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sabato 29 novembre 2014

The Babadook, di Jennifer Kent (2014)


Amelia lavora in ospizio per anziani.  Suo marito è morto da sei anni , cioè da quando è nato suo figlio Samuel, che di anni ne ha appunto sei. La vita di Amelia, donna completamente sola, in gravi difficoltà economiche, è molto difficile, anche perché Samuel sembra soffrire, man mano che gli anni passano, di seri disturbi comportamentali non facilmente diagnosticabili: paure notturne incomprensibili, agitazione psicomotoria, iperattività, e soprattutto il timore profondo, incontrollabile, che di notte venga il Babadook, una mostruosa creatura con denti e artigli affilati, pronta ad uccidere lui e la mamma. Le cose non migliorano quando nella loro casa si materializza misteriosamente un libro di fiabe che porta proprio il sinistro titolo di "The Babadook"...

Sollecitato dalle molte recensioni che circolano in rete su questo film dell'australiana Jennifer Kent, mi accingo anch'io (a questo punto, dopo la visione, posso dire "necessariamente") a dire due cose su questo vero gioiello di genere Perturbante. E' probabile che molte cose che dirò siano già state dette, perché si tratta di un film che merita davvero di attenzione e di commento, sebbene creda che la sua preziosa poeticità meriti per certi versi di essere solo fruita, osservata, maneggiata con delicatezza, senza contaminarla con inutili e superflue parole. Si tratta infatti di un film che va guardato, sedimentato e "digerito" con calma, che va goduto in un meditato e profondo silenzio. Cercherò quindi di osservarne versanti differenti, non esplorati da altri, con uno sguardo magari più psicoanaliticamente orientato rimandando ad altre importanti recensioni di questo film, più strettamente "cinematografiche", di vari amici blogger che seguo con attenzione (vedi in particolare le recensioni a "The Babadook" di Simone CoràElvezio SciallisLuciaLove is the Devil). E cercherò, soprattutto, di non aggiungere chiacchiere sovrastrutturali inutilmente sovrabbondanti.

Come dicevo, il film bisogna innanzitutto visionarlo con tutta la tranquillità dovuta. Commentarlo o addirittura cercare di trasmetterne il senso (o meglio i sensi) è molto difficile, quindi partirei "per associazione libera" dalla frase che dice il medico cui Amelia si rivolge dopo una grave crisi di panico di Samuel, che avviene in automobile, mentre Amelia sta guidando, e Samuel è spaventato dalla presenza, accanto a lui, (invisibile/fantasmatica) del Babadook. Il medico, dopo aver visitato il bambino nel suo ambulatorio, dice, con la voce un pò stanca del pediatra di provincia: "Potrebbe trattarsi di una convulsione febbrile. Succede quando l'encefalo si surriscalda".  Che cos'è che "surriscalda" l'encefalo di Samuel? Possiamo dire innanzitutto il peso di dover stare con la mamma in assenza di un papà morto a seguito (o in contiguità) con la sua nascita. La nascita del bambino coincide con la morte di suo padre, col suo affondamento, e basterebbe solo questo tratto di script a rendere interessante la vicenda. Ma Jennifer Kent (che scrive anche la sceneggiatura) non si ferma qui, e procede come un caterpillar ad organizzare un film sulle devastanti conseguenze emotive di un lutto che determina un Edipo col segno meno, un Edipo in cui è Laio che che chiede (fantasmaticamente) al figlio di giacere con Giocasta, di essere più "uomo" di lui stesso. E' questo peso soverchiante, impossibile da portare per Samuel, a "surriscaldare l'encefalo", a generare il Babadook. 

