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mercoledì 29 giugno 2011

Il pettirosso, di Jo NesbØ ( 2009)



Anno: 2009 Editore: Piemme Milano, 2010 Traduzione: Giorgio Puleo Pagine: 496  ISBN: 978-88-566-1117-5  Euro: 6,99.


Cercare di capire il successo mondiale di un autore di libri gialli, implica necessariamente aver letto gran parte dei suoi libri, o comunque le opere che hanno venduto di più. Di solito sono scettico rispetto ai soliti battages pubblicitari con le etichette rimovibili sulle copertine, con su scritto 'un milione di copie vendute', e mi fido ovviamente di più del mio libraio di fiducia pavese, il quale mi ha consigliato vivissimamente Jo NesbØ, aldilà della pubblicità noiosa che gli ruota attorno. Comincio perciò dal primo romanzo tradotto in italiano da Giorgio Puleo (non è il primo della serie, ve ne sono altri precedenti che attendono ancora traduzione), che introduce il personaggio del detective Harry Hole della sezione omicidi della polizia di Oslo. Posso dire di conoscere piuttosto bene la letteratura gialla scandinava (Mankell, Indridasson, Nasser, Holt e altri), e devo dire che questo "Il pettirosso", è stato una lieta sorpresa, soprattutto perchè ha uno stile tutto particolare e tutto suo, che si distingue da tutti gli altri autori sopracitati. Aldilà dell'intreccio e della costruzione dei personaggi, è la scrittura che salta all'occhio per un suo interno dinamismo, per una sua velocità e musicalità che ti cattura subito non facendoti pesare mai le lunghissime 496 pagine cui ti costringe. Velocità e musicalità narrative che rapidamente passano dai toni lirici ai bassi crudi e roventi di un hard boiled. Proprio come il paesaggio norvegese, che trasforma paesaggi montani con alte vette a picco sul mare, in fiordi di acqua calma e piatta. La scrittura di NesbØ sembra appunto un sobbalzante viaggio all'interno del territorio norvegese, con una modalità narrativa che coinvolge anche la temporalità, facendoci slittare dal presente al passato della seconda guerra mondiale, sul fronte russo-norvegese, con tanto di descrizioni di trincee, baionette e furori hitleriani. L'ambiente guerresco degli anni '40 trasmigra velocemente nella Oslo di oggi, nella quale Harry Hole è a sua volta in guerra contro un ambiente neonazista che gli uccide la sua migliore amica e collega, Ellen Gajten. Uccisione perpetrata con modalità trucida e quasi da arancia meccanica, e tale da generare uno stilema narrativo che ulteriormente differenzia il testo di NesbØ da altri romanzi gialli scandinavi, che possiamo definire più "classici", più "romantici" nel loro impianto complessivo. "Il pettirosso" è un giallo invece molto moderno, molto mosso, molto metropolitano. Il personaggio di Harry Hole l'ho trovato, qui, forse poco definito e caratterizzato rispetto ad altri più "cattivi", come quello di Tom Waler, vera canaglia nazista infiltrata nelle alte sfere della polizia. Probabilmente nei romanzi precedenti NesbØ aveva dedicato più cura nell'introdurlo ai lettori, e in questo romanzo vuole invece dedicarsi di più alla storia. In ogni caso Harry non è il solito poliziotto traumatizzato da qualcosa che è successa nel passato. E' un'omone alto un metro e novantacinque con il vizio del bere, al quale cerca di fare faticosamente fronte. Ma è innanzitutto un ottimo poliziotto con un gran fiuto, e che ama le donne, soprattutto la sua Rakel. Romanzo molto interessante nella sua architettura molto variegata e a tratti dissonante e spigolosa, come un edificio di Alvar Aalto, che muove e rigenera le acque già molto pescose del genere giallo scandinavo. Molto consigliato.

sabato 18 giugno 2011

Pausa estiva


Il blog chiude per otto giorni. Me ne vado con la famiglia in Spagna, Isole Baleari. Vacanza di mare e di scoperte in giro per Maiorca. Ci voleva proprio, diciamocela tutta, perchè è stato un annetto bello denso di cose lavorative, ma anche di visioni filmiche, recensioni, commenti, microdibattiti e nuove conoscenze interessanti nella blogsfera. Spero quindi di ritemprare il corpo e lo spirito e di tornare ricaricato. Auguro a tutti una buona fine di giugno, che poi significa un BUON INIZIO ESTATE. Ci rivediamo intorno al 30 giugno con nuove recensioni. 

venerdì 17 giugno 2011

Dark Ride, di Craig Singer (2006)



Un gruppo di sei amici in viaggio si ferma nei pressi di un parco dei divertimenti chiamato "Dark Ride". I giovani non sono a conoscenza del fatto che uno psicopatico, responsabile del brutale assassinio di due ragazze avvenuto anni prima, è appena fuggito da un istituto psichiatrico e ha trovato rifugio all'interno di quel luogo...

