Pagine

martedì 29 luglio 2014

The Machine, di Caradog W. James (2013)



In un futuro non lontano due bio-ingegneri esperti in intelligenza artificiale, lavorano insieme per costruire il primo prototipo di cyborg dotato di autocoscienza. Vincent, l'ingegnere più anziano, spera segretamente di poter sviluppare una tecnologia per aiutare sua figlia, affetta da una grave sindrome neurologica, sebbene questo significhi per lui accettare dei finanziamenti dal potente e spregiudicato Ministro della Difesa che si trova impegnato in una sorta di nuova Guerra Fredda contro la Cina. La nuova compagna di Vincent, Ava, scopre alcuni insospettabili segreti all'interno del database del Ministero e viene così uccisa dagli agenti del controspionaggio. Nel frattempo il Ministro decide di porre in essere un piano militare di cui aveva tenuti nascosti i particolari a Vincent, allo scopo di trasformare i cyborg in micidiali macchine da guerra...

Continuiamo il nostro percorso all'interno del cinema sci-fi/horror anglosassone contemporaneo, ed ecco che ci imbattiamo in questo "The Machine" del giovane regista gallese Caradog W. James. Film molto british, completamente (ed orgogliosamente) low-budget, intenso in alcune sequenze, discutibile in altre, ma che comunque riflette una vitalità del cinema europeo che dalle nostre parti semplicemente possiamo solo sognarci, di notte. La storia è di una linearità quasi disarmante: Vincent è un ingegnere specializzato in biotecnologie avveniristiche centrate sulla creazione di umanoidi militari utilizzati dal Ministero della Difesa inglese per combattere una nuova guerra fredda contro la Cina. L'uomo è interpretato da un Toby Stephens (lo avevamo visto in Space Cowboys di Clint Eastwood, 2000) intimistico e dalla faccia stropicciata e quasi sempre sofferente. Sua figlia è affetta da Sindrome di Rett, una grave malattia neurologica infantile di tipo congenito, e lui la accudisce da solo, senza cioè figure femminili di sorta. 

Questa base esistenziale molto dura e senza sconti lo porta a sottostare ai voleri di Mister Thomson, il freddo e spregiudicato funzionario del Ministero della Difesa, che utilizza le sue sopraffine conoscenze per manipolare cyborg e prepararli alla guerra. Questo patto, mai esplicitato chiaramente nel film, ma sottilmente sempre presente come un mortifero background, consente a Vincent di portare avanti i suoi studi nel disperato tentativo di trovare una cura idonea per sua figlia. L'aspetto interessante del film consiste nel fatto che James riesce a incastonare questo filone appunto intimistico del suo script, all'interno di un'ambientazione che si situa per la quasi totalità del girato nei laboratori militari segreti del Ministero della Difesa inglese: ogni tanto compiano sequenze in cui vediamo Vincent con la figlia, ma sono sempre molto brevi, sebbene molto intense, soprattutto nella rappresentazione della sintomatologia di cui è affetta la bambina. Sia il montaggio (di Platts-Mills) che il lento andamento della storia, alternano morbidamente i due principali filoni del racconto (complotto fantascientifico e relazione padre-figlia) facendoli coesistere senza eccessi di intimismo da una parte, o di azione e violenza dall'altra. 

Lo script possiede un carattere complessivo di tipo drammaturgico-teatrale, tanto che potrebbe, io credo, essere tranquillamente tradotto a teatro, così com'è. A James interessano infatti le interazioni, non certo le azioni, che lo spettatore si aspetterebbe, come un bambino che vuole vedere se Babbo Natale ha portato i doni belli impacchettati sotto l'albero. James prende per mano questo bambino e con gentilezza lo accompagna fuori dalla stanza spiegandogli educatamente che Babbo Natale non esiste. Da questo punto di vista "The Machine" può risultare piuttosto freddo, ma d'altra parte l'opera di James discute proprio di "coscienza", pur toccando temi cari alla cultura (sia cinematografica che letteraria) anglosassone, come quello del pigmalionismo (nel film si coglie un pigmalionismo al contrario, in verità). Si tratta di un mitema che ha interessato, ricordiamo, ad esempio Edgar Allan Poe, ma soprattutto George Bernard Shaw. James sembra guardare a quel mitema e lo fa in modo originale, in continuità coi suoi illustri predecessori, ma in qualche modo anche rinnovandolo mediante la sua inserzione in ambito sci-fi. 

