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sabato 17 maggio 2014

Megan is missing, di Michael Goi (2011)



Megan Stewart, 14 anni, e la sua migliore amica, Amy Herman, 13, hanno due personalità molto diverse. Megan è la ragazza più popolare e disinibita del gruppo dei pari del quartiere: ama la trasgressione, le feste in cui si consuma cocaina e si fa sesso con il primo che capita. Amy è molto timida, e si lega a Megan proprio per non vivere intensi sentimenti di esclusione dal gruppo. Nonostante queste notevoli diversità, le due sono molto legate, si potrebbe dire inseparabili. Le due ragazze si frequentano con regolarità quotidiana attraverso videochat da computer fisso o da cellulare, ma usano anche frequentare ragazzi in chat. La propensione al comportamento a rischio, induce Megan a frequentare via chat un ragazzo di 17 anni, Josh, il cui indirizzo gli è stato fornito da un'amica. Megan non può infatti resistere alla tentazone di incontrare ragazzi più grandi di lei al di fuori delle solite noiose compagnie con le quali si organizzano i soliti consumati festini. Dopo vari incontri virtuali, Megan un giorno riesce a convincere Josh ad uscire con lei. L'incontro tra Josh e Megan avverrà, come segnalano le telecamere di videosorveglianza che si trovano nel vicolo che è il luogo del loro appuntamento. Tuttavia Megan non tornerà mai più a casa. L'amica Amy, disperata, farà di tutto per ritrovarla, tanto quanto le forze dell'ordine locali, completamente disorientate e impotenti.

E' da ormai più di due decenni che mi occupo, costantemente, quotidianamente, di adolescenti (e preadolescenti). Ragazzi la cui tipologia, nel caso del mio lavoro, è variegata: adolescenti delinquenti, rapinatori, traumatizzati, tossicomanici, depressi, autolesionisti ma anche relativamente "normali", vitali, creativi. Quello che posso dire sulla base dell'esperienza maturata fin qui, è che per lavorare con gli adolescenti occorra innanzitutto tollerarne l'assoluta, rocciosa, incontrovertibile ambiguità. L'adolescente è infatti un pesce ambiguissimo, chiaroscurale, che nuota in acque sabbiose dalle quali emerge quando vuole lui (se lo vuole) e nelle quali poi si inabissa nascondendosi in luoghi (mentali e fisici) dove nessuno riuscirà mai a trovarlo. Occorre rispettare, prima di ogni cosa, tale modo di essere per poterlo incontrare davvero dove lui si trova. Tale ambiguità possiamo immaginarcela come una luminosità rifrattiva perennemente cangiante, che descrive a 360 gradi, anche nell'arco di pochi minuti, una gamma di emozioni che vanno velocemente da un'estremo all'altro, dalla gioia più vitalistica e travolgente all'umore più nero e nichilista. A complicare questo quadro bisogna pensare a questa "luminosità dell'essere-adolescente" come sempre inserita all'interno di un gruppo di pari che rispecchia, rifrange, amplifica ulteriormente il fascio d'onda individuale, deformandolo, nascondendolo, rendendolo ancora più inafferrabile. Seguendo altri modelli più "psicologisti", potremmo dire che l'adolescenza utilizza la seduzione narcisistica come volàno quintessenziale per muoversi nel mondo, ma anche qui la seduzione è declinata secondo tutti i registri possibili, dalla perversione sadomasochistica, all'affetto più genuino, al bisogno di contatto e sensorialità di cui può aver bisogno un neonato. E' per tutti questi motivi (e sicuramente anche per altri, ancora tutti da scoprire) che il rapporto tra adulto e adolescente è una roba difficilissima, sempre provvisoria, mutevole, che si muove su terreni sempre scivolosi, sconnessi, da ricomporre, dissodare e ricostruire di minuto in minuto.

Perché tutta questa lunga premessa, voi direte, nel momento in cui mi accingo a scrivere una doverosa (e sottolineo doverosa) recensione a questo - qualcuno direbbe ennesimo- found footage diretto da Michael Goi, direttore della fotografia e del comparto elettrico fin dagli anni '80 (andatevi, vi prego a leggere il suo lungo curriculum su IMDB), dopo tanti anni al suo primo lungometraggio? Prima di rispondere a questa domanda della quale troverete varie risposte nel corso di questa recensione, desideravo però ringraziare vivamente l'amico Elvezio Sciallis che ci ha segnalato quest'opera in una sua fondamentale recensione che vi invito, pure quella, a leggere con attenzione. 

