, del conflitto, cioè, tra mondo umano e mondo alieno. Fino a circa mezz’ora di pellicola aleggia, è vero, anche il sentore della lezione di “Cloverfield” (2008), soprattutto nelle sequenze, molto realistiche, dei movimenti preparatori delle truppe nella base di Camp Pendleton: grande cura nei costumi e nell’allestimento, grande attenzione a un casting perfetto nel descrivere una popolazione umana di marines quale potrebbe essere quella di un qualsiasi battaglione inviato nella guerra in Iraq. Ma, aldilà di "Cloverfield", sono presenti qui  anche notevoli dosi di solidità e fermezza nel muovere la macchina da presa in situazione, facendo gradualmente ma velocemente crescere la tensione connessa al precipitare degli eventi bellici in cui sono coinvolti d’urgenza il Sergente Nantz (un Aaron Eckart che ci ricorderemo spesso dopo averlo visto qui in azione) e la sua squadra. Liebesman (nonostante le precedenti, discutibilissime prove di "Non aprite quella porta - L'inizio"-2006 e "Darkness Falls" - 2003),  segue il cast   con amore potremmo dire quasi materno, sia sottolineando ogni sfumatura del teso rapporto tra i soldati nelle pericolose azioni di guerra contro gli alieni robotici, sia fotografando uno scenario apocalittico attraverso modalità ostensivo-filmiche che disvelano piano piano la tragedia dell’invasione da parte degli alieni. Come in “Cloverfield”  il mostro ci viene mostrato non immediatamente, e solo attraverso gli occhi dei soldati, mentre insieme a loro siamo condotti all’interno di una Los Angeles messa a ferro e fuoco da nemici sconosciuti quanto aggressivi. Il dosaggio tra componente fantascientifica e narrazione bellica appare molto armonico e pensato già in sede di sceneggiatura, ma poi ancor più ben calibrato in sede di lavoro sul set, da un regista che sa costruire un film in modo sinfonico, sopvrapponendo stilemi e generi fino a generare una composizione che potremmo definire polisemica: partiamo infatti con una storia apparentemente banale nella quale siamo messi di fronte al solito tema dell’”invasione” aliena, per poi virare decisamente nel genere bellico puro, in stile “Salvate in Soldato Ryan”  appunto (gli extraterrestri sbarcano sulle coste, come gli stessi Americani nello sbarco in Normandia); piano piano la storia coinvolge dei civili, dei bambini, e arriva a toccare note di tragica malinconia attraverso le quali il film si eleva verso un pathos molto vibrante, senza tuttavia mai distanziarsi dal tema fantascientifico di base. E’ per questo che parlo di uno “stile sinfonico”, reso ulteriormente intenso, peraltro, da una colonna sonora (di Brian Tyler) addirittura wagneriana in alcuni spunti sospensivi e ricorsivi, e assai pertinente e calzante rispetto al percorso visivo. Quando ci troviamo di fronte alla capacità di gestire del materiale così difficile, proprio perchè mitopoieticamente molto sedimentato, usato ed abusato,  da parte di un regista che sa, non solo "riciclare" i temi che affronta, ma anche proporre un suo personale visioning, una sua interpretazione originale di un filone estetico-filmico così particolare, non possiamo che provare un senso di sollievo e di speranza, nonchè di gratitudine umana verso un artista e verso il suo lavoro. E' questo il caso di Jonathan Liebesman, che con il suo "World Invasion: Battle Los Angeles", integra con delicata maestria ingredienti diversi, producendo un piatto dal sapore unico ma che simultaneamente rimanda ad altri sapori, pur mantenendo una sua identità ed un suo gusto differenziato e gradevole. Oltre a ciò il regista non perde mai di vista la funzione di intrattenimento, che rimane centrale in questo genere di film, regalandoci alcune interessanti variazioni meccanico-biologiche della figura dell'alieno, inquietante per la sua freddezza e determinazione omicida, e in forte contrasto con lo spessore umano dei soldati e del resto del cast. "World Invasion: Battle L.A.": decisamente consigliato.  REGIA: Jonathan Liebesman SCENEGGIATURA: Christopher bertolini Cast: Michelle Rodriguez, Aaron Eckhart, Bridget Moynahan, Lucas Till, Joey King, Jim Parrack, Michael Peña, Taylor Handley, Ramon Rodriguez, Noel Fisher,Cory Hardrict, Taryn Southern, Ne-Yo, Michelle Pierce, Beau Brasso, Susie Abromeit, Jadin Gould, Brandi Coleman, Will Rothhaar, Keith Middlebrook FOTOGRAFIA: Lukas Ettlin MONTAGGIO: ChristianWagnerMUSICHE: BrianTylerPRODUZIONE: ColumbiaPictures, Relativity Media, OriginalFilm DISTRIBUZIONE: Sony Pictures Releasing NAZIONE: USA 2011 GENERE: Azione, Fantascienza Durata: 110 min.