Un'ulteriore pregio del film è che propone un finale aperto, con quella sequenza dove domina un sole che non capiamo se sia al tramonto oppure sorga, e nel quale comunque domina l'idea di una nuova nascita, quella della donna umanoide che alla fine ha davvero coscienza dei suoi sentimenti, addirittura del suo amore nei confronti dell'uomo. Questo tema è a mio avviso trattato con una certa finezza, da parte del regista, e permette l'accensione di riflessioni interessanti nella mente dello spettatore. Una di queste riflessioni può ben riguardare il tema del narcisismo imperante (la Sindrome di Rett può dunque essere vista anche come metafora molto pregnante delle difficoltà di riconoscimento delle proprie emozioni da parte dell'uomo contemporaneo, nonché dei problemi di comunicazione ai propri simili di tali emozioni. Si tratta di un vasto arcipelago clinico che riguarda le cosiddette "nuove patologie" che la psicoanalisi contemporanea sta osservando, curando e studiando da un pò di tempo a questa parte). Da una prospettiva psicoanalitica potremmo dire che in questo suo film James si pone una domanda cruciale circa la possibilità di Ava, trasformata in umanoide, di uscire dal proprio narcisismo robotico e di sperimentare un transfert nei confronti di un Vincent-analista (è la stessa domanda che spesso gli analisti si pongono di fronte a certi pazienti chiusi in corazze narcisistiche molto coriacee). Perché la risposta a questa domanda sul transfert sia positiva, occorre che un bambino simbolicamente muoia (la figlia di Vincent), cioè che l'analista-scienziato elabori con attenzione il suo controtransfert, le sue emozioni, i propri lutti interni: si lasci cioè "toccare" e trasformare a sua volta dalle modalità aliene del transfert di Ava. 

"The Machine" risente notevolmente di un budget ridottissimo, sebbene James non rincorra affatto la spettacolarità dell'effetto speciale, ma anzi lo sappia usare con finalità anzi finemente estetiche (si veda la sequenza della danza di Ava tra le pozze d'acqua mentre il suo corpo si illumina di scariche elettriche di colore rosso). Viene quasi da pensare che i pochi momenti d'azione siano del tutto superflui, e che in qualche modo James li abbia voluti inserire per omaggiare la produzione, che gli ha pur consentito di installare il suo dispositivo cinematografico. 

Aldilà di certe lentezze, di alcune ingenuità proprio nelle sequenze d'azione, di una certa povertà d'insieme dell'allestimento scenografico, e di una colonna sonora (di un Tom Raybould ahimè molto piatto e per niente ispirato) a tratti completamente dissintona rispetto al visivo che accompagna, in definitiva "The Machine" rimane un interessante esperimento, forse un pò freddo, forse un pò troppo asciutto per chi non è nato e cresciuto a Cardiff, ma che è in ogni caso da vedere anche per cogliere il buono stato di salute del cinema inglese di oggi. 

Regia: Caradog W. James    Soggetto e Sceneggiatura: Caradog W. James     Fotografia: Nicolaj Bruel  Montaggio: Matt Platts-Mills    Musiche: Tom Raybould    Cast:  Caity Lotz, Toby Stephens, San Hazeldine, Denis Lawson, Pooneh Hajimohammadi, Lee Nicholas Harris, Sule Rimi, Ben McGregor   Nazione:  UK   Produzione: Red & Black Films   Durata: 91 min.  


domenica 20 luglio 2014

Under the skin, di Jonathan Glazer (2013)




Isserly è un'affascinante automobilista dai neri capelli e dalle rosse labbra seducenti. Viaggia per le strade di una Scozia dei giorni nostri dando confidenza ad autostoppisti di vario tipo, ma anche a gente poco di buono. Isserly non è un essere umano: sotto le apparenze di una sensuale fanciulla, si cela infatti il segreto della sua vera identità, che è quella di un freddo, robotico alieno giunto sulla Terra per studiare le abitudini degli umani. Ma il suo scopo fondamentale è quello di rapirli, metterli all'ingrasso e trasformarli in carne da macello da inviare sul suo pianeta d'origine. Il lavoro implacabile di Isserly procede senza scrupoli e, ovviamente, senza nessuna umana empatia, ma a un certo punto qualcosa sembra trasformarsi: il comportamento dei terrestri è troppo complesso e distante da quello dei simili della bellissima e terribile donna, e ben presto questo comincerà ad influire sulla sua fredda mente aliena... 