E' estate, tempo di fiere strapaesane, di cinema all'aperto, di giostre, di ruote panoramiche e tunnel dell'orrore di hooperiana memoria. Ecco dunque che prendo in mano questo primigenio AfterDark del 2006, che desideravo vedere da tempo, e approfitto dell'inizio estate per parlarne. Purtroppo ne devo parlare male, molto male, poichè a dispetto di una locandina che farebbe ben sperare, il film di questo ininfluente Craig Singer ("Animal Room", 1995; "Perkin's 14", 2009), vuole pigramente scimiottare il ben più consistente, per l'epoca, "The Funhouse" (1981) di Tobe Hooper, e a questo pietoso scimiottamento si ferma.  Si tratta cioè della solita solfa del gruppetto di ragazzotti ventenni, maschi e femmine, alla ricerca di nuove esperienze di sesso e di sballo attraverso le consuete canne fumate together sul van on the road again, sulle strade della grande mamma America. Il gruppetto incrocia Jonah, il pazzo criminale slasher di turno, appena fuggito con tanto di camicia di forza, come se nulla fosse, dal manicomio di massima sicurezza della contea, e per finezza di scrittura (si fa per dire, of course), uno dei ragazzi è addirittura il cugino delle due ragazzine uccise da Jonah nei bei tempi che furono. Tutto il narrato è iper-intriso, fino al vomito bulimico, di clichè di sottogenere di serie B, C, Z, e per sovramercato abbiamo anche un condimento di dialoghi insulsi, artatamente sboccati e pseudogiovanilistici, tanto per attrarre come mosche sul miele gli adolescenti brufolosi di provincia che vogliono vedere le fighette ventenni con la minigonna,  un pò più puttane delle loro compagne di classe quindicenni. Il film è cioè avvolto da un puritanesimo yankee davvero disturbante, ed è proprio questo suo stile di fondo che mi spinge ad usare per controformazione reattiva, come si è notato, un linguaggio volgarotto che non è mia abitudine usare qui. Le sequenze di pseudo-sesso sono infatti utilizzate per attrarre pubblico giovane, provinciale, e sottoporlo a stimoli erotico-aggressivi seducenti, tanto perchè paghino il biglietto alla cassa. La sequenza della fellatio che si conclude in modo ridicolmente gore, è emblematica in tal senso. Il resto del film è pura e noiosa inutilità, banalità cotta, ricotta e stracotta, quasi volgare nella sua ostinazione. Il villain assassino e psicopatico è poi senza spessore, senz'anima, una vera ameba che veste una maschera da burattino che forse vorrebbe ricordare qualche lontano film di Argento, ma magari lo fa senza neppure rendersene conto. L'ambiente labirintico della funhouse, del tunnel degli orrori è allestito e fotografato in modo dozzinale, con quelle sciocche luci rosse intermittenti di cui non capiamo il senso, semprechè ne abbia uno qualsiasi. Pochissimo da dire circa il reparto effetti speciali, vacui e spenti come pochi avevo visto finora, tanto quanto il tenore della suspense, adrenalinica come un'iniezione di pentotal direttamente in vena. E' davvero vergognoso vedere come un regista si disponga a massacrare in modo così idiota il genere slasher, fregandosene assolutamente del significato storico che questo genere ha rappresentato per il cinema americano dalle sue origini ai nostri giorni. Si salvano una, massimo due sequenze floridamente splatter, che tuttavia non sono sufficienti ad evitare che la barca presto coli a picco. Cosa possiamo aggiungere sul cast? Carine le ragazze, alle quali offrirei volentieri un drink, per il resto Singer avrebbe potuto tranquillamente ingaggiare uno stormo di oche starnazzanti sortendo lo stesso effetto, nonchè spendendo molti meno quattrini. "Dark Ride": film orribilmente brutto e da evitare con cura, dedicando invece all'estate incipiente lunghe  passeggiate in fiere strapaesane, o al luna park, guardando il cielo stellato sulla ruota panoramica, insieme al proprio amore.  
Regia: Craig Singer Sceneggiatura: Craig Singer, Robert Dean Klein Fotografia: Vincent E. Toto Musica: Konstantinos Christides Cast: Jamie-Lynn Sigler, Patrick Renna, David Clayton Rogers, Alex Solowitz, Andrea Bogart, Jennifer Tisdale, Brittney Coyle, Chelsey Coyle, Jim Cody Williams Nazione: USA Produzione: Lionsgate Films, My2Centences, Blue Omega Entertainment. Anno: 2006 Durata: 94 