venerdì 18 marzo 2011

The Shock Labyrint (Senritsu meikyû), di Takashi Shimizu (2009)



Una ragazza riappare a dieci anni dalla sua misteriosa scomparsa, avvenuta durante una gita al lunapark. Gli amici la accolgono sorpresi e felici, ma sono costretti a portarla d'urgenza in ospedale per un improvviso collasso. L'ospedale si rivelerà però un luogo da incubo, un vero e proprio labirinto degli orrori.

Shimizu sembra non essere soddisfatto del suo ossessivo lavoro di elaborazione del tema della colpa, effettuato nelle sue opere precedenti, se ancora una volta ci ritorna sopra con questo "The Shock Labyrint", distribuito rigorosamente in 3D, molto pubblicizzato, e decisamente più visionario e oniroide dei precedenti "Ju-on" (2002), "The Grudge" (2004), "The Grudge 2" (2006). Il pregio fondamentale del film consiste appunto in una visionarietà molto ben fotografata, dai colori ipersaturi, quasi lisergici in alcune sequenze, che risultano curate in modo davvero mirabile. Tale pregio appare tuttavia l'unico di un film che si muove stancamente nel labirinto di una narrazione ondivaga, insterilita da una sceneggiatura scontatissima che utilizza il flashback in modo ripetitivo e alla fine stancante. Il ricorso al tema dell'infanzia, associato a quello del "tunnel dell'orrore", è trattato poi in modo banalissimo ed emotivamente non coinvolgente, nonostante la cura visiva con cui sono composte le sequenze nelle quali il gruppo dei bambini si perde nella casa degli orrori. Complice ti tale piattezza è certamente anche un uso dei dialoghi che neanche una puntata dell'ispettore Derrick potrebbe rendere meglio nella sua insostenibile vuotaggine e inespressività. Il punto massimo di tale imperizia la si coglie nello spiegone finale in cui il detective racconta a Ken come sono andate davvero le cose. Ritengo che proprio in queste sequenze finali il film crolli come un castello di carte, molto ben dipinte, molto ben accostate fotograficamente, ma totalmente instabili nel loro insieme, a causa di una mano registica molto, troppo sbrigativa nel dirigere un cast di teenager del tutto impreparata e completamente allo sbaraglio. Il trito e ritrito tema della "colpa" non ha qui altra funzione che allungare una zuppa già a sufficienza annacquata da riferimenti al solito, risaputo "trauma infantile", qui declinato come "trauma di gruppo", impensabile e irrisolvibile. A nulla servono una colonna sonora in alcuni momenti anche intensamente ispirata, nè tantomeno alcune intuizioni effettistiche (come la sequenza in cui il volto di Yuki si sgretola, oppure quelle in cui i manichini prendono vita): l'architettura generale d "The Shock Labyrint" resta appunto un castello di carte che vola via con il vento, cioè l'esatto contrario di quel tetragono e spaventoso "labirinto" evocato presuntuosamente nel titolo. Questo film, in sintesi, sembra una sorta di epitaffio tombale di un sottogenere cinematografico perturbante di tipica marca nipponica, che pare arrivato al capolinea. "The Shock Labyrint": sconsigliato. Regia: Takashi Shimizu Sceneggiatura:  Daisuke Hosaka Cast: Yûya Yagira, Ai Maeda, Suzuki Matsuo, Misako Renbutsu, Ryo Katsuji, Erina Mizuno Nazione: Giappone Produzione: Asmik Ace Entertainment, Ogura Jymusyo Co. Anno: 2009 Durata: 89 min