I bambini di solito sognano di "sposare" la mamma. Di essere loro i "Principi Azzurri" ideali delle fiabe che la mamma legge prima che si addormentino. Immaginiamoci una situazione in cui, improvvisamente, questo sogno identificatorio di un bambino venga a realizzarsi veramente, cioè una situazione in cui il bambino possa "davvero" diventare il Principe Azzurro della mamma. Se il "far finta", segno distintivo della narrazione fiabesca e della dimensione del gioco, venisse meno, allora bambino si sentirebbe posto in una situazione emotiva insostenibile. E' la cifra del sogno/fiaba a rendere il desiderio edipico sostenibile (ed elaborabile): se questa cifra crolla, allora entra in scena l'angoscia, il "surriscaldamento". Jennifer Kent riesce con maestria rara a definire un quadro di questo tipo, evocando una semplice, direi banale, figura fiabesca, quella del Babau (l'"Uomo Nero che ti tiene un mese intero..."). E ci riesce soprattutto attraverso un'uso del montaggio che sul piano dell'effetto straniante/perturbante, non possiamo che definire geniale, in una regista come lei, all'esordio in un lungometraggio di ben 93 minuti.

Il montaggio (realizzato da un ottimo, ottimo Simon Njoo)  è il vero strumento cardine che l'artigiana Kent è capace di utilizzare con efficacia somma in questa sua officina perturbante che si chiama Babadook, nella quale ci fa entrare subito, quasi spingendoci dentro con piccoli, rapidi e costanti colpi ben assestati. Tale strumento diventa gruadualmente una vera e propria tagliola, o per meglio dire una garrota, perché avvita su di sè velocissimamente la storia senza che lo spettatore abbia il tempo di accorgersene. E' come se la macchina da presa fosse sempre più avanti delle nostre capacità difensive/adattative di spettatori medi di un film di questo tipo.  E tutto ciò comincia ad avvenire dal primo momento del minutaggio, per cui, quando ci accorgiamo di essere (solamente!) a circa metà della pellicola,  ci si stringe un attimo il cuore...

Il tutto è per di più immerso in una fotografia (di Radek Ladczuz) ipoilluminante, anche negli esterni più assolati, come a voler generare un senso di appiattimento leggero ma soffocante in modo sufficientemente fastidioso, a partire dalla stessa luminosità della visione. Stesso effetto hanno le caratterizzazioni dei personaggi che ruotano intorno ad Amelia (si vedano i funzionari dei Servizi Sociali che si presentano a casa sua, e che sembrano usciti da un ufficio polveroso della vecchia DDR). 

Ma è certamente nella caratterizzazione femminile della figura di Amelia, e nella descrizione inesorabilmente puntuale della involuzione sempre più regressiva del suo disagio basato su una solitudine senza rimedio, che Jennifer Kent dà il meglio di sè. Il suo rapporto con Samuel, l'emersione lenta e liquida, infiltrativa di un'ambivalenza mai pensata in precedenza nei confronti del figlio, il deserto sociale che viene a crearsi intorno a lei (si veda il rapporto conflittuale con zia Claire) diventano spire cosmico-gravitazionali di un buco nero che pian pano la inghiotte. L'odio "controtransferale" materno fa così da pendant all'assenza del Padre, di quel Principe Azzurro che Samuel non può essere. L'Edipo è infatti, innanzitutto, un contenitore protettivo che detta un limite, che chiude la porta ad ogni pulsione di impossessamento, di divoramento (sia del bambino che della madre), che struttura la mente e ne garantisce il senso di separatezza intrasoggettiva. La Kent decostruisce tale assioma fondativo della mente attraverso la rappresentazione della deriva mentale di Amelia, ben evocata dalla lunga, notevole sequenza dello zapping televisivo di Amelia seduta in poltrona, zapping che diventa il perfetto rispecchiamento di una frammentazione mentale in statu nascendi.