mercoledì 15 giugno 2011

YellowBrickRoad, di Jesse Holland, Andy Mitton (2010)


Una mattina del 1940 nel New England, l'intera popolazione della cittadina di Friar New Hampshire, ben 572 persone, si mise in cammino su per un sentiero di montagna, lasciandosi alle spalle vestiti, soldi, effetti personali. Tutte queste persone abbandonarono anche i loro aninmali domestici: tutti i cani rimasero legati o chiusi nei loro recinti e morirono di fame. Nessuno seppe mai spiegare perché lo fecero. Gruppi di salvataggio inviati dall'esercito riuscirono più tardi a individuare i resti di circa trecento degli scomparsi.
Alcuni erano morti assiderati, altri erano stati barbaramente e misteriosamente uccisi...
Col passare degli anni un'accurata azione di "insabbiamento" riuscì a contenere e a far dimenticare questa triste storia e le leggende createsi attorno a Friar e ai boschi selvaggi che la circondano: la città tornò a popolarsi e qualcuno, principalmente cacciatori, osò addirittura tornare in quelle foreste.
Oggi però un gruppo di ricercatori è convinto di aver trovato il sentiero percorso 70 anni prima dai "camminatori di Friar" ed è deciso a seguire quella strada e arrivare a fare luce su questo incredibile  
mistero.
La loro ricerca avrà presto dei risvolti terribili...