sabato 12 marzo 2011

127 ore, di Danny Boyle (2010)



Il free-climber Aron Ralston (James Franco), rimane bloccato in uno stretto canyon nello Utah, con un braccio schiacciato da un masso distaccatosi dalla roccia. I giorni passano, l’acqua comincia a scarseggiare e Ralston ricorda gli amici, le amanti (Clémence Poésy), la famiglia e le due escursioniste (Amber Tamblyn e Kate Mara) incontrate poco prima, Nel corso di cinque, lunghe, estenuanti giornate, combatte contro gli elementi e i suoi stessi demoni, fino a scoprire di avere il coraggio e la volontà di liberarsi a qualunque costo…

Dopo prove memorabili quali "Trainspotting" (1996), "28 giorni dopo" (2002), "The Millionaire" (2008), e altre un pò meno fulgide, Danny Boyle ci regala questo film intenso, drammatico, ma che sa essere simultaneamente fresco, febbrile, vitale. Si tratta di una storia realmente accaduta al free-climber Aron Ralston, rimasto prigioniero di madre natura e della sua forza darwiniana e inesorabile, all'interno di una faglia rocciosa nelle montagne dello Utah. Considerata la sinossi, uno si aspetterebbe di vedere qualcosa di sommamente claustrofobico, in stile "Buried" (2010) o roba simile, invece l'inventiva a tratti deliberatamente naif di Boyle, è capace di integrare leggerezza del racconto e pesantezza drammaturgica di molte sequenze, in un modo che si può  definire solo come sopraffino. A partire da una colonna sonora scoppiettante e dinamicissima tanto quanto l'uso geniale di inquadrature multiple e di soggettive dall'interno di oggetti quali cannucce, borracce e bicchieri, Boyle ci conduce con passo spedito verso panoramiche altrettanto dinamiche, mediante movimenti di macchina ampi e aperti, con un uso di dolly  davvero spettacolare. Boyle è certo aiutato dalle locations naturalistiche che da sole appagano l'occhio, ma si sa che è poi l'occhio del regista a rendere artisticamente pregevole il girato. In questo film accade appunto che la "realtà" delle locations, così come la "storia vera" raccontata, sono rappresentate dal regista inglese con grande maestria creativa. Infatti il film non risulta mai noioso, nemmeno per un minuto, anche quando seguiamo Aron incastrato tra le rocce con un braccio spappolato da un sasso, mentre cerca vanamente di liberarsi nel corso dei drammatici giorni che seguono. Quella di Aron è una vera e propria lotta per la sopravvivenza nella quale il "perturbante" risiede nella rappresentazione della solitudine e impotenza dell'uomo di fronte alla Natura. Interessante a questo proposito l'insistenza di Boyle nel descriverci la dipendenza totale di Aron (e di chiunque, naturalmente) dai propri bisogni fisiologici: la sete, la fame, l'intolleranza del dolore fisico. Sembra qui che il regista desideri riflettere sul tema del "limite" come aspetto caratterizzante l'identità umana, riflessione condotta tuttavia senza facili pessimisti horrorofili, tanto per incantare o attrarre un certo tipo di pubblico. Quella di Boyle è una riflessione sul perturbante, doloroso mistero delle cose che permea il mondo, un mistero "naturale" verso cui occorre guardare con ottimismo e vitalità, poichè la vita è comunque tutto ciò che abbiamo, e non è poco, perbacco. Per gli amanti dell'adrenalina in salsa gore, il film peraltro non delude neppure su questo versante: le ultime sequenze anatomico-sanguinolente non sono certo per stomaci delicati, ma in ogni caso sempre ben in equilibrio con tutto il resto della sceneggiatura. Per concludere, una necessaria nota di elogio a James Franco che interpreta lo sfortunato Aron, alle prese con un'esperienza traumatica che tuttavia gli farà imparare a distinguere tra "vitalismo" e "vitalità", a comprendere cioè che la Vita è bella, ma può essere anche pericolosa, perchè si può morire. "127 ore": decisamente consigliato. REGIA: Danny Boyle SCENEGGIATURA: Danny Boyle, Simon Beaufoy Cast: James Franco, Kate Mara, Amber Tamblyn, Treat Williams, Sean Bott,Koleman Stinger, John Lawrence, Kate Burton, Bailee Michelle Johnson, Parker Hadley, Clémence Poésy, Fenton Quinn, Lizzy Caplan, Pieter Jan Brugge, Rebecca Olson FOTOGRAFIA: Enrique Chediak, Anthony Dod Mantle MONTAGGIO: Jon Harris MUSICHE: A.R. Rahman NAZIONE: Gran Bretagna, USA PRODUZIONE: Cloud Eight Films, Pathé  GENERE: Biografico, Drammatico, Avventura DURATA: 94 Min