Tale destrutturazione emotiva, edipica, relazionale duale (rapporto madre.bambino), sociale, investe, nel lungo (forse troppo) prefinale, anche il piano temporale e l'assetto ritmico-circadiano sonno-veglia. Non capiamo più chi sta dormendo, chi è sveglio, chi sogna, se sogna, o se è realtà. La Kent, sempre con un'uso micidialmente straniante del montaggio, ci confonde fino a far emergere la tragica verità emotiva che muove, fa palpitare il cuore di tutto il film e che ne estrinseca tutta la sua poesia (e architrave di questa momento evolutivo fondamentale dello script è senz'altro la sequenza dell'incontro/scontro tra Samuel e la mamma in camera da letto). Una poesia, dicevo all'inizio, che non credo abbia bisogno di molte parole, e proprio per questo qui mi fermerei, senza aggiungere i molti richiami, pregevolmente elaborati dalla Kent, a molti altri film di genere. Aggiungo solo che è molto raro vedere un film che sappia così bene integrare ed esprimere il Perturbante come organizzatore narrativo di elementi emotivo-affettivi e socio-psicoogici che guardano in molte, diverse e "altre" direzioni.
"The Babadook": da non mancare. 

Regia: Jennifer Kent   Soggetto e Sceneggiatura: Jennifer Kent  Fotografia: Radek Ladczuz   Montaggio: Simon Njoo    Cast: Essie Davies, Daniel Henshall, Noah Wiseman, Tim Purcell, Tiffany Lyndall-Knight, Hayley McElhinney, Cathy Adamek, Adam Morgan, Barbara West, Benjamin Winspear  Nazione: Australia Produzione: Causeway Films, Smoking Gun Poroductions  Durata: 93 min.     

[Consiglio anche la visione di questo lungo, interessante trailer, nonchè del corto "Monster", di Jennifer Kent, 2005, più sotto] 
  




Breve pausa musicale (in attesa di The Babadook...)

sabato 22 novembre 2014

Asmodexia, di Marc Carreté (2014)




Cinque giorni della vita di un vecchio esorcista e della sua giovane nipote, che lavorano senza sosta nell'area di Barcellona, il tutto narrato in un'atmosfera che fa presagire una catastrofe incombente...

Film su possessioni, esorcismi, invasioni demoniache ne abbiamo visti molti. A partire da "L'Esorcista" di Friedkin, del lontano 1973, pietra miliare del cinema perturbante contemporaneo e ormai archetipo sedimentato nell'immaginario collettivo, la figura simbolopoietica del Male che alberga nelle profondità del cuore dell'uomo è stata studiata da molti registi che ne hanno tentato molte revisioni interpretative : si tratta di un tema in fondo poi mai abbandonato dal cosiddetto genere horror. Recentemente, in questi ultimi anni soprattutto, il filone sembra aver ripreso grandemente piede, vedansi le varie prove (dagli alterni risultati) della serie "Paranormal Activity", ma non solo (rimando, per una disamina recensoria come al solito molto attenta e dettagliata sulle ultime pellicole che sviluppano meglio e con più originalità il tema della possessione, al blog di Elvezio Sciallis). 

Il precedente paragrafo mi pareva rappresentare una necessaria premessa. Ma ve ne è una seconda che ritengo altrettanto necessaria, e che riguarda il Cinema Perturbante spagnolo,  di cui naturalmente fa parte "Asmodexia". La vitalità del cinema horror spagnolo è nota a tutti, e basterebbe fare i nomi del catalano Nacho Cerdà (Aftermath, 1994, Genesis 1998, The Awakening, 1990), di Jaume Balaguerò o di Paco Plaza (REC, 2007), o di Jorge Sànchez-Cabezudo (La notte dei girasoli, 2006) per poter allestire un intero convegno dedicato solo a quest'area geografica. L'horror spagnolo è molto interessante perché intreccia  il sapore fortemente gotico-rurale di molte pellicole, con quello dell'ambientazione cittadina nella quale spicca una particolare attenzione alle periferie degradate intese come metafora di una società culturalmente decaduta e in cerca di un'identità impossibile da ritrovare. Lontano anni luce dalle facili intenzioni seduttivo-spettacolose di cui è imbevuto il mainstream statunitense, l'horror iberico rielabora elementi antropologico-religiosi e storico-politici di ben altro spessore, riguardanti la specificità della storia iberica stessa, i caratteri antropologici che la contraddistinguono, generando così un'operazione di riflessione comunitaria e culturale a mio avviso non da poco, funzione del tutto mancante dalle nostre parti ( almeno per quanto attiene al genere perturbante, intendo dire). 