Tratto dal romanzo "Sotto la pelle" (2000) dello scrittore olandese Michel Faber, il film dello scozzese Jonathan Glazer utilizza la storia originaria come semplice track per esplorare nuove vie sperimentali del genere sci-fi. Il libro di Faber possiede infatti una cifra narrativa molto diversa da quella del film: il romanzo parla di molte cose, annoda molti sottotesti, dalla critica agli allevamenti industriali, all'inquinamento dell'ambiente, al tema del rapporto tra i sessi, a quello dell'assenza di empatia nei rapporti umani (con termine psicoanaliticamente più moderno si potrebbe dire che Faber indaga le difficoltà di "mentalizzazione" nell'uomo contemporaneo). Il racconto dell'olandese non indulge mai, e mai sconfina, nel puro horror, poiché semplicemente non è la sua mission. Diciamo che Faber si pone su una linea narrativa che (forse) parte da Ian McEwan, passa da Martin Amis e arriva alla notevole scrittrice scozzese Laura Hird, tutta gente che ha fatto egregiamente evolvere il Perturbante nordico (in particolare anglosassone) in letteratura. E' il senso di solitudine e straniamento che interessa a uno scrittore come Faber, nel senso di una riflessione in tema di alienazione, o per meglio dire su ciò che di "alieno" è presente nell'umano. Jonathan Glazer, come dicevamo, afferra questi cospicui spunti letterari e li inocula in un dispositivo cinematografico che prende altre vie, più dirette ad una esplorazione del visivo cinematografico fantascientifico, aldilà (anzi, aldiqua) degli intenti di Faber (in qualche modo in fondo anche autoironici). Sto dicendo che Glazer, a mio avviso, si prende qui un pò troppo sul serio, e il primo immediato effetto di tale auto celebrazione  è quello di snaturare completamente il messaggio di Faber. Ma certamente questo non è un problema in sè (chi l'ha detto che un'opera cinematografica debba essere copiativa e ricalcante la sua fonte "naturale" d'ispirazione?). Il problema è invece una certa autoreferenzialità dell'immagine, che spesso evoca Kubrick e molte sue suggestioni (vedi "2001- Odissea nello spazio"), ma lo fa peccando un tantino di presunzione. E' un'opinione ovviamente del tutto soggettiva, come sempre soggettiva è la visione di qualsiasi produzione filmica, da Pippi Calzelunghe alla Corazzata Potemkin, il che non significa che "Under the skin" abbia dei pregi non secondari, uno dei quali è senz'altro la fotografia molto sensoriale e "corposa" di Daniel Landin (il quale non mi sembra noto per cose significative - aldilà della sua partecipazione tecnica al mediocre "The Uninvited", 2009). Le sequenze in notturna per le strade di amorfe cittadine scozzesi, nonché la luce lattiginosa delle sequenze sulla spiaggia invernale battuta da onde minacciose, sono fotografate con grande occhio clinico, e suggeriscono molto bene un senso di generale spaesamento ed epochè perturbante. Non nego di aver trovato piuttosto originali anche le inquadrature a sfondo nero, glaciali, con il sangue dei malcapitati rapiti che scorre verso una sorta di chiusa in lontananza. Tuttavia tali sequenze, lunghe, prive di dialoghi, accompagnate dalla fredda musica sintetizzata di Mica Levi, mi sono apparse più idonee a comparire come installazioni scultoree alla Biennale di Venezia, che a rappresentare una storia di fantascienza in un film. Appare più che evidente che Glazer usi questa apposita cifra stilistica per sottolineare che siamo di fronte a una sua singolare, originale interpretazione del romanzo di Faber (vedi ad esempio anche la scarsità dei dialoghi, la assoluta assenza di informazioni circa la provenienza di Isserly, oppure l'enigmatica funzione narrativa del motociclista che la segue nelle sue peregrinazioni di cacciatrice nomade per le strade di una grigia Scozia). Ma è appunto questo ribadire con insistenza una differenza, un allontanamento dal testo originale, che ha reso questo film non apprezzatissimo ai miei occhi. Come se mi fossi trovato di fronte ad un pittore che vuole esibire a tutti i costi che lui fa davvero avanguardia, e gli altri molto meno. L'opera di Glazer è stata osannata come un capolavoro da molti critici, ma anche fischiata lungamente al Festival di Venezia dell'anno scorso. Nel mio piccolo orto di blogger personalmente lo ritengo interessante come operazione sperimentale, in particolare rispetto alle sequenze in cui la "seduzione" da parte di Isserly è raffreddata attraverso modalità aliene, previa immersione degli uomini sedotti in una specie di lago materno-femminile, nero e petroleoso. Si tratta di sequenze molto suggestive che consentono una prospettiva altra e interessante sulla relazione tra i due sessi, usualmente raccontata al cinema (soprattutto in quello di genere perturbante) con toni prosopopeici o iperbolici o banalmente pornografici. Pensiamo ad esempio all'incontro di Isserly con l'uomo deturpato da una grave malattia dermatologica: troviamo qui sottili rimandi a Cronenberg, assai inquietanti e davvero iniettati nello spettatore "under the skin". Ulteriore aspetto positivo del film è la resa della trasformazione, del contagio umano che avviene all'interno di Isserly. Emblematica a tale proposito è la sequenza della torta, una semplice fetta di torta con panna, che determina immediatamente una prima, angosciante forma di rigetto in Isserly. Il contagio trasformativo risucchia la bellissima donna-mostro nella palude delle bassezze umane, che la porteranno velocemente al tragico finale. Il messaggio che in definitiva Glazer ci invia attraverso questo film, forse risiede per lo più in una amara riflessione circa un "umano, troppo umano" che da sempre ci rende ostaggi di noi stessi, più che degli alieni (oppure degli alieni che siamo noi stessi). Tale messaggio è tuttavia confezionato in un velluto di snobismo artistico autocelebrativo che il regista avrebbe potuto risparmiarci, e che giustifica in parte i fischi dei critici veneziani. "Under the skin", da vedere, senza idealizzazioni di nessun tipo.  
Regia: Jonathan Glazer  Soggetto e Sceneggiatura: Michel Faber, Jonathan Glazer, Walter Campbell  Fotografia: Daniel Landin     Musiche: Mica Levi   Montaggio: Paul Watts  Cast: Scarlett Johansson, Antonia Campbell-Hughes, Paul Brannigan, Joe Szula, Krystòf Hàadek, Lynsey Taylor Mackay, Scott Dymond    Nazione: UK, USA, Switzerland  Produzione: Film4, British Film Institute, Silver Reel   Durata: 108 min. 