lunedì 7 marzo 2011

Il Cigno Nero (Black Swan) di Darren Aronofsky (2010)


Nina (Natalie Portman) è un'ambiziosa giovane ballerina di New York a caccia del doppio ruolo che tutti sognano: il Cigno Bianco, delicato e innocente, e il Cigno Nero, che emana una malvagità seducente, nel classico "Il lago dei cigni", in grado di trasformare una sconosciuta in una star. Nina riesce ad ottenere il ruolo, ma non è sicura di poter incarnare la parte oscura della Regina dei cigni. Mentre raggiunge nuove vette con il suo corpo, incubi, visioni, allucinazioni cenestesiche e visive, nonchè gelosie distruttive, iniziano a farsi strada in maniera profonda, causando uno scontro pericoloso con una provocante nuova arrivata, Lily (Mila Kunis), che rappresenta la sua maggiore rivale. Nina in breve tempo si cala fin troppo bene nel ruolo del malvagio e mortale Cigno nero...

"Il Cigno Nero" è un film geometrico, ossessivo e ossessionante nel mettere in scena giustappunto un'ossessione mentale e fisica, che tende poi a diventare psicosi vera e propria nel suo esito tragico, nel suo finale altrettanto ossessivamente, geometricamente "perfetto". Natalie Portman interpreta una giovane ballerina tendenzialmente anoressica (come molte ballerine, sciaguratamente, in verità), che abita con una madre che ha coltivato l'ideale di una figlia perfetta nella quale rispecchiarsi narcisisticamente e realizzare i sogni infranti della sua giovinezza ormai finita. Aronofsky ("The Wrestler", 2008) srotola la storia di Nina rappresentandocene subito l'elemento clinico, psicopatologico, pescando senza timori nel perturbante e nel gore, ma con misura, cum grano salis, potremmo dire, che è il modo migliore per metaforizzare una sofferenza psichica devastante che divora una giovane e bella donna. In tal senso sono notevolmente spiazzanti per lo spettatore le improvvise, del tutto inaspettate sequenze di autolesionismo della ragazza, soprattutto quelle in cui Nina si autoinfligge tagli alle unghie delle mani, o scarificazioni profonde alla schiena. Il rapporto malato con la madre, nonché la conseguente patologia di Nina, sono tuttavia raccontati da Aronofsky senza il minimo sentore di morbosità, ma al contrario con grande pietas, il che è decisamente il miglior pregio di un film peraltro difficile, fosco e molto tragico, ritengo soprattutto agli occhi di un pubblico femminile giovane che sicuramente (e giustamente) correrà a vederlo. Direi che erano anni che aspettavamo un simile scatto d'orgoglio da parte del cinema statunitense, dopo decenni di remake e bagnoschiuma Vidal in stile Michael Bay e company.  