Un primo abbozzo di risposta alla domanda che facevo più sopra è che "Megan is missing" va ben aldilà di un cosiddetto found footage, perché possiede una rara, forse unica, capacità al limite del sonsoriale puro, di farci entrare esperienzialmente in quelle acque ambigue e rifrattive in cui si muove la modalità adolescenziale di "essere-nel-mondo". Prima di tutto il casting: Goi riesce ad estrarre dalla popolazione umana dei "ragazzi di oggi", un campione di ambiguità strutturale adolescenziale quant'altri mai ne avevo visti all'interno di una pellicola. Il "Twin Peaks" di Lynch, e i suoi accenni alle morbosità nascoste dietro il mulino bianco della provincia americana, franano decisamente in un secondo ordine di cose cinematografiche di fronte ai lunghi primi piani di una Amber Perkins (Megan), ripresa - attenzione - con una semplice Canon XH-A1 mentre chatta con "Skaterdude". Qui Goi ha una capacità inesorabilmente magistrale nel rendere chiare tutte le movenze narcisistico-seduttive del tutto intrinseche, genetiche, enzimatiche, dell'adolescenza che sta vivendo Megan. Pulsionalità, aggressività, trasgressione, perversione, fragilità estrema, tutto quello spettro luminoso di cui dicevo più sopra, ci appare in tutta la sua bellissima e insieme dolorosa epifania. 

Tutto questo materiale vivente viene poi lavorato da Goi nella costruzione del rapporto tra le due amiche, anche qui declinato rappresentandone una freschezza e "primitività" tra l'infantile e l'"adulto", che fa venire i brividi per quanto ti tocca, empaticamente, da vicino (alla faccia di tutti i detrattori del maledetto mockumentary, tra i quali anche tu stesso a volte tendi a collocarti. "Megan is missing" è in realtà una pietra miliare, angolare a mio avviso del genere mocku perturbante, pietra che si pone al termine di una parabola estetico-filmica che parte "The Blair Witch Project", passa da "Cloverfield", devia egregiamente su "REC" (il primo), si sposta ovviamente sul profondo "The Bay" di Barry Levinson, e infine arriva alla nostre povere Megan & Amy).   

Sul piano della resa perturbante, come scrive giustissimamente Elvezio nella sua recensione, Goi utilizza in genere FF solamente come mezzo per infliggere allo spettatore pugni nello stomaco ad altissimo gradiente di penetrazione emotiva, costruendo una storia che dapprima ci avvolge nel ventre molle, ambiguo e seducente dell'adolescenza, e poi ci fa crollare il pavimento (emotivo), improvvisamente sotto i piedi, proprio nel momento in cui ci eravamo messi comodi comodi. 

Ma vediamolo da un'angolatura psicoanalitica, questo film. E fermiamoci in particolare sulle due truculente foto che Goi ci mostra pur brevemente (quasi dei rapidi flash visivi, potremmo dire) come reperto fotografico inviato alla polizia dal proprietario di un sito fetish sul quale "Skaterdude", il rapitore sadico, le ha introdotte. Queste due foto, in termini bioniani sono due bombe emotive che prendono il nome di Elementi Beta. Gli Elementi Beta, secondo Bion sono stimoli traumatici di varia intensità e natura, che colpiscono le nostre frontiere emotive mentali, le nostre barriere paraeccitatorie, che servono a mettere al riparo la nostra omeastasi mentale, il nostro equilibrio psichico. Tale barriera possiamo immaginarcela come le ciglia dei nostri occhi, che si chiudono per ripararci dalla polvere, in una giornata di vento. Quanto la barriera viene infranta da qualche Beta, ecco che tuttavia entra in scena l'Elemento Alfa, cioè un'innata capacità immaginativo-emotiva che ha lo scopo di ricucire (sempre secondo il modello psicoanalitico di Bion) le rotture provocate da stimoli Beta esterni disturbanti (sotto vari profili). Alfa è una capacità che potremmo definire "poetica", "sognante", produttrice di senso, che ci è in primis stata trasmessa dalla mente e dalla dedizione di chi si è preso cura di noi, subito dopo la nostra nascita. E' quindi una funzione curativo-trasformativo materna. Viste in questa prospettiva le due foto che Goi ci butta lì dopo quaranta minuti di tranquillo andamento mockumentaristico, sono una sorta di antimateria poetica. Sono il buco nero in cui tutte le capacità poetico-ricostruttivo-creative della mente (elementi Alfa) scompaiono senza speranza. E Goi riesce (eccome se ci riesce) a rappresentare tale "lato oscuro della forza" attraverso quello che è un piccolo film che ci racconta una piccola, "inutile" storia di provincia. 