domenica 6 luglio 2014

All Cheerleaders Die, di Lucky McKee e Chris Sivertson (2013)




L'eterna lotta tra un gruppo di cherleaders e i giocatori di una squadra di football di un college americano tra i tanti, si trasforma in tragedia nel momento in cui il gruppo dei maschi provoca un incidente stradale in cui muoiono le cheerleaders più avvenenti e in vista del gruppo. Hanna, l'unica sopravvissuta, pratica la magia nera e attraverso i suoi insospettabili poteri riporterà in vita le sue amiche. Le ragazze potranno così realizzare i loro desideri di vendetta...

Presentato al Toronto Film Festival 2013, "All Cheerleaders Die" dell'interessante duetto McKee (May, 2002; Red,  2008; The Woman, 2011) - Sivertson (Jack Ketchum's The Lost, 2006; I know who killed me, 2007), solleva più di una curiosità a chi gli si avvicina. La prima è sicuramente relativa al percorso artistico di McKee, regista che coi tre film sopracitati infonde nuove profumazioni al bouquet sempre piuttosto ricorsivo e stantio del genere horror statunitense. Con May e Red McKee diventa poi un interprete molto fine dell'anima oscura della provincia sottoproletaria americana, quindi non si può certo girare la faccia dall'altra parte quando ti sforna un nuovo film. Vi ricordate le luci acide e la fotografia liquida, ameboide di May? Piccoli ma intensi elementi che fanno del suo cinema qualcosa di particolare. Lo sposalizio con Sivertson (anch'egli interprete a tratti interessante del Perturbante cinematografico yankee) non sembra però arrecare grandi vantaggi al regista nato e cresciuto nella sperduta cittadina di Jenny Lind, Contea di Calaveras, California. Diciamo che McKee sembra con quest'ultimo film, voler uscire dal natio borgo selvaggio, che tanto, saggiamente, pensiamo avesse ispirato le sue produzioni precedenti, per andare a conoscere il grande spazio mondano che si apre laggiù, dopo l'ultima stazione di servizio e il silos con l'acqua dove lui giocava ai cow-boy e agli indiani, da piccolo. Sì, certo, il mood provinciale permane e caratterizza anche "All cheerleaders die" (pensiamo agli allenamenti sul campo da football della scuola, oppure ai dialoghi da covo di vipere tra le ragazze), ma è un mood molto meno denso, molto meno protagonista dell'intera vicenda. Sivertson e McKee, uniti da una strana alchimia che non capiamo da dove possa essere nata, sembrano presi dal sacro fuoco della contaminazione dei generi, e si divertono un mondo, sembrerebbe, a mescolare trash e pulp, horror-comedy e zombie-movie, alla ricerca di un sapore nuovo con cui creare un nuovo cocktail. In effetti "All cheerleaders die", soprattutto alla luce delle precedenti opere di McKee, non può che essere visto come un puro e semplice divertissement senza pretesa alcuna, una pausa metacinematografica non paragonabile ad altri più "alti momenti": un pò come imparagonabili risultano ad esempio gli hitchcockiani "La congiura degli innocenti" (1955) e "Psycho" (1960), per dire. Un discorso a parte va però fatto per la colonna sonora, nella quale spiccano canzoni come "Look out young son" dei Grand Ole Party che accompagna egregiamente l'ingresso trionfale al college delle cheerleaders resuscitate (si veda il video più sotto). La scelta delle canzoni è cioè a mio avviso ottima. Sono canzoni che possiedono, scusate l'ossimoro, una loro potenza sensoriale, un loro pathos molto idoneo a rendere il tourbillon ormonale che attraversa tutti gli