Aronofsky confeziona infatti un'opera che si farà certamente ricordare, ma soprattuttio un'opera lontana mille miglia dalle atmosfere postmoderne che siamo ormai abituati a vedere al cinema, e in specie nel cinema cosiddetto "perturbante". In un'epoca di veline e di femminilità intesa come carne da macello, qui il regista di Brooklyn ci consente (vivaddio!) una riflessione profondissima su psicologia e psicopatologia del femminile, considerata dal vertice dell'ideale e del perfezionismo narcisistici, impronte nefaste ma caratteristiche di certa cultura mediatico-consumistica contemporanea. Il film vale infatti cento trattati psicoanalitici o sociologici sul "femminile" e sull"Ideale dell'Io", inteso come forma psicotica del vivere il tema del "successo". Sul piano estetico "Il Cigno Nero" è poi ineccepibile, sia per quanto riguarda l'utilizzo di certe asimmetrie narrative, sempre ben calibrate nel corso del racconto, sia relativamente ad un uso del climax assolutamente magistrale (le ultime sequenze delle trasformazioni psicofisiche di Nina, accompagnate da una colonna sonora perfettamente calzante, sono memorabili, in tal senso), sia rispetto al sapiente viraggio verso l'horror (potente e bellissima da questo punto di vista la scena in cui i disegni della madre appesi in salotto, prendono vita, in una delle ultime allucinazioni di Nina). "Il Cigno Nero": film da vedere e da studiare con cura, negli anni a venire, e che fa ritrovare un briciolo di speranza nel cinema statunitense contemporaneo. 

Regia: Darren Aronofsky Sceneggiatura: Mark Heyman, John McLaughlin Fotografia: Matthew Libatique Montaggio: Andrew Weisblum Musica: Clint Mansell Interpreti: Natalie Portman, Mila Kunis, Vincent Cassel, Winona Ryder, Sebastian Stan, Barbara Hershey, Janet Montgomery, Toby Hemingway, Kristina Anapau Nazione: USA Produzione: Fox Searchlight Pictures, Protozoa Pictures, Phoenix Pictures Anno: 2010 Durata: 108 min

sabato 5 marzo 2011

Giovani a disagio


Dopo vari tentennamenti ho infine deciso di pubblicare la copertina del mio libro sul disagio giovanile contemporaneo, appena uscito per i tipi di Foschi Editore di Forlì. Qui accanto potete trovare ulteriori approfondimenti sul testo, nonchè una breve presentazione tratta dalla quarta di copertina, cliccando sulla foto-link a destra, che vi rimanda al sito della casa editrice. Se qualcuno vorrà leggerlo, mi farà naturalmente piacere essere a conoscenza di opinioni, critiche, pareri di ogni tipo, a riguardo. Si tratta di un saggio, certamente, ma divulgativo e scritto in un linguaggio non troppo "psicanalese", sebbene la psicoanalisi sia ovviamente il suo orizzonte teorico di riferimento. Nel libro si parla tuttavia anche di cinema, e (udite udite) di cinema horror, inteso come genere molto apprezzato dagli adolescenti (e dall'adolescente sempre vivo in ognuno di noi "adulti"). Quindi credo possa interessare a un pubblico abbastanza ampio di lettori, cioè non solo a psicologi, psicoterapeuti, insegnanti e educatori. 

mercoledì 2 marzo 2011

Rubber, di Quentin Dupieux (2010)




Un vecchio pneumatico abbandonato in mezzo al deserto prende vita e, posseduto da inspiegabili e potentissimi poteri, semina morte e distruzione nel mondo che lo circonda...