Fatte le due precedenti, a mio avviso necessarie premesse, il film dell'esordiente Carretè, si inscrive senza dubbio nel filone cinematografico a cui mi riferisco poco più sopra, tentando di contribuire a nutrirlo o coltivarlo, e prendendo di petto, e come via d'analisi, il vetusto tema della possessione demoniaca. E lo prende, questo dannatissimo e non facile archetipo, questo sentiero così scivoloso, ambiguo e sempre in salita, dal punto di vista dei confronti con più illustri precedenti, da un versante piuttosto originale, che lo promuove a film visionabile e apprezzabile, nonostante alcune considerevoli pecche di cui avremo modo qui di parlare.

Gli elementi positivi sono tutti contenuti nella caratterizzazione di una coppia, quella costituita dal vecchio esorcista e dalla nipote (Eloy de Palma e Alba), personaggi molto diversi tra loro, ma legati da una vicenda transgenerazionale che li inchioda al loro ruolo di nomadi tribali in giro per il territorio a rivestire eternamente la loro funzione di sciamani del XXI secolo. In questo film, "primitivo" e "post-moderno" coesistono infatti a meraviglia, e tale integrazione è impreziosita da inquadrature di archeologia suburbana davvero interessante (si vedano le sequenze dello stadio con la piscina abbandonata e gli spalti per il pubblico completamente diroccati e attraversati da scritte e disegni colorati di writers locali). Un montaggio alternato abbastanza ben costruito, ci fa poi oscillare tra l'esterno delle peregrinazioni di Eloy eAlba, da una parte, e l'interno dell'ospedale psichiatrico, dall'altra.   

Tutto lo script è attraversato da una sottile aura di mistero: non sappiamo in realtà mai niente di niente (lo stesso titolo "Asmodexia" in realtà non ha nessun significato, che almeno il sottoscritto conosca), fino al finale, un terzo atto che risponde a posteriori alle domande che ci siamo posti lungo il corso della visione. Carretè è molto ellittico, anzi, fa dell'ellissi la sua cifra peculiare. Non mostra quasi mai sequenze di vero e proprio esorcismo in quanto tale. Non gli interessa l'effetto speciale, il consueto (e ormai banale, circense) roteare di teste, di toraci, di braccia della malcapitata vittima di Lucifero. Gli interessa la storia in sè, il rapporto tra l'esorcista e la nipote, in fondo una "semplice" storia familiare, un incontro tra generazioni oggigiorno, poi, usualmente molto lontane, giacché lontane sono oggi anche le generazioni dei figli e dei genitori, e figuriamoci quindi quelle tra nonni e nipoti. Carretè le avvicina invece queste generazioni lontane: vediamo ad esempio un uomo piuttosto anziano incamminarsi accanto a muri dipinti con lo spray da sedicenni. Questa a me è parsa forse la principale idea originale che muove ed ispira tutto il film. Come se il discorso sulla "possessione" volesse intrecciarsi con quello, decisamente più sociale, psicologico, e simmetrico, dello "spossessamento" che nell'attualità viviamo, della nostra stessa storia, cioè di noi stessi. 