A prima vista siamo dalle parti di un revival di "The Blair Witch Project" (1999). C'è questo sperduto paesino statunitense sul quale aleggia una leggenda molto realmente raccontata nelle prime sequenze con le foto in bianco e nero della tragedia collettiva degli anni '40. C'è una natura avvolgente e sinistra, anonima, frondosa, muta e troppo grande per essere capita dagli umani. C'è il gruppo di ricercatori storico-antropologici ben decisi a studiare il fenomeno: il tutto è narrato da Holland e Mitton senza fronzoli particolari, con freddezza quasi entomologica, vedi il primo gelido impatto tra ricercatori e abitanti della cittadina di Friar. I registi ci fanno poi, saggiamente, entrare in medias res, come a volerci dire 'questo che vedete non è TBWP, che ben conosciamo, quindi lasciatevelo alle spalle e seguiteci subito sulla YellowBrickRoad'. Sono presenti tuttavia altre suggestioni, come rimandi a "Lost", e poi certamente al mitico e indimenticabile "Picnic a Hanging Rock" (1975) del grande, grandissimo Peter Weir. Di quest'ultimo film "YellowBrickRoad" riprende lo stile sensorial-naturalistico, con quelle sequenze che riprendono cieli alti levati in mezzo ai rami di grandi querce, oppure i campi lunghi e medi di distese di fiori ed erba carezzata dal vento. I rimandi ad opere similari sono comunque consapevoli e ben inseriti in questa originale pellicola dei due registi statunitensi. Originale perchè inscrive il tema del mistero della Natura Matrigna Omicida, così atavico, primigenio, all'interno di una storia "moderna", con tanto di strizzatina d'occhio alle cosiddette "nuove tecnologie". Grande profusione quindi di videocamere digitali, ma sempre in equilibrio anti-mockumentarisico, con una sceneggiatura ben scritta, misurata, che ci porta lentamente ma inequivocabilmente nel territorio dell'inquietudine. Ottimo inoltre l'uso del sonoro, che contrappunta lo scorrere delle inquadrature con effetto molto straniante, nonchè generando un climax emotivo graduale ma inesorabile. Il gruppo di attori (particolare menzione per Michael Laurino) è ben assortito e selezionato. L'interazione tra i vari personaggi sulla scena è costruita con una finezza psicologica che guarda al gruppo come individuo e organismo vivo e conflittuale nella sua relazione enigmatica con l'incombente Natura circostante. Il primo picco conflittuale tra due personaggi, Daryl (Clark Freeman) e Erin (Cassidy Freeman), carica come una molla la tensione, spingendola verso un puro gore davvero molto spiazzante e benvenuto perchè imprime alla storia un'aura perturbante molto efficace.  A partire da questo primo innocuo litigio, che si tramuta improvvisamente in violento omicidio, il film corre speditamente e con vigoria lungo un sentiero horror molto acutamente disegnato dai due filmaker. Certo, da qui in poi, tutto diventa misterioso, incomprensibile, le bussole cominciano ad impazzire, così come le menti dei nostri ricercatori, così inizialmente "scientificamente orientate". Ma "YellowBrickRoad" è un film che sorprende, che organizza la suspense in modo ritmato e mai annoiante, che si fa cioè guardare con interesse, e nel quale si coglie passione e inventiva da parte degli autori. Per esempio le sequenze in cui i protagonisti vengono letteralmente bombardati da fortissimi stimoli acustici provenienti da un altrove naturale non identificato, pur essendo molto "Lost"-featured, possiedono una loro particolare potenza evocativa che non mi pare di aver visto in certo cinema perturbante recente che si rifa al solito "TBWP". Il pregio di "YellowBrickRoad" consiste cioè nello srotolarsi di una sceneggiatura nella quale il mistero si infittisce sempre di più, attraverso il ricorso a tecniche polimorfe, tra cui un sonoro stridente e disturbante, nonchè il gore collocato in situazioni in cui non ce lo aspetteremmo affatto. Di non secondaria importanza la fotografia di Michael Hardwick, che fonda la sua filosofia su un uso della luce naturale e sull'accentuazione della sua ugualmente naturale umbratilità. I due registi, Jess Holland e Andy Mitton, sono comunque coloro da tenere maggiormente d'occhio, rispetto agli sviluppi futuri della loro poetica, poichè la loro modalità sperimentale di guardare all'horror, in questo film, rende questo loro esordio molto interessante e apprezzabile. Anche il finale, che attinge alle suggestioni carpenteriane di "Il seme della follia" (1994), possiede una sua originalità, pur rimandando ad altri stilemi cinematografici. "YellowBrickRoad": consigliato. 
Regia: Jesse Holland, Andy Mitton Sceneggiatura: Andy Mitton, Jesse Holland
Fotografia: Michael Hardwick Cast: Michael Laurino, Anessa Ramsey, Alex Draper, Cassidy Freeman, Clark Freeman, Tara Giordano, Sam Elmore, Laura Heisler, Lee Wilkof
Nazione: USA Produzione: Points North Films Anno: 2010 Durata: 90 min.

domenica 12 giugno 2011

Super 8, di J.J. Abrams (2011)


1979, Ohio. In una piccola cittadina di provincia, nel corso di una calda estate, un gruppo di  ragazzini è testimone di un incidente ferroviario catastrofico. I ragazzi riprendono quanto accaduto con una telecamera Super 8: nascerà presto in loro il sospetto che "l'incidente" in realtà non sia stato un incidente.
Quel che accade subito dopo in tutta la città sembra avvalorare questa loro ipotesi: cominciano infatti ad accadere strani avvenimenti e sparizioni di cittadini.
Mentre la polizia locale indagherà alla ricerca della verità, i giovani amici si renderanno conto che intorno a loro sta succedendo qualcosa di terribile e imprevedibile. Qualcosa di orribile è sfuggito al controllo dei militari USA...