studenti. Si procede infatti dai Grand Ole Party ad A Giant Dog con "Teasin Ass Bitch", titolo senza peli sulla lingua, appunto, uno "Smell like a teen spirit", come direbbero i Nirvana. Credo sia anche questo uno degli intenti principali del film di McKee-Sivertson, non sappiamo quando consapevole: fare un film che sia un inno agli spettatori d'elezione del genere cinematografico di cui i due registi si occupano, cioè un inno al vitalismo libidico di cui solo gli adolescenti conoscono la potenza. La sequenza della seduzione di uno dei ragazzi nei bagni della scuola, da parte di una delle più sensuali ed erotizzate tra le cheerleaders-zombie, è la chiara dimostrazione di questo intento. La sequenza successiva mostra il lato mortifero della potenza sessuale, quando vediamo lo stesso ragazzo, attaccato da un'altra cheerleaders, da lui invece rifiutata, che lo solleva di peso scagliandolo contro un albero da cui poi ricade sanguinante: siamo dalle parti di un pulp quasi alla Tarantino, come suggestione, intendo (non dimenticate che ho detto "quasi", e lo sottolineo). Forse c'è qualcosa che richiama anche il Joe Landsdale delle scazzottate di Hap & Leonard, intendo dire, ma comunque il film a tratti mostra panorami nei quali il tocco da maestro (di McKee in particolare, diciamolo) si coglie appieno. Tutte le scelte "di contenuto" sono infatti completamente eccentriche, non sono cioè il baricentro concettuale del film: tematica zombie, elemento voodo, viraggio pulp, sono solo le quinte più esterne di un teatro al centro del quale è lo stesso sguardo ormonale, eccitato, febbrile, voyeuristico dello spettatore adolescente ad essere il vero protagonista. Il risultato finale di questa nuova sonata a quattro mani, risulta tuttavia, ad una lettura d'insieme, frammentato e disarmonico. Il prefinale e il finale caricano troppo sui toni del puro grottesco, rischiando di buttare via il bambino con l'acqua sporca, pericolo che s'insinua (inutilmente) in altri punti nodali del film, come ad esempio l'utilizzo da parte di Hanna delle pietre voodo, che si accendono come luminarie natalizie quando uno meno se lo aspetta. In sintesi "All cheerleaders die" è una prova controversa, di difficile lettura e valutazione, che certamente incuriosisce e che, alla fine, si mostra troppo poco uniforme per poterne dare un giudizio complessivamente positivo. Rimangono certo nella memoria certe sequenze ottimamente girate (come quella già citata dell'ingresso delle ragazze redivive al college, oppure quella del dissanguamento del vicino di Hanna), così come una colonna sonora che è un puzzle di canzoni di gruppi "alternative" contemporanei molto interessanti, tutti aspetti che rendono gradevole il film. Si tratta comunque di aspetti singolari e separati che non aiutano però a delineare una gestalt narrativa globalmente unitaria ed equilibrata. "All cheerleaders die": una specie di gita fuoriporta di McKee insieme ad amici in vena di revival studenteschi. Attendiamo che torni dalla gita con un pò più di ispirazione.   
Regia: Lucky McKee e Chris Sivertson    Soggetto e Sceneggiatura:  Lucky McKee e Chris Sivertson    Fotografia: Grag Ephraim   Musiche: Mads Eldtberg    Cast: Caitlin Stasey, Sianoa Smit-MvPhee, Brooke Butler, Amanda Grace Cooper, Reanin Johannink, Tom Williamson, Chris Petrovski, Leigh Parker, Nicholas S. Morrison, Jordan Wilson, Felisha Cooper,  Nazione: USA   Produzione:  Moderciné   Durata: 90 min.