Nella cosiddetta "società liquida" sono soprattutto i giovani (Alba) a subire questo spossessamento, oppure, se vogliamo vedere il problema da un altro vertice di osservazione, ad essere "posseduti" dal demone della superficie, del godimento immediato, dell'immagine di Narciso, antitesi di una profondità storica, rappresentata dal vecchio Eloy.  Il capovolgimento finale di prospettiva (che ovviamente non riveliamo) sembra confermare questa nostra visione interpretativa della pellicola. I difetti ci sono, naturalmente: in primis una certa ripetitività vuota dei dialoghi, nonché un soffermarsi eccessivo di Carretè sulle inquadrature di paesaggi naturali e campagne nelle quali Alba ed Eloy camminano ininterrottamente. Anche la fotografia, che vira al giallo e al seppia con contrasti forti in alcune sequenze, mi è parso un sovrappiù inutilmente estetizzante, laddove si poteva dare più spessore agli intrecci familiari (che rimangono il cardine della storia, ma che sono troppo poco sviluppati, fino a risultare come troppo superficialmente costruiti). 

In sintesi, per essere un lungometraggio d'esordio (dopo i corti "Castidermia", 2012 e "Mal cuerpo", 2011), e pur con tutti i suoi limiti, di budget e non solo, "Asmodexia" si pone come nuovo ed interessante tassello del cinema perturbante iberico, che cerca di lavorare il fritto e rifritto tema della "possessione" con un tocco originale e inconsueto. 

Regia: Marc Carreté  Soggetto e Sceneggiatura: Marc Carreté, Mike Hostench  Fotografia:     Montaggio:     Musiche:    Cast: Albert Barò, Marta Belmonte, Pepo Blasco, Roser Bundò, Ramon Canals, Marina Duran, Lina Gorbaneva, Lluis Marco, Irene Montalà, Clàaudia Pons, Mirela Ros, Josè Garcìa Ruiz, Silvia Sabaté Nazione: Spagna   Produzione:  Ms Entertainment, Dear Fear  Durata: 81 min.     


mercoledì 12 novembre 2014

Septic man, di Jesse Thomas Cook (2013)




Jack, un operaio che lavora all'interno di condotti per le acque reflue, viene intrappolato all'interno di una fossa settica che si trova in una grande raffineria dismessa. In questo claustrofobico luogo Jack subisce una micidiale contaminazione che lentamente lo trasformerà in un mostro irriconoscibile. Come se non bastasse la moglie Shelley, che aspetta un bambino, lo ha lasciato, poco prima che l'uomo si avventurasse all'interno della fossa. L'unico modo per sfuggire ad un destino tragico, sarà quello di collaborare con un uomo dalle dimensioni gigantesche e confrontarsi con un efferato assassino chiamato Lord Auch...

Ci troviamo catapultati in un ambiente di  provincia americana postapocalittico, dopo che intere città sono state evacuate causa misterioso inarrestabile contagio, di cui vediamo subito gli effetti su una giovane donna nella lunga sequenza iniziale. Trattasi di sequenza che fa ben sperare gli amanti del genere contagion movie: cieli grigi, natura decaduta, inquinata, inospitale sempre in primo piano, acqua come protagonista principale del film: un acqua che trasporta morte, malattia, trasformazione involutiva, l'esatto contrario, cioè, dell'archetipo bachelardiano della "poetica dell'acqua" come nascita e rinascita dello spirito, come rispecchiamento, come integrazione tra abisso e superficie. Cook lavora questo tema guardandolo dal punto di vista del "negativo" fotografico. Ci mette di fronte ad una umanità in declino, un'umanità colpevole di aver ridotto la natura allo stato di deposito tossico nel quale gli esseri "umani" non possono che aggirarsi ora come zombie, contaminati dai veleni che loro stessi hanno prodotto nel corso della loro triste, tristissima storia.