Diciamo subito, a scanso di equivoci, che "Super 8" non appartiene al "genere horror", o per meglio dire appartiene al perturbante spielberghiano, più che a quello cloverfieldesco alla Abrams, nonostante il regista sia comunque Abrams. Questa preliminare notazione non ridimensiona tuttavia il valore estetico di questo film, anzi lo sospinge verso sentieri luminosi in cui l'ibridazione artistica di generi piuttosto lontani tra loro, sa produrre un effetto interessante, decisamente poetico, "romantico", oserei dire. Intanto la costruzione del gruppetto di ragazzini amanti del cinema, uniti dal progetto di "girare" un film con una videocamera super 8, oltre a ricordare lontanamente ma suggestivamente "IT" di King, elabora questo tema preadolescenziale in modo mai stucchevole o da "film per ragazzi". "E.T." è infatti tornato, ma è cattivo, uccide lo sceriffo (nell'intensa e saggiamente ellittica sequenza del benzinaio di notte), rapisce inopinatamente cittadini del villaggio, obbliga le autorità locali ad un piano di evacuazione biblico, genera conflitti tra esercito e polizia locale. Parlavamo di "romanticismo", categoria estetico-filmica totalmente derelitta e soffocata dalle onde modaiole del "mockumentary", peraltro reintrodotto dallo stesso Abrams, insieme a Matt reeves, con "Cloverfield" (2008). In "Super 8" la finezza registica di Abramas consiste appunto nel ridimensionare quasi parodisticamente il tema del "mockumentary", invecchiandolo ad arte, facendolo cioè regredire a "gioco", a play  winnicottiano, a prototipo culturale, nel momento in cui mette in mano una videocamera amatoriare video 8 a un gruppetto di ragazzi delle scuole medie. Attraverso le pellicole che girano sul proiettore del giovane Joe Lamb (un'ispirato Joel Courtney), o di quello del suo grasso amico-regista Charles (Riley Griffiths), possiamo vedere tratti e movimenti del "mostro". Un mostro molto cloverfieldiano, che ci sarà mostrato con tranquilla tempistica nella bella sequenza dell'attacco all'autobus su cui viaggiano i ragazzi, e poi definitivamente in quella dei sotterranei del cimitero. Il tutto è girato con toni appunto romantici, con amore per il cinema come intrattetimento e disvelamento lento, pacato, nel quale l'immagine e la fotografia "vere", niente affatto mockumentarizzate, ritornano ad essere le vere protagoniste di un "vero" film. Abrams, dopo "Lost" e "Cloverfield", ritorna cioè a ripensare il cinema sci-fi. Decide di farlo all'interno di una produzione spielberghiana, come in un ritorno alle origini di cui sente, quasi proustianamente, il richiamo e il bisogno di attingervi ancora per trovare nuove energie creative. E le trova, decisamente. Come descrivere altrimenti se non come "ritrovamento di ispirazione", la lunga sequenza finale delle automobili che volano in cielo, attratte dal magnetismo alieno? Oppure la sequenza iniziale dell'incidente ferroviario, vero colpo di genio che supera a duecento allora ogni banalità mockumentaristica odierna? Non è certo un caso che il film sia ambientato nel 1979, anni luce fa, vuole dirci Abrams attraverso questa location temporale. Questo tipo di messaggio viene inscritto in una sceneggiatura molto ben curata, calibrata, forse un pò troppo melodrammatica in alcuni punti (vedi la descrizione del rapporto tra Joe e Alice-Elle Fanning), in particolare per i nostri gusti europei e italiani, ormai assuefatti al bunga-bunga. Si tratta di una melodrammaticità che però è in sintonia coi vissuti del pubblico americano medio, e in questo senso non eccede e non disturba lo sviluppo dello script. Sonoro (di Micheal Giacchino) e fotografia (di un Larry Fong che sembra aver catturato - non si sa come - le luci dei cieli notturni degli anni '70 e averceli portati oggi, qui, sullo schermo), accentuano un alone di nostalgia infantile molto ben raccontato ed molto ben emotivamente trasmesso. Come immagino si sia potuto intuire fin qui, consiglio la visione di "Super 8", per le tante suggestioni e per i tanti stimoli che attiva, e perchè permette una vera riflessione sul cinema sci-fi, sulla sua storia, e sulle sue polimorfe e discutibili declinazioni espressive contemporanee. 
Regia: J.J. Abrams Sceneggiatura: J.J. Abrams Fotografia: Larry Fong Montaggio: Maryann Brandon, Mary Jo Markey Musica: Michael Giacchino Cast: Kyle Chandler, Elle Fanning, Ron Eldard, Noah Emmerich, Joel Courtney, Riley Griffiths, Ryan Lee, Zach Mills, Gabriel Basso, AJ Michalka Nazione: USA Produzione: Amblin Entertainment, Bad Robot, Paramount Pictures Anno: 2011 Durata: 112 min.

