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domenica 20 gennaio 2013

The Collection, di Marcus Dunstan (2012)



Mentre si sta riprendendo in ospedale dalla terribile avventura capitatagli all'interno di un edificio dove si trovava in balia dello spietato serial killer detto "Il collezionista", Arkin viene rapito da un gruppo di mercenari al soldo del padre di Elena, a sua volta vittima del killer. L'uomo non lascia ad Arkin nessuna scelta: dovrà unirsi ai mercenari, introdursi nel covo del collezionista e liberare la figlia. Ma, una volta penetrati nel covo, il gruppo si troverà ad affrontare un nemico molto organizzato...

Film dalla sceneggiatura assolutamente improbabile e a mio avviso anche improponibile a qualsiasi produttore con un pò di sale in zucca, questo "The Collection", sequel stiracchiato e inutile di "The Collector" (2009), firmato ancora una volta di Marcus Dunstan, costruisce tutta la sua trama sulla location, una sorta di santuario del sadismo più estremo che trova la sua sede in un capannone industriale dismesso nella periferia di una anonima metropoli statunitense. All'interno di tale "santuario"  officia il sacerdote-collezionista, che si diverte a sezionare nei modi più chirurgicamente creativi i corpi (vivi o morti che siano) delle sue ignare vittime, collocandoli dipoi in grandi acquari di formalina illuminati da lampade che ne evidenziano le nuove forme artistiche imposte dalle sue macabre mani da scultore. La verità è che tutto il girato rasenta solo il grottesco, ammicca alla noiosa saga di "Saw-l'Enigmista", e si allontana sideralmente da qualsiasi effetto realmente perturbante. Siamo dalle parti di un banalissimo, scontatissimo torture-porn che fin dal suo incipit con la sequenza del massacro nella finta discoteca, autodemistifica ogni suo valore estetico, abdicando al facile "effetto trappola" che oggigiorno credo non interessi più nemmeno ai teenager americani più, e giustamente, interessati all'high-tech, all'ipod-touch e a Facebook, che non ad andare a vedere i soliti ingranaggi ossessivamente organizzati da questo killer dalla faccia ricoperta da una scialbissima maschera di cuoio. Ma, come accennavo più sopra, è decisamente lo script nel suo insieme a scoraggiare la visione, dal momento che dispiega una narrazione bolsa, prevedibile, antiquata e, soprattutto nel finale, risolta in modo semplicemente ridicolo (vedasi la sequenza della gabbia e della maniera assurda e illogicissima attraverso cui le vittime riescono ad aprire la loro prigione). In molte sequenze la pellicola è oltremodo lenta e montata in modo tale da opacizzare ulteriormente i rari momenti di azione e movimento. Dunstan condisce il tutto con le solite muffe spezie horror che ben conosciamo, quali ragni africani che camminano sulla faccia della protagonista che cerca vanamente di nascondersi; quadri di coleotteri appesi alle pareti buie; lampadine che si accendono a intermittenza; e naturalmente gambe e mani mozzate a vanvera di personaggi che non si meritano altro, considerata la loro assoluta mancanza di spessore e caratterizzazione. Da questo punto di vista il gruppetto di stolidi mercenari assoldati dal padre di Elena, sembrano marionette senz'anima e l'"eroismo" di Arkin possiede meno pathos del ben più appassionante gioco di Angry Birds. Sonoro, effetti speciali e make-up non forniscono nessuna sponda alla frana che gradualmente seppellisce qualsiasi buona intenzione di Dunstan, forse legato solo a ragioni economiche e di produzione che non a una qualche ispirazione artistica. Il dittico "The Collector" e "The Collection" si conclude infatti (con felicità somma dello spettatore) in un fuoco finale catartico e con le immagini al ralenty dei pompieri che cercano vanamente di estinguere le fiamme. "The Collection": decisamente sconsigliato e da dimenticare presto se sventuratamente lo si vedesse. 
Regia: Marcus Dunstan   Sceneggiatura: Marcus Dunstan, Patrick Melton  Fotografia: Sam McCurdy   Montaggio: Joseph M. Gonzalez, Kevin Greutert, Mark Stevens   Musiche: Charlie Clouser   Cast:  Josh Stewart, Emma Fitzpatrick, Christopher McDonald,Johanna Braddy, Daniel Sharman, Lee Teergesen, Randall Archer, Navi Rawat, Erin Way, Brandon Molale, Justin Mortelliti, Shannon Kene  Nazione: USA   Produzione: LD Entertainment, Fortress Feature  Durata: 82 min.   