Sulle prime siamo quindi quasi tentati di pensare ad un'ispirazione filosofica di questo film (Gunther Anders? Sartre?), perché tutto sembra ridotto all'osso di un non-senso che avvolge tutto e tutto risucchia, non-senso cui il film potrebbe sembrare di voler dare una sua originale seppur pessimistica risposta. Le brevi sequenze che riprendono il dialogo tra Jack e Shelley in salotto, nella loro casa, prima della partenza (definitiva) di Jack per i cunicoli mortiferi della fabbrica, sembrano tratte da una piéce teatrale di Pinter: si tratta infatti di un'interazione che è in realtà un' uccisione-della-relazione. A partire da questo intreccio di coppia subito sciolto nell'acido, nel putridume di un indifferenziato psico-biologico indotto dal "contagio", tutto rotola piano piano ma inesorabilmente verso il basso di una fossa settica dalla quale Jack non uscirà più (sì che ne uscirà, sul piano dello script, ma solo su quello, mentre su tutti gli altri Jack è già morto). 

Dicevo di una tentazione di impronta filosofica che sembra brevemente voler catturare lo spettatore, o che il regista sembra voler praticare mediante un uso che appare deliberatamente iperbolico dei simbolismi legati al tema della natura e del suo rapporto con l'uomo. E' appunto un lampo fugace, un sentore all'inizio pungente ma che si fa leggero fino a svanire nell'aria. Il film infatti si incarta molto presto all'interno dei cunicoli claustrofobici che si dipartono dalla fossa settica in cui Jack, "Septic man", è rinchiuso. Buone le premesse, verrebbe da dire, ma catastrofici gli sviluppi. Risulta molto presto evidente che Cook non è affatto in grado di gestire gli spunti estetico-filmici che dissemina all'interno dello script. Li butta via, semplicemente, non li lavora. 

Tutto è posto sulle spalle di un Jason David Brown dallo spessore attoriale inesistente, dalla "maschera" perturbante pressoché ininfluente, nonostante gli esperti di make-up arruolati alla bisogna lo abbiano conciato peggio del Freddy Kruger bruciato vivo quella lontana notte in Elm Street. E il peso il nostro Jason non lo regge (e perché dovrebbe?): per di più non lo aiutano le pessime, incoerenti musiche di accompagnamento di Nate Kreiswirth, e neppure la fotografia, presumibilmente dello stesso Cook (non sono riuscito a trovare nessuna menzione di un qualsivoglia Direttore della Fotografia nei titoli di coda, che ho peraltro letto e riletto attentissimamente). Il "coro greco" dei personaggi di contorno al protagonista sono semplici burattini senza fili che non producono alcuna vibrazione significativa nella spenta e vacua polifonia che Cook ci vuole a tutti costi propinare.

Film alla fine pretestuoso,  dalle ambizioni eccessive, che produce il solo risultato di presentarsi come un contenitore vuoto e privo di ogni spessore, come ben raffigurato dalla sequenza del prefinale, in cui Cook tenta la carta del ricongiungimento tragico-mortifero (nel senso del teatro greco) della coppia Jack-Shelley, con Jack tramutato in una sorta di improbabile, impresentabile Medea al maschile, che non fugge follemente sul carro del Dio Sole, come nella tragedia di Euripide, ma s'inabissa nel liquame repellente di una terra che lo rifagocita. La vuotaggine dello script e della sua realizzazione filmica raggiungono poi l'acme assoluto nel finale, che forse vorrebbe rappresentare una sorta di rinascita mostruosa, per la precisione la ri-nascita di un freak come unica alternativa possibile ai danni provocati dall'uomo su una Natura che si vendica su di lui. 

Buone le intenzioni, ripeto, buoni gli spunti, ma drammaticamente fallimentare la loro realizzazione narrativo-filmica, sotto ogni profilo. "Septic Man": film da evitare quindi con ogni cura. 

Regia: Jesse Thomas Cook  Soggetto e Sceneggiatura: Tony Burgess Musiche: Nate Kreiswirth  Montaggio: Jesse Thomas Cook Cast: Jason David Brown, Molly Dunsworth, Julian Richings, Robert Maillet, Tim Burd, Stephen McHattie, Nicole G. Leier  Nazione: Canada  Produzione: Foresight Features. Durata:  83 min.