A guardare "Megan is missing" viene in mente "Martyrs" di pascal Laugier, l'avvitamento continuo e inesorabile, in senso catastrofico, del suo script. Se in "Martyrs" l'escalation del prefinale e del finale è costituito dalla metodica ripresa  del processo di disumanizzazione della protagonista, in "Megan is missing" tale escalation consiste in un rovesciamento improvviso e radicale di prospettiva, ribaltamento che si cronicizza tragicamente negli ultimi, lunghi, estenuanti minuti finali, a camera fissa, dove il semplice muoversi di quell' insetto sulla terra scavata da "Skaterdude" è in grado di iniettarci un senso di inquietudine dal quale non è mai possibile allontanarci. Il rapporto vittima/carnefice, così come è condotto narrativamente in questo film, mi ha fatto tornare alla mente un importante capitolo del libro di Christopher Bollas "Cracking Up. Il lavoro dell'inconscio", dal titolo emblematico "La struttura del male". In questo scritto Bollas descrive la mente di un serial killer come una struttura che capovolge drammaticamente il rapporto adulto-bambino, tradendo in modo radicale le aspettative e i bisogni di chi, appunto, ha più bisogno (il bambino). Vedetevi con attenzione come "Skaterdude" utilizza l'orsacchiotto di Amy, e successivamente leggetevi quel capitolo: poi, a bocce ferme, ne riparliamo. 

Goi riesce addirittura a farci diventare, nostro malgrado, degli spettatori di quello che potrebbe essere, tranquillamente, uno snuff movie se non sapessimo che siamo pur sempre all'interno di una rappresentazione finzionale. Snuff movie pur sempre al di qua di qualsiasi intento eccitatorio, poiché le sequenze più drammatiche della riduzione di Amy a cosa, sono sempre fuori campo. 

Quello di Goi è un'operazione che, oltre a rappresentare a mio avviso una vera chiave di volta del genere found-footage, permette, anzi promuove una riflessione sui rapporti tra realtà e immagine, tra "realismo" cinematografico come tecnica narrativa e iperrealismo massmediatico nel proporci la "realtà" all'interno delle nostre case, ad esempio attraverso la TV. Le sequenze del film che riportano le immagini dei telegiornali e delle trasmissioni locali, ci dicono proprio questo, e in questo forse il film di Goi cade in un errore non da poco, che è quello di esporsi alla critica di voler essere didascalico, pedagogico. Come se Goi avesse scritto questo film per "educare" gli adolescenti di oggi rispetto all'uso acritico del web.  

Ben altro è in verità lo spessore perturbante di questo film, che, pur nei suoi limiti di scrittura e di tecnica, rimane comunque un oggetto da manovrare con cura e non certo per spiriti delicati. Oggetto che fa scivolare in secondo e terzo piano tutte le dispute odierne sul found-footage, dipingendo un affresco agghiacciante, pur facendoci sentire il palpito vitale e ambiguamente sofferto dell'adolescenza. Da vedere (quando si hanno tuttavia i bioritmi in stato di grazia, sia chiaro...). 

Regia: Michael Goi   Soggetto e Sceneggiatura: Michael Goi  Cast: Amber Perkins, Rachel Quinn, Dean Waite, Jael Elizabeth Steinmeyer, Kara Wang, Brittany Hingle, Carolina Sabate, Trivge Hagen, Rudy Galvan, April Stewart, John Frazier, Tammy Klein, Lauren Lea Mitchell, Jon Simonelli, Craig Stoa. Nazione: USA Produzione: Trio Pictures Durata: 85 min. 


domenica 11 maggio 2014

Afflicted, di Derek Lee e Clif Prowse (2013)


Derek e Clif sono amici da una vita, legati come fratelli. I due stanno organizzando il viaggio che hanno sempre sognato: questa volta l'occasione è quella buona per partire per un viaggio intorno al mondo, avente come prima tappa l'Europa. 