lunedì 14 gennaio 2013

Cloud Atlas, di Andy Wachowski, Lana Wachowski e Tom Tykwer (2012)


Il Tempo, l'Umanità sono attraversati da un solo respiro, da una sola anima che connette il destino di ciascuno di noi, tra passato, presente, futuro e post-futuro. La Vita è un turbinio incessante di trasformazioni che fa diventare un assassino un eroe, e tutto è ispirato da una spinta al cambiamento, alla rivoluzione, alla crescita. Tutto è connesso.

"Cloud Atlas" è un film che comincia prima di vederlo e continua nella tua mente dopo che si è concluso. Genera pensieri, immagini e riflessioni che si sedimentano in te e proliferano accendendo luci e favorendo stimoli molto positivi. Si tratta di un film assai complesso e da vedere necessariamente attraverso uno sguardo non razionale, ma al contrario fruibile solo immergendosi emotivamente nella storia, con un atteggiamento sognante e con una attenzione fluttuante quale può caratterizzare, ad esempio, l'attenzione di uno psicoanalista durante una seduta analitica. La prima cosa che mi è infatti venuta in mente dopo la visione di questo film, indescrivibilmente bello e cinematograficamente potente quant'altri mai ne abbia visti finora, è che uno psicoanalista dovrebbe correre a vederlo, perché ci ritroverebbe senz'altro il tessuto di cui è fatta una seduta di psicoanalisi, cioè il cuore del suo quotidiano lavoro. Se infatti ci si accosta a "Cloud Atlas" pensando di seguire una storia lineare, un discorso cioè normalmente "cosciente" come accade in qualsiasi altro film, si rimane immediatamente inebetiti e spiazzati, perché il film è costruito appositamente in modo da destrutturare la nostra attenzione e il nostro pensiero cosciente.  