La visione di "Rubber", di Quentin Dupieux, mi ha fatto tornare alla mente il famoso dipinto surrealista di René Magritte nel quale vediamo una pipa, e poco sotto la scritta paradossale: "questa non è una pipa" ("Ceci n’est pas une pipe"). Infatti "Rubber" non è un film, bensì una riflessione, al limite del filosofico, sul cinema di genere. Per portare avanti questo tipo di operazione che potremmo definire, con termine un pò abusato, "metafilmica", Dupieux utilizza appunto un registro surreale classicamente inteso (il surrealismo di un Duchamp, per intenderci), mettendo in scena un vecchio e liso pneumatico, fornendogli vita propria e trasformandolo in un serial killer. Ma è la modalità narrativa surreale ad assurgere a vera protagonista del film, non tanto lo pneumatico stesso, nè tanto meno il cast, e neppure la sceneggiatura nella sua parte centrale, assolutamente banale e deliberatamente derivativa. Fin dalle prime sequenze Dupieux (che qui è anche direttore della fotografia, nonchè sceneggiatore, nonchè ideatore della colonna sonora) scopre immediatamente le carte, introducendoci in una località desertica nella quale sono convenuti alcuni spettatori muniti di cannochiali. Ecco che arriva un'automobile dal cui bagagliaio esce un poliziotto locale (Stephen Spinella) con in mano un bicchier d'acqua, che si rivolge direttamente a noi spettatori, ma anche a quelli presenti sul set, spiegandoci che nelle storie che ci raccontano al cinema, le cose accadono "senza una ragione": "Perchè nel film E.T. di Steven Spielberg l'alieno è marrone? No reason. Perchè in 'Love Story' i due protagonisti si innamorano? No reason". "Qualsiasi grande film, senza nessuna eccezione -continua il poliziotto- contiene un importante elemento di insensatezza, poichè la vita stessa è piena di insensatezze". Detto questo, il poliziotto versa per terra il contenuto del bicchiere, risale nel bagagliaio e l'automobile riparte. Qui comincia la "storia", che in verità è già cominciata, una "storia" vista attraverso i cannocchiali degli spettatori che bivaccano nel deserto. Attraverso questa soggettiva-collettiva noi spettatori "veri" vediamo svilupparsi le vicende di un oggetto inanimato che si anima, rotola verso il centro abitato e vibrando di un suo misterioso potere paranormale, è in grado di far esplodere le teste degli umani a distanza. Tutto è naturalmente senza ragione, dalla prima sequenza all'ultima. Il problema di un film come questo risiede proprio nel suo procedimento estetico, cioè nell'autoannullarsi come opera cinematografica, riducendo il piano immaginario ad una specie di fotografia, di quadro, di dipinto surrealista, dis-identificandosi con se stesso inuna sorta di furia destrutturante che elimina del tutto l'intrattenimento. E' come se andassimo a teatro e gli attori scendessero dal palco per dire al pubblico: "Guardate che tutto questo è finto, quindi non credeteci, perchè non ci crediamo neanche noi. Per cui riflettete, oppure alzatevi e andate via". Qualcuno griderebbe al miracolo avanguardistico. Personalmente  non ho trovato originale questa operazione di Dupieux, semplicemente perchè si addice di più ad altri generi artistici, la pittura, per esempio, come il dipinto di Magritte, che tuttavia non aveva bisogno di scrivere un non-film come Rubber per dirci quello che ci ha voluto dire con la sua pipa. "Rubber": da vedere solo se spinti da forte curiosità o interesse filosofico-esistenzialistico e nulla più. Regia: Quentin Dupieux Sceneggiatura: Quentin Dupieux Fotografia: Quentin Dupieux Montaggio: Quentin Dupieux Musica: Quentin Dupieux, Gaspard Augé, Sébastien Akchoté Cast: Thomas F. Duffy, Stephen Spinella, David Bowe, Roxane Mesquida, Wings Hauser, Jack Plotnick, Haley Ramm, Courtenay Taylor, Blake Robbins, Remy Thorne, Devin Brochu, Ethan Cohn Nazione: Francia Produzione: Realitism, Elle Driver, Arte France Cinéma Anno: 2010 Durata: 85 min.