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martedì 30 luglio 2013

Pausa estiva musicale

Avendo già fatto ben due settimane di ferie, più una a Pasqua, il blog questo agosto non andrà in vacanza. Ma io sì, naturalmente, quindi il ritmo dei post probabilmente risulterà più rallentato, poichè tutto si rallenta in agosto, per fortuna. Allo scopo di creare questa atmosfera di rarefazione estiva, ulteriormente promossa dal caldo torrido di questi giorni, propongo questa canzone molto recente di Carla Bruni, che spero introduca i miei lettori al clima di pausa in cui stiamo finalmente (spero) entrando. Così, Buona Estate.

sabato 20 luglio 2013

V/H/S 2, di Simon Barrett, Adam Wingard et al. (2013)



Due giovani investigatori privati che stanno indagando sulla scomparsa di uno studente universitario, riescono a trovare l'appartamento in cui vive. All'interno dell'abitazione scoprono una serie di videocassette VHS molto particolari. I video mostrano infatti contenuti terrificanti, che fanno pensare che la scomparsa del giovane studente sia collegata ai terribili fatti mostrati dalle videocassette...

Il primo "V/H/S" era stato un esempio importante di avanguardia cinematografica in campo Perturbante. Il Collettivo di registi (tra cui anche Ti West, non so se mi spiego) aveva prodotto un mocku a episodi che rinfrescava le sorti del genere e trasmetteva nuova passione. Personalmente mi attendevo che il secondo esperimento del Collettivo, che comprende adesso il Sanchez di "The Blair Witch Project" (1999) fosse in verità almeno sulla stessa linea del primo, cioè che fosse guidato dalla stessa ispirazione. Purtroppo non è così, sebbene il raccordo tra i vari episodi mostrati dalle videocassette nel film risulti più coerente e narrativamente sensato: i due investigatori che entrano nell'appartamento risultano cioè abbastanza credibili nella loro funzione di Io narrante impersonale. Sono tuttavia gli episodi stessi a non convincere, a parte forse l'ultimo, di cui parleremo fra breve. La presenza di Edùardo Sanchez nel Collettivo di registi sostenuti da Bloody Disgusting e Co., appare ad esempio sbiaditissima, con quella storia improbabile e inutilmente splatter degli zombie nel bosco dove un ignaro ciclista va a farsi un giro ("A Ride in the Park"). Dico inutilmente splatter perché certo l'uso del gore è qui intenso e anche interessante sotto vari profili, ma il genere mocku, si sa, tende ad assorbire notevolmente ogni altro effetto, a meno che non sia utilizzato da mani sopraffine (come quelle ad esempio di  Barry Lavinson in "The Bay" - 2013). In "The Bair Witch Project" Sanchez e Myrick avevano poi usato maggiormente l'atmosfera che la carne per colpire lo stomaco dello spettatore, evocandone i fantasmi, più che le budella, come accade invece nell'episodio diretto da un Sanchez che sembra qui più attratto dal concreto che dall'elemento emotivo-peturbante. Anche il primo episodio, "Phase I, Clinical Trials", diretto da Adam Wingard, perde tutto il suo pathos sovrannaturale quasi subito, cioè dopo che il protagonista si guarda allo specchio nello studio medico e ci mostra un occhio protesico a telecamera appena impiantato nel suo cranio. Il tema dell'allucinosico poteva essere trattato ben diversamente, ma ancora una volta la concitazione dei movimenti di macchina, tipica del mocku, ammazza sul nascere l'evocazione appiattendola su un "realismo" che in fin dei conti distrae e basta. "Safe Haven" di Gareth Evans e Timo Tjahjanto, diciamolo francamente, è una storia banale: abbiamo la solita setta con il padre-guru psicotico, i due giornalisti che vanno ad intervistarlo e la successiva catastrofe-carneficina demoniaca. Il tutto è però risolto con uno stile molto adolescenziale e alla Creepshow, soprattutto nella sequenza finale dove dominano visivamente le bave sanguinolente del protagonista morituro, sovrastato dall'orribile mostro che gli impartirà la sua zampata finale. Parte bene e mantiene un'atmosfera molto suggestiva "Slumber Party Alien Abduction", girato da Jason Eisener, che ci mostra la quotidianità solitaria di un gruppo di preadolescenti e adolescenti lasciati da soli in casa dai genitori partiti per il week-end: ottimo uso del realismo delle riprese, bravissimi i ragazzi scelti come attori, con quegli apparecchi ortodontici così simili a quelli dei vostri figli o dei vostri nipoti. Buona, in questo episodio, anche la fotografia accesa e rutilante al punto giusto nel descrivere i vari giocattoli, i palloncini dei gavettoni e quant'altro. La soluzione narrativa della storia, che chiama in causa addirittura un'invasione aliena, non può tuttavia che ricordarci la mitopoiesi classica della fantascienza statunitense, con in prima fila "E.T.", aldilà della bella sequenza dell'improvvisa e scioccante invasione all'interno del salotto di casa. Ciò che in verità colpisce di questa seconda prova del Collettivo è la presenza, in ogni episodio, del mostrum, lovecraftiano, o alla Victor Salva se preferiamo, un monstrum sottolineato e rimarcato fino alla nausea nella sua matrice estetico-perturbante statunitense. Un omaggio a tale filone del cinema horror d'oltreoceano? Una sottile nostalgia del vecchio horror di Tobe Hooper, con i suoi motel vicino alla palude, i suoi Creeper, i suoi Tall Men? Non sappiamo, ma l'effetto generale di "V/H/S 2" è proprio questo, e cioè un'operazione mossa dal desiderio di rinverdire i desertici terreni del Cinema Perturbante, attraverso uno sguardo mockumentaristico su tutta la materia. Il risultato è però scarso soprattutto perché a mio avviso, il genere mocku è difficilmente integrabile a quel quid di onirico e insieme di piacevolmente inquietante che costituisce la filigrana peculiare di certo cinema perturbante statunitense degli anni d'oro. Rimane interessante la volontà di sperimentazione gruppale di questi giovani registi, la cui dedizione alla materia certo non difetta, e che sarebbe così bello poter vedere anche dalle nostre parti. "V/H/S 2": deludente rispetto al primo episodio, tuttavia consigliato per chi desidera tastare il polso della creatività registica perturbante contemporanea in suolo nordamericano.   
Regia: Simon Barrett, Adam Wingard, Edùardo Sanchez, Gregg Hale, Timo Tjahjanto, Gareth Huw Evans, Jason Eisener  Soggetto e Sceneggiatura:Simon Barrett, Adam Wingard, Edùardo Sanchez, Gregg Hale, Timo Tjahjanto, Gareth Huw Evans, Jason Eisener      Fotografia: Tarin Anderson, Stephen Scott, Seamus Tierney, Jeff Wheaton   Cast: Adam Wingard, Lawrence Levine, L.C. Holt, Kelsy Abbott, Hanna Hughes, Devon Brookshire, Samantha Gracie   Nazione: USA, Canada, Indonesia  Produzione: Magnet, The Collective, Bloody Disgusting, 8383 Productions  Durata:  96 min.