Siamo infatti di fronte a sei storie ambientante in epoche differenti e in luoghi diversi e distanti tra loro (Stati Uniti, poi brigantino in navigazione,1849; Cambridge, 1936; New York,1972; Londra 2012; Seul, 2144; Pianeta sconosciuto, epoca iper-futura). Risulta francamente faticoso tenere mentalmente le fila di ciò che ci viene raccontato di volta in volta all'interno di ciascuna storia, dal momento che il montaggio a incastri lenti e successivi ci obbliga a un'attesa e a un differimento delle nostre consuete aspettative: bisogna seguire sei movimenti narrativi diversi, ma legati da rimandi che connettono una storia con l'altra mediante dettagli infinitesimali (una lettera scritta a mano, un tatuaggio raffigurante una piccola stella cometa, le note di una sinfonia), per ben 172 minuti, e arrivare fino alla fine perché si possa generare in noi un quadro d'insieme sensato e significante. Prima che ciò avvenga è la nostra mente che deve faticosamente mettere in atto un lavoro di integrazione visivo-semantica immane. Proprio questo "lavoro" costituisce tuttavia l'elemento assolutamente geniale del film, elemento che si fonda su una sceneggiatura da premio Nobel per la Fisica Quantistica, più che da Oscar per il Miglior Film. Ma mi sembra dunque il caso di prendere in esame, per punti, e separatamente le varie componenti di questo oggetto complesso, di questa esperienza emotivo-sensoriale che porta il titolo di "Cloud Atlas":
1. Sceneggiatura: come dicevo lo script sembra uscito dalle menti di tre fisici quantistici, intanto perché mette subito in discussione l'unità drammaturgica aristotelica classica dell'unità di tempo e di spazio del racconto, descrivendo invece una simultaneità di azioni che avvengono in tempi e spazi diversi, abolendo le nostre certezze percettive acquisite e le nostre consuete capacità emotivo-cognitive di significazione. Oltre a questo non banale elemento, la sceneggiatura accosta generi cinematografici diversi: genere storico (la segregazione razziale negli Stati Uniti pre-Lincoln); genere fantascientifico (la Seul, rinominata Neo-Seul del 2144, con tanto di replicanti passivi e a loro volta segregati in una città che in brevi sequenze riesce a ricordarci di sfuggita anche "Blade Runner", e certamente "Matrix"); genere spy-story (le vicende americane relative allo spionaggio industriale-nucleare ambientate nel 1972, con tanto di inseguimenti e sparatorie che rimandano al mito di James Bond); genere comico-comedy (la storia del vecchio Cavendish e dei suoi anziani amici che fuggono rocambolescamente dall'ospizio in cui sono relegati, con quella sopraffina sequenza del pub che strizza l'occhio al "Trainspotting" di Danny Boyle); genere drammatico-sociologico (la storia del compositore omosessuale Robert Frobisher, ambientata a Cambridge, nel 1936); genere post-apocalittico (la storia che lega poi tutte le storie, ma lo capiamo solo alla fine, quando Tom Hanks nelle vesti del vecchio Zachry, racconta ai nipotini la storia -o tutte le storie?- che stiamo vedendo). La sceneggiatura è perfettamente organizzata, musicalmente orchestrata, perché riesce ad amalgamare armoniosamente questa grande mole narrativa che si dispiega lungo filoni così diversi, eccentrici, eclettici. La scrittura filmica dei Wachowski e di Tykwer sembra appunto più una partitura musicale che una "scrittura" in senso letterario, oppure una coreografia nella quale ogni sequenza è un ballerino sul palcoscenico che "danza" la sua parte in perfetta evoluzione individuale nel contesto dell'evoluzione generale dell'opera. L'aspetto forse più incredibile di questo lavoro sullo script risiede nel fatto che le varie sequenze storiche ci vengono mostrate secondo un ritmo niente affatto regolare, ma secondo uno schema liberissimo che vede alcune sequenze molto più insistite e raccontate di altre. Nonostante ciò, l'intera architettura narrativa si mantiene saldamente in piedi e con un effetto di ascensione da cattedrale gotica. 
2. Regia: movimenti di macchina fluidi, sicuri, non dispersivi, evidenzianti ciò che i registi desiderano sottolineare di più dello script; primi piani intensi di tutti gli attori protagonisti (sopratutto quelli di Doona Bae-Sonmi, Tom Hanks-Zachry, Jim Broadbent-Cavendish). Sequenze d'azione nell'ambientazione fantascientifica magistrali, ben condotte, ben gestite nelle tempistica e nell'effetto di intrattenimento. Inquadrature raffinatissime, luminose ed evocative (vedasi la stanza di Neo-Seul in cui si rifugiano i ribelli Sonmi-451 e Hae-Joo Chang con quei fiori di ciliegio virtuali che volano lentamente scivolando sulle pareti). Uso delle voci fuori campo molto appropriato, anche e soprattutto quando propone riflessioni al limite del filosofico ("ogni crimine e ogni gentilezza concorrono a determinare il nostro futuro"), senza però mai risultare stucchevoli. Gestione di un cast vastissimo con mano sempre salda, attenta a ciascuna differente caratterizzazione. Il gioco di squadra con il resto della crew è poi evidentemente la colonna portante di questo  film, che oltre ai tre registi-sceneggiatori, si regge sulle solidissime spalle di un Alexander Berner, al quale dovrebbe essere dato un premio per un montaggio che, da solo, rappresenta un'opera d'arte. Se vogliamo sintetizzare (ma è molto difficile), Lana ed Andy Wachowski, insieme Tom Tykwer, vanno molto aldilà della trilogia di "Matrix" (1999 e 2003), creano cioè, non solo un nuovo modo di fare cinema, ma anche un nuovo tipo di sguardo o di modalità percettiva nello spettatore, pur rimanendo all'interno di un "racconto", di una "fiaba", come sottolinea la sequenza finale in cui il nonno Zachry si accomiata dai bambini-spettatori che lo ascoltano. 
3. Cast: tutti gli attori sono ispiratissimi, molto intensi e sempre adeguati al personaggio che incarnano, pur nelle loro differentissime declinazioni. Possiamo dire che nessuno di loro è però un "eroe", un "salvatore del mondo". Anzi, in alcuni casi la loro caratterizzazione (che fa il paio con il trucco) tende ad un'autoironia che stempera il pathos del racconto rendendolo lieve  e godibile (il vecchio Cavendish è un esempio mirabile in tal senso). Menzione particolare a Doona Bae, una replicante ribelle dalle fattezze asiatiche, memorabile nel rappresentare, nella sua semplicità quasi banale, il messaggio di "verità rivoluzionaria" di cui si fa portatrice. Ottima la scelta di casting in tal senso, che rende "semplice", molto umano, il desiderio di riscatto, di cambiamento rispetto all'"oppressore", a qualsivoglia epoca o etnia esso appartenga. Grandioso anche Tom Hanks, irriconoscibile nei vari personaggi che impersona (Zachry, il Dr. Henry Goose, Isaac Sachs, Dermot Hoggins, il Direttore dell'Hotel). Sì, perché un' ulteriore profondità prospettica che il film ci consente, è costituita dal fatto che ciascun attore e copresente in tutte le sei storie, impersonando personaggi diversi (sì, perché, anche da questa prospettiva "tutto è connesso". 