Poco prima della partenza a Derek viene purtroppo diagnosticato un aneurisma cerebrale silente, tuttavia (o proprio per questo) decide ugualmente di partire per il viaggio insieme a Clif, un tour orbe-terraqueo che aveva sempre desiderato ardentemente. 

Cliff e Derek si tuffano così nella vita: paracadutismo, notti insonni, musica, locali e chi più ne ha più ne metta. Pochi giorni dopo la partenza, in un locale dove si recano ad ascoltare musica, Derek ha un incontro occasionale con una donna con la quale passerà la nottata. 
A partire da quel momento Derek comincerà a dare segni di una misteriosa malattia che esploderà in tutta la sua virulenza mentre i due ragazzi si trovano in Liguria, a Vernazza, circondati dallo splendore naturalistico delle mitiche Cinque Terre. 

Lontani migliaia di chilometri da casa, in un paese a loro del tutto sconosciuto del quale non conoscono la lingua, Clif e Derek riprendono con una telecamera Go-Pro tutte le loro imprese, per poi inviare loro notizie via internet ai familiari che li seguono trepidanti da casa. Ciò che le telecamere dei due ragazzi riprenderanno non saranno tuttavia le immagini di una vacanza, bensì quelle di un incubo sempre più cupo e catastrofico...  

Ecco un altro interessante esempio di riflessione sul "fraterno" declinato in ambito horror-perturbante. Un "fraterno" inteso come doppio oscuro, come altra faccia del legame affettivo che fonda il rapporto, in questo caso, di due amici-fratelli. L'esperimento condotto dal duo Lee-Prowse è interessante innanzitutto perché mescola fin dall'inizio tutte le carte: i registi sono anche i principali protagonisti di una storia in stile found-footage da loro stessi girata essenzialmente utilizzando una telecamera Go-Pro, professionale certo, ma anche assai amatoriale. Il film inoltre si è portato a casa le migliori menzioni al recente Fantastic  Fest-Horror di Austin, Texas (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura), in un sol colpo, il che non è cosa di poco conto, se pensiamo che lo stilema utilizzato dai due registi non è altro che il solito mocku che ormai dilaga come una piaga d'Egitto su tutto il genere cinematografico perturbante contemporaneo. 

Personalmente ho trovato interessante questo film per due ragioni, di cui parlerò diffusamente qui: 1. la "leggerezza" della scrittura filmica; 2. il tema del legame di amicizia fraterna tra i due protagonisti nonché una sua rappresentazione molto realistica all'interno della contemporaneità. 

1. "Leggerezza" della sceneggiatura: il film è molto "semplice", descrive una storia attraverso quadri di quotidianità di viaggio che sembrano fluidi acquerelli liberamente appesi su una parete bianca. Vediamo stanze di locande liguri proprio come quelle che utilizzeremmo noi se organizzassimo un week-end fuori porta; verande sul mare di trattorie qualsiasi; nulla è costruito o allestito in nessun modo particolare. La scrittura filmica di Lee e Prowse sembra dirci che la realtà si incontra cammin facendo ed appare come desidera, la si incontra là dov'è, così com'è (il cinema non la costruisce, e non costruisce niente della realtà, non c'è nessun kit preconfezionato da nessuna parte; semmai il Cinema costruisce un racconto, che è una realtà "altra", sebbene altrettanto, se non maggiormente, reale). Questo significa ad esempio la sequenza della visita alla vigna con l'agricoltore che invita i due turisti nella cantina: spazi disordinati, brutte botti dalla forma poco seducente, ferraglie sparse in giro. All'interno di questa visione erratica, provvisoria, altalenante, frammentata (la realtà, la vita sono fatte proprio così, non è vero?), i due filmaker sanno tuttavia imprimere un ritmo crescente al disagio che producono gradualmente, a partire dall'incontro di Derek con la donna misteriosa nel locale notturno. Vediamo solo un bacio, di sfuggita, tra di loro, in mezzo a molti ragazzi che bevono birra e ascoltano musica, ridanciani, sempre all'insegna del frammentario fluire delle cose. Poi, sempre nel flusso di questo acquerello morbidoso e un pò bohemien che è la scrittura filmica di questa pellicola, ecco che arriva il "taglio nella tela", il morso della creatura, che comincia a scrivere sul corpo di Derek la sua storia da incubo. 