lunedì 15 luglio 2013

Pacific Rim, di Guillermo del Toro (2013)


Il film racconta di come intere legioni di mostruose creature mutanti, denominate Kaiju, emerse dalle profondità dell'Oceano Pacifico, stiano mettendo in pericolo il nostro pianeta. Per combattere i selvaggi mostri sono stati ideati degli enormi robot chiamati Jaegers guidati da due piloti che comunicano tra loro mediante la connessione delle loro rispettive reti neurali. Ma persino gli Jaegers sembrano impotenti di fronte alla violenza degli attacchi da parte dei Kaiju. Sul confine della loro definitiva estinzione agli umani non resta che affidarsi a due poco affidabili eroi: uno scapestrato ex-pilota traumatizzato dalla morte del fratello durante uno scontro con uno dei mostri marini, e una allieva dall'animo emotivamente fragile. Saranno loro le ultime speranze del genere umano...

"Pacif Rim" è un film olimpico, mitologico in chiave moderna, nel quale Guillermo del Toro, o meglio il bambino che è in lui, sembra voler travasare tutta la fantasia preadolescenziale dell'umanità degli spettatori convenuti a guardarlo. Ma è soprattutto il preadolescente che alberga negli anfratti inconsci e preconsci del regista a muovere la macchina, i personaggi e i mostri sul set. A me sembra che questo sia il pregio maggiore di questo film così magniloquente e solo all'apparenza molto simile ad altri "robot movie" o cartoons che abbiamo visto fin qui (da Goldrake a Transformers - 2007). Fin dalle prime sequenze la pellicola si posiziona appunto sulla cima di un Olimpo storico-sociale molto improbabile, come molto improbabile è anche tutta la faccenda relativa alla "connessione neurale" dei due cervelli dei