Il "mondo", la Vita, la "Storia" si sviluppano e crescono  secondo imperscrutabili linee di tendenza che sono tuttavia legate tra di loro dalle decisioni soggettive dei singoli. Tutti noi dipendiamo dagli altri. Tutto è quindi "relativo", ma non "anarchico". Esiste una "logica", un "principio organizzatore" degli affetti e delle relazioni umane, ma non è un principio così lineare  come noi saremmo portati a vederlo. I nostri limiti, le nostre convenzioni, le nostre difese, spesso ci impediscono di andare oltre, di vedere quei legami precedenti ed ulteriori che creano il senso della vita. Liberarsi da questi limiti che impediscono la crescita spirituale dell'individuo, così come dell'intera umanità, per fondare una nuova coscienza umana che coltivi un'investimento positivo verso il futuro e quindi una speranza, è il messaggio centrale del film. Ma liberarsi da limiti e convenzioni per spingersi verso il futuro, tenendo a bada le spinte distruttive ed egoistiche è molto difficile, è una lotta. Per abbattere bastioni, pregiudizi mentali e miopie occorre però, ci segnalano i Wachowski, che noi costruiamo prima uno spazio rappresentativo, un progetto, un'idea di futuro, un contenitore rappresentativo, figurativo, nel quale poter collocare i nostri desideri, le nostre speranze. "Cloud Atlas": film terapeutico, spiritualmente nutritivo che fonda una nuova mitopoiesi cinematografica, che non esieterei a definire "omerica". Correte tutti a vederlo (o forse l'avete già visto senza saperlo, perché "everything is connected"?).
  
Regia: Andy Wachowski, Lana Wachowski, Tom Tykwer  Soggetto e Sceneggiatura:    Andy Wachowski, Lana Wachowski, Tom Tykwer (da un romanzo di David Mitchell) Fotografia: Frank Griebe, John Toll  Montaggio: Alexander Berner  Musiche: Reinhold Heil, Johnny Klimek, Tom Tykwer  Cast: Tom Hanks, Hugo Weaving, Ben Whishaw, Halle Berry, Jim Sturgess, Susan Sarandon, Hugh Grant, Jim Broadbent, Keith David, James D'Arcy, Zhu Zhu, Gotz Otto, Xun Zhou, Doona Bae, Alistair Petrie  Nazione: Germania, USA, Hong Kong, Singapore Produzione:  Cloud Atlas Productions, X-Filme Creative Pool, Anarchos Pictures, Ascension Pictures, Five Drops, Media Asia Group  Durata: 172 min.  


martedì 8 gennaio 2013

John Dies at the End, di Don Coscarelli (2012)


La Soy Sauce è una nuova potentissima droga in grado di rendere visibili creature provenienti da altri mondi. Molti suoi consumatori tornano tuttavia dai "viaggi" completamente cambianti e con sembianze niente affatto umane. Alieni minacciosi stanno infatti utilizzando i corpi dei giovani ragazzi tossici come veicolo per invadere la terra. Solo due giovani nerd sembrerebbero gli unici in grado di salvare le sorti dell'umanità...

Il nuovo film di Don Coscarelli ("Phantasm", 1979, "Bubba Ho-Tep", 2002) è denso di simbolismi, metafore, dadaismi, invenzioni e creature degne di un Salvador Dalì cinematografico quale mostra di essere nel dipingere (più che filmare) questo prodotto molto onirico e assai poco - strettamente - cinematografico. Qual'è la differenza tra un film e un sogno? Già, bella domanda. O tra un film e un incubo, sarebbe meglio chiedersi. Ma, d'altra parte: qual'è la differenza tra un sogno e un incubo? Queste, e altre domande mi ha stimolato "John Dies at the End", pellicola molto attesa con la quale apro con contentezza il nuovo anno di recensioni. Dico con contentezza perché Coscarelli ci stupisce davvero, anche con effetti speciali, ma soprattutto con una storia cui dovrebbe esser dato un premio solo per la sceneggiatura, un dipinto, come dicevo all'inizio, più che una "scrittura filmica", fatto di pennellate evocative che sfumano i loro contorni da un'immagine all'altra, creando arcobaleni gocciolanti che diventano mostri alieni ragnosi e imputriditi, per poi trasformarsi in maschere grottesche alla Max Ernst. La storia in sè non interessa a Coscarelli, che forse è ispirato da un Borroughs, da un Lovecraft, ha letto il libro omonimo di Wong da cui trae la sceneggiatura, ma poi si differenzia da queste ispirazioni perturbanti-letterarie lanciandosi nel reef del suo immaginario inconscio portandosi dietro gli spettatori tutti all'inseguimento. In questo tuffo acrobatico-virtuosistico lo aiuta senza dubbio la fotografia vellutata e tersissima di Mike Gioulakis, seconda musa tutelare essenziale di questo film, senza il quale, forse, il film non avrebbe reso come sa rendere. Ci troviamo nella provincia statunitense, in compagnia di due amici trentenni, Dave ( Chase Williamson) e John (Rob Mayes). John si imbatte in un gruppo di giovani ad uno sconclusionato concerto di un gruppo di provincia, e durante tale evento viene introdotto all'uso di una strana droga, la Soy Sauce, nera, petroleosa e improbabile sostanza iniettabile. Dave annusa l'imbroglio cosmico e rifiuta di assumerla, ma per sbaglio si punge con una siringa di John, e scopre così che gli alieni usano i corpi degli inetti umani per invadere la terra. Il film è un fuoco d'artificio semidelirante, deliberatamente autoironico in alcune sequenze (come quella in cui la maniglia di una porta si trasforma in un grosso pene), a tratti difficilmente comprensibile nei suoi sviluppi e nelle sue contorsioni nelle quali domina sempre la visionarietà di un regista che se ne frega bellamente di tutti gli stilemi drammaturgici perturbanti e horror. Coscarelli cucina con la sua fantasia allo stato puro, mescolando ingredienti e provando nuove salse in un turbinio continuo di espedienti e inquadrature che non stancano mai, nonostante i 99 minuti di pellicola. Forse alcuni dialoghi avrebbero potuto essere in verità debitamente accorciati, e poteva forse avere una funzione più pregnante anche la cornice narrativa del drugstore nel quale Dave racconta la sua incredibile storia a un ambiguo giornalista, un Paul Giamatti dannatamente sornione, come lo Stregatto di Alice. Eccola qui d'altronde  l'associazione giusta: "John Dies at The End" è la versione maschile (omosessuale?) di "Alice in wonderland" di Lewis Carrol, una specie di "giorno del non-compleanno" del sottogenere a noi caro, dove tutto può accadere. Notevolissimo l'incipit, che introduce alla sottotrama onirica profonda del film, con quella distesa bianca dove il sangue  gocciala nella neve, come in quel famoso racconto di Marquez il cui titolo adesso non ricordo. Nonostante la storia sia una specie di trattato della Teoria della Complessità, cioè uno sfolgorio incessante di strani animali da bestiario medieval-tecnologico in continua, proteiforme mutazione (meravigliose le pasticche nere che si trasformano in mosche), Coscarelli gira comunque il tutto con mano salda, sicura, in certi momenti anche con un manierismo degno del Jonthan Demme  de "Il silenzio degli innocenti" (1991) (vedansi i piani medi dell'interno del drugstore, con quel dipinto neobaroccheggiante che sta alle spalle di Williamson e Giamatti mentre parlano seduti al tavolo). Non dobbiamo certo nasconderci che "John Dies at the End" è un film difficile, sicuramente astruso per certi palati abituati ai soliti plot horror, così rassicuranti nella loro cornice di inquietudini costruite a tavolino dai sempiterni Michael Bay and company. Qui siamo su un altro pianeta, insieme ad Alice, appunto, col Cappellaio Matto, lo Stregatto e altro ancora, senza che ci vengano tuttavia risparmiate scene gore e pennellatine alla Lynch (come la protesi alla mano della giovane Amy). Come può mancare, in questo contesto "il portale" verso un altrove alieno? Lo troverete, naturalmente, ma naturalmente uguale e insieme diverso da come ve lo aspettereste. "John Dies at The End": oggetto molto bizzarro e proprio per questo da vedere e studiare con attenzione e cura. 
Regia: Don Coscarelli Soggetto e Sceneggiatura: Don Coscarelli, David Wong   Fotografia:  Mike Gioulakis  Montaggio:  Donald Milne, Don Coscarelli  Musiche: Brian Tyler   Cast: Chase Williamson, Rob Mayes, Paul Giamatti, Clancy Brown, Glynn Turman, Doug Jones, Daniel Roebuck, Fabianne Therese, Allison Weissman   Nazione: USA   Produzione: M3 Alliance, M3 Creative, Midnight Alliance   Durata: 99 min.

martedì 1 gennaio 2013

Film (perturbanti) futuri a venire

 


Torniamo a noi, oggi che è il primo giorno del neonato 2013, al nostro beneamato Cinema Perturbante, e ai suoi paraggi limitrofi, in particolare ai film che ci aspettano, da visionare e recensire, il prossimo anno. Quella che segue è naturalmente una lista provvisoria, utile per i palati più vari, e aggiornata a questi ultimi giorni di riposo prima di ricominciare il lavoro il 7 gennaio. E' quindi possibilissimo che verranno in seguito altre segnalazioni, note a piè pagina, indicazioni, trailer eccetera eccetera. Cominciamo dunque: buona lettura, buona visione dei trailer e Buon 2013 a tutti!




- The Collection, di Marcus Dunstan (2012): 
mentre si sta riprendendo, in ospedale, dagli eventi traumatici che lo hanno recentemente sconvolto, Arkin viene rapito da un gruppo di mercenari al soldo del padre di Elena, che lo vuole convincere ad unirsi al gruppo per andare a riprendersi Elena stessa, catturata dal serial killer detto "Il Collezionista". Una volta nel covo del killer, Arkin e gli altri troveranno solo brutte sorprese. Sembrerebbe a prima vista la solita minestra riscaldata di "Saw" (il regista è infatti lo sceneggiatore di IV, VI e VII), ma sia la trama, sia alcune recensioni, sia il trailer fanno ben sperare in un relativo rinnovamento del genere. 





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- Aftershock, di Nicolàs Lòpez (2012):
in giro si parla molto bene di questo film, scritto e interpretato dal famigerato Eli Roth, ma diretto fortunatamente non da lui. Film per stomaci forti, si dice, ma noi lo aspettiamo soprattutto per valutare la componente psicologica degli effetti traumatici derivanti dallo shock del "terrae motus". Ambientato in Cile, poi, location interessantissima (ci sono stato e, vi assicuro, è un paese bellissimo). Il trailer lo trovo molto suggestivo. Vedete un pò voi.




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- John dies at the end, di Don Coscarelli (2012): 
dopo circa dieci anni Don Coscarelli torna dietro la cinepresa con questo horror-pop di cui si dice assai bene e che non possiamo perderci. Il trailer ci mostra molte cose, cioè una specie di fricassea horror con mosche assassine e insettoni simil-alieni inquietanti. A prima vista a me il trailer ha fatto venire in mente più che altro "Man in Black 3" (che non mi è neanche dispiaciuto, vi dirò tra parentesi) in versione splatteriforme, ma, ripeto, sembra comunque ben quotato. Vedremo. 




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- Frankenweenie, di Tim Burton (2012):
è vero, il vecchio Tim ci ha stufato con le sue immagini halloweeniane ormai ridotte a caricatura di se stesse, ma questo "Frankenweenie" ha una trama interessante, che parodizza con semplicità e gusto il mito di Frankenstein spostandolo nel mondo dell'infanzia. Ho deciso di vederlo, per dare ancora una chance a Tim. L'ultima, lo giuro. 




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- Django Unchained, di Quentin Tarantino (2012):
scritto e diretto da quel furbone di Quentin Tarantino, "Django Unchained" è a mio avviso un film da non perdere, prima di tutto perché vede il ritorno di Tarantino alla regia di un film tutto suo, in secondo luogo perché il nostro è uno che, quando vuole, sa girare cose possenti. Il trailer è assai possente già di suo infatti: guardarlo per credere. Tarantino affronta il tema western in modo sembrerebbe assai innovativo, una specie di "pulp-western", con una spruzzatina di splatter, nuovo genere che forse lui stesso fonda con questo suo nuovo film, scoppiettante, audace, senza peli sulla lingua. 





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- The Bunny Game, di Adam Rehmeier (2012):
il film, proiettato il giorno di Natale nel circuito d'essai di Minema (alla Marselleria di Milano, Porta Romana, Via Paullo 12A), lo segnalo semplicemente per motivi di onestà informativa. Osannato dalla critica più intellettuale (o intellettualoide?), "The Bunny Game" viene descritto da chi l'ha visionato come "oggettivamente massacrante" al punto che la BBFC, cioè la Censura del Regno Unito, in tutta la sua storia ha bandito completamente dalle sale solo 13 film, e questo è uno di loro. Racconta la storia di una prostituta cocainomane rapita da un camionista sadico. Il resto lo si può immaginare. Film davvero, e comunque incredibile, soprattutto perché racconta fatti realmente accaduti alla protagonista, Rodleen Getsic, musa ispiratrice e promotrice di questo pesantissimo e traumatico progetto cinematografico. Evito quindi accuratamente di apporre qui il trailer, un vero mattone nello stomaco, che ciascuno può andarsi a cercare su YouTube. Se il trailer è per stomaci fortissimi, figuriamoci il film che consta di ben 76 minuti! 


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- The Apparition, di Todd Lincoln (2011):
uscito da noi ufficialmente il 4 ottobre 2012, non è stato molto considerato e non ne ho nemmeno letto molto bene, in verità. Tuttavia lo metto nella lista dei film perturbanti per il mio 2013, poiché sentivo mancare all'appello una ghost story, e questo "The Apparition" parla proprio di questo. La storia è quella solita della risaputa haunted house con la coppietta terrorizzata da entità paranormali. Il trailer però è accattivante: vi farò sapere un parere circa la visione del film in sé. 





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- Mama, di Andrés Muschietti (2013):
nato sotto l'egida di Guillermo Del Toro, e già segnalato da queste parti attraverso uno dei suoi primi teaser trailer, il film racconta la storia di Annabel e Lucas, che devono affrontare l'arduo compito di allevare le loro piccole nipotine abbandonate per 5 anni in un bosco. Il tema è quello russeauiano del "ragazzo selvaggio", ma naturalmente in salsa horror. Se dietro a questa idea c'è poi Del Toro, come si fa a non dargli più di una chance?





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- Hansel and Gretel: Witch Hunters, di Tommy Wirkola (2013):
dalla classica fiaba riportata dai Fratelli Grimm, arriva nelle sale (anche italiane) questo film che si prospetta come molto succoso dal punto di vista dell'azione così come da quello dell'evocazione: Hansel e Gretel qui infatti sono cresciuti, e l'esperienza infantile di abbandono nel bosco ha reso ancora più solido il loro legame fraterno. Adesso fanno i Cacciatori di Streghe. Grande spettacolo, certamente molto easy e poco impegnativo, ma ogni tanto ci vuole, soprattutto se pesca nell'immaginario fiabesco di ogni epoca. Da vedere assolutamente.