Da questo punto in poi è come se il Doppio oscuro apparisse come un secondo pittore sulla scena: assistiamo ad un alternarsi di Folon (Clif) e  Pollock (Derek), abbracciati in una danza-lotta mortale dalla quale non possono staccarsi, dalla quale non possono prendere distanza, perché la musica di morte che li trascina è come quella delle sirene di Ulisse, ma nessuno dei due si è preventivamente legato all'albero maestro della nave. 

Ancora una volta è il sangue, simbolo di legame narcisistico profondissimo tra i due, a emergere come archetipo che muove le cose, shakespearianamente, "tra terra e cielo". Non ci appare affatto strano o incongruo, infatti, che Clif tenti di donare davvero il suo sangue all'amico per "curare" la sua strana malattia. Sotto questo profilo la sequenza dell'ambulanza, pur risentendo di alcune risonanze forse superflue alla "REC", rimane eccellente prova di regia (le reazioni dell'operatrice del 118 sono personificate in modo molto genuino ed efficace). 

Il film non si fa prendere mai in contropiede dal "già visto": non siamo affatto nei territori di uno zombie movie, e neppure di un vampire movie. La verità è che non sappiamo mai dove siamo, sebbene siamo sempre nello stesso posto, cioè in un found-footage-horror, e lo sappiamo bene. Lee e Prowse ci inchiodano in un labirinto di rimandi e citazioni (viene in mente naturalmente Chronicle, di Josh Trank, 2012, con tutto quel bailamme di superpoteri alla Spiderman di cui Derek si ritrova dotato). Tali citazioni  -scopriamo però a fine visione-sono trattate dai due registi come semplici spezie per condire un piatto che alla fine possiede un sapore particolare e tutto suo.

2. Il legame di amicizia fraterna: non ci è dato di sapere molto circa la storia dell'amicizia tra i due protagonisti. Ci viene presentata come un dato di fatto dal quale siamo implicitamente esclusi. Ma proprio questo espediente muove in noi identificazioni multiple, rimandi a situazioni similari che possono esserci accadute. Chi di noi non ha avuto un "amico del cuore"? Chi di noi non ha fatto trekking con un amico, tentando di realizzare il sogno di essere "lontani da tutto", liberi, rispecchiati narcisisticamente in questo desiderio di libertà tutto adolescenziale? E' proprio questo il significato del Doppio gemellare, del "gemello immaginario" (di cui ci ha parlato anche lo psicoanalista inglese W. Bion, ma questo è un lungo discorso, su cui magari torneremo in un altro post): l'idea di una dimensione relazionale in cui lo scambio fraterno significa illusoriamente "esser fatti l'uno per l'altro". Tale illusione (onnipotente) nasconde l'altra faccia mortifera della medaglia. Il lato oscuro si presenta come avidità orale primitiva (la sete di sangue) che distrugge l'altro cannibalizzandolo: l'ombra dell'oggetto scisso-sdoppiato di Caino e Abele cade sul soggetto come Doppio del legame affettivo fraterno.

Su un piano più eminentemente tecnico, Lee e Prowse sanno mantenere un ritmo sempre rapido, serrato, alternando in modo inusuale e arioso sequenze piuttosto cruente (vedasi l'auto-enucleazione  di Derek) a sequenze d'azione volutamente, creativamente iperboliche (il salto di Derek dalla finestra della pensione ligure sulla piazza affollata della cittadina, con quella panoramica mossa in Go-Pro sulle case colorate tutt'intorno, riprese dal basso verso l'alto). Si arriva ad un finale che è un redde rationem neanche tanto scontato, che chiude ciò che era iniziato come un viaggio da sogno, aprendo una lugubre finestra su quello che potrebbe essere la rappresentazione di un'inferno sulla terra. Cosa vogliamo di più da un film che si muove nel territorio del Perturbante?   

Regia: Derek Lee, Clif Prowse   Soggetto e Sceneggiatura: Derek Lee, Clif Prowse Fotografia: Norm Li   Montaggio: Greg Ng    Cast: Derek Lee, Clif Prowse, Baya Rehaz, Michael Gill, Jason Lee, Gary Redekop, Lily Py Lee, Zach Gray, Edo Van Breeman   Nazione: Canada, USA   Produzione: Automatik Entartainment, IM Global, Téléfilm Canada  Durata: 85 min.