sabato 11 giugno 2011

Poca trippa per gatti



Desideravo parlare brevemente dei miei prossimi progetti recensori, anche se all'orizzonte non sembrano mostrarsi film o libri di grande e particolare richiamo, almeno per quanto riguarda le mie papille gustative perturbantòfile. C'è poca trippa per gatti, insomma, in questo inizio d'estate. Seguendo un pò vari siti e blog sparsi per la blogsfera, sia italiani che esteri, non mi pare siano al momento segnalati prodotti degni di nota. Per quanto riguarda il sottoscritto ho attualmente per le mani "Super 8", di J.J.Abrams grande sceneggiatore della serie "Lost". "Super 8" mi incuriosisce molto, non chiedetemi il perchè, forse semplicemente perchè è il nuovo figlio di Abrams, oppure perchè rimanda a suggestioni aliene, che con il Perturbante sono apparentate strettamente. Dipoi m'impegna la visione di un non recente film Lionsgate, e cioè "Dark Ride" (2006) , che non ero ancora riuscito a vedere e m'incuriosiva per i rimandi hooperiani al "Il tunnel dell'orrore" (1981). Anche di questo "Dark Ride vedrete a breve qui una recensione. Per quanto riguarda i libri e la letteratura, sono in dirittura d'arrivo con "Il pettirosso" del grande Jo Nesbo, di cui sto iniziando a leggere i romanzi, che non conoscevo. Riferirò a riguardo in tempi più lunghi, così come per la saggistica psicoanalitica: il mio orizzonte casalingo è per adesso illuminato dal volume di Niels Peter Nielsen "I Colori dell'odio" (Raffaello Cortina Editore, 2011), interessantissimo saggio sull'Odio nelle sue polimorfe declinazioni emotive e comportamentali. State sintonizzati e leggerete anche di questo bel saggio. A presto. E ricordatevi di andare a votare, domenica per questi sacrosanti referendum.

lunedì 6 giugno 2011

Fertile Ground, di Adam Gierasch (2010)



Emily e Nate Weaver lasciano la città per il comfort di una casa rurale di famiglia di Nate nel New Hampshire. Lì, isolata e posseduta da visioni terribili, Emily scopre di essere incinta, mentre Nate viene invaso dallo spirito omicida di uno dei suoi avi. In una casa infestata dalle vittime passate, Emily scopre che lei è l'ultimo obiettivo di una lunga tradizione omicidiaria.

La piattezza al sapore di piombo delle nuove produzioni After Dark Originals è davvero sorprendente. Sorprendente soprattutto per l'attitudine quasi copiativa delle singole opere prodotte, che sembrano a tratti ripercorrersi stilisticamente le une le altre. Questo "Fertile Ground", per esempio ricorda molto, in alcuni punti, certe sequenze di "The Broken" di Sean Ellis (2008), in particolare nelle visioni trasfigurate e fantasmiformi del marito, nel momento in cui Emily fa sesso sul lettone della bisnonna di Nate. La "copiatività", inutile e dannosa, di questo film non si ferma qui, e rende il prodotto di Adam Gierasch  un vero "fertile ground" per il critico inferocito e arcistufo di beccarsi tra capo e collo queste tegole plumbee. Ad esempio molte insipide inquadrature della "casa", ricordano "Hamitiville Horror" (1979) di Stuart Rosenberg, senza ovviamente avvicinarsi neanche di un millimetro alla proposta estetica dell'originale. Per il resto la sceneggiatura a capitoli, che sembra addirittura scimiottare (somma ridicolaggine!) l"Antichrist" di Lars von Trier, fa il suo buon lavoro di seppellimento definitivo della pellicola ai livelli più bassi del deja-vu riscaldato e rifrullato horror-yankee che abbiamo mai visto fino ad ora. L'interpretazione attoriale è sciattissima e nessun colpo di genio anche casuale della regia riesce a risvegliare quei morti di sonno dei nostri Leisha Hailey (Emily) e Gale Harold (Nate). Anzi, a un certo punto del film non vediamo l'ora che si fracassino a vicenda la testa con qualsiasi corpo contundente che gli offriremmo volentieri noi stessi, almeno potessimo entrare magicamente nella storia. Colonna sonora in stile Carosello anni '70 (soprattutto nella prima parte del film), ed effetti speciali che presto evaporano via dalla nostra vista come neve al sole, fanno traballare la baracca fino al crollo finale in un secondo atto filmico che drammaturgicamente ha lo spessore di un'antina d'armadio per bambini dell'Ikea. Che dire, dunque? Direi che, ahimè, non ci siamo proprio. Nemmeno per quanto riguarda le visioni fantasmatiche degli avi omicidi di Nate. Salverei solamente una sequenza, ben fatta, quasi carpenteriana-delle-origini, cioè quella in cui Emily è ferma al semaforo che passa velocemente dal rosso, al verde, al giallo e viceversa, mentre la contadina bionda con in braccio il neonato la guarda con occhio enigmatico. Tale sequenza è interessante e produce una gestalt feminino-perturbante che non mi sarei aspettato: ma dura pochissimo, è una specie di brevissimo arcobaleno durante un ininterrotto acquazzone tropicale. Per concludere la consegna nell'oblio di questo film di Gierasch (autore di "Autopsy" - 2008 e "Mortuary" - 2005, dal quale forse non dovremmo aspettarci poi tanto, peraltro), aggiungerei che è molto, molto noioso, almeno per un'ora abbondante di minutaggio. E non è poco, che dite? Credo alfine che il tempo che ho dedicato a questo "Fertile Ground" sia sufficiente, anche per suggerire di allontanarci sempre più dalla After Dark, diventata in questi anni una specie di industria che produce carta carbone e matite copiative di pessima qualità. Sconsigliato. 
Regia: Adam Gierasch  Sceneggiatura: Jace Anderson, Adam Gierasch Cast: Gale Harold, Leisha Hailey,  Chelcie Ross, Jami Bassman, Kailah Combs, Ingrid Coree, Clint Curtis Nazione: USA Produzione: After Dark Films Durata: 95 min.

venerdì 3 giugno 2011

The Tree of Life, di Terrence Malick (2011)



E' la storia di una famiglia del Midwest negli anni cinquanta, vista attraverso lo sguardo rimemorativo del figlio maggiore, Jack, nel suo viaggio personale dall'innocenza dell' infanzia alle disillusioni dell' età adulta in cui cerca di tirare le somme di un rapporto conflittuale con il padre (Brad Pitt). Jack - che da adulto è interpretato da Sean Penn - si sente come un'anima perduta nel mondo moderno che vaga nel tentativo di trovare delle risposte alle origini e al significato della vita, tanto da mettere in discussione anche la sua fede.
                                     
                                 *                             *                              *


"Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.


Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato". (Eugenio Montale)



"The Tree of Life" non è un film. E' un'opera d'arte di elevatissimo valore etico ed estetico. E' forse paragonabile a una sinfonia di musica contemporanea, oppure a un'opera visivo-pittorica, a un'installazione permanente che diventa inno alla creazione intesa anche, ma non solo, come origine della Vita. Visto in questa prospettiva "The Tree of Life" non è certamente pensabile solo come un "film". Ne deriva a mò di corollario che quest'opera non può essere richiudibile nel ristretto ambito di una cosiddetta "recensione". Porterò quindi in questa sede delle semplici riflessioni e suggestioni sorte in me dopo dall'esperienza della visione di questo "oggetto artistico", anche rispetto a ciò che non mi ha convinto, oltre che a ciò che mi ha convinto. Innanzitutto diciamo subito che si tratta di un oggetto altamente enigmatico, cioè di un qualcosa che immediatamente tocca le corde dell'inconscio di chi guarda, perchè gronda dell'inconscio dell'artista, ne porta completamente il segno. "The Tree of Life" è intriso dell'inconscio di Malick, come le immagini di cascate e acque che a loro volta grondano  ovunque sullo schermo. Acque, piogge,  maree, stagni, fiumi, laghi, segnalano che siamo più che altro di fronte ad una ininterrotta associazione libera, nel corso di un andamento narrativo tutt'altro che lineare del montaggio. Questo chiamiamolo-film appare infatti come un'epifania associativa libera, al limite del rappresentabile, che scaturisce dal cosiddetto "lavoro dell'Inconscio", così come lo descrive (assai bene) lo psicoanalista inglese Christopher Bollas nel suo interessantissimo libro "Cracking-up" (Raffaello Cortina Editore). "The Tree of Life" sovverte infatti ogni aspettativa di uno spettatore "medio", sovvertendo la tecnica cinematografica classica, in primis eliminando qualsiasi (QUALSIASI) intento legato all'intratenimento. Malick sembra quasi voler allontanare lo spettatore qualunque, affaticandogli la mente, stancandogli la vista, ad esempio piazzando al centro dell'opera un quarto d'ora abbondante di immagini naturalistiche oscure, dense, primitive , che non possiedono, in sé, un senso immediato - dopo aver introdotto la famiglia di Jack (Sean Penn) alle prese con il lutto di un figlio diciannovenne presumibilmente morto in guerra, vediamo infatti vulcani che eruttano, correnti magmatiche che si scontrano, alghe marine, pesci, onde altissime infrangersi su scogliere indistinte, meiosi e mitosi cellulari in sequenze macrofotografiche, stormi di uccelli in volo, nuvole, alberi, boschi, foglie trafitte da raggi di sole radenti, prati fumiganti di nebbie aurorali, canyons dai colori smaglianti, campi di girasoli in piena luce solare, deserti petrosi - per poi tornare al "romanzo familiare" dell'infanzia  di Jack, in un'infinità di flash back catturati da una macchina da presa manovrata in modo fluido, liquido, ondivago, giroscopico. Le immagini naturalistiche ininterrotte sembrano il "mare dell'Inconscio", la "Thàlassa", come la descrive lo psicoanalista ungherese, allievo di Freud, Sandor Ferenczi. Il montaggio è infatti, in realtà, uno "smontaggio" associativo che vuole avere l'effetto di generare crepe e frammentazioni percettive profonde, attraverso cui si mostri appunto l'Essere, l'Inconscio. Tale meta è ovviamente impossibile da realizzare appieno, e Malick lo sa, poichè l'Uomo nasce proprio come scarto da quell'Inconscio, al quale non può tornare, pena il suo annullamento nell'indifferenziato. Malick sa che l'Uomo è limite, "finitudine e colpa" (Ricoeur), "esserci-per-la morte" (Heidegger). Ed ecco che Malick, a fronte di queste consapevolezze, dopo aver smontato la nostra percezione, chiama in causa la narrazione più lineare delle vicende della famigliola del Midwest, famiglia come forma umana in cui cerchiamo di contenere l'enigma supremo della Vita, le sue potenti correnti carsiche inconsce che albergano comunque all'interno di ognuno di noi. Il nostro compito terreno è far fronte a questo mistero, a questo enigma che ci abita e ci ammalia. Vengono dunque in mente, certamente, anche suggestioni lacaniane, oltre che Kubrick, Freud, Jung. Detto questo, che descrive, come mi sembra di aver fatto, un'opera potente, stravinskiana, addirittura wagneriana, "The Tree of Life" non mi ha convinto del tutto. Sono la ridondanza di alcuni segmenti stilistici, nonchè la ripetitività di certe atmosfere familiari, ad appesantire a mio avviso inutilmente un'opera che poteva decisamente guardare di più a un registro "orientale", "leggero", "zen", per "parlare" di senso e non-senso della Vita, dell'Amore, dell'Odio, della Natura. Il rimando alla Natura darwiniana che incombe su tutto, presentato in modo così invasivo, schiaccia l'idea di una riflessione su tutti questi importantissimi temi, e la schiaccia proprio nel momento in cui Malick la sta portando avanti, come aveva fatto molto più egregiamente e in modo, appunto sottilmente "zen" in "La sottile linea rossa" (1998). Anche gli attori, soprattutto Sean Penn e Jessica Chastain, Mrs. O'Brien, risultano travolti dalle maree e dalle imponenti cascate che Malick pone così spesso in primo piano. "Tree of Life": opera egregia, tragica, eroica, che soffre tuttavia di un inutile eccesso di titanismo, anche un pò troppo "occidentale" a mio modesto avviso, che sembra aver preso la mano dell'artista.  
REGIA: Terrence Malick SCENEGGIATURA: Terrence Malick CAST: Sean Penn, Brad Pitt, Joanna Going, Fiona Shaw, Tom Townsend, Jessica Chastain, Jackson Hurst, Crystal Mantecon, Lisa Marie Newmyer, Pell James, Tamara Jolaine, Jennifer Sipes, Will Wallace FOTOGRAFIA: Emmanuel Lubezki MONTAGGIO: Hank Corwin, Jay Rabinowitz, Daniel Rezende, Billy Weber MUSICHE: Alexandre Desplat PRODUZIONE: Plan B Entertainment, River Road Entertainment  PAESE: USA 2011 GENERE: Drammatico DURATA: 139 Min FORMATO: Colore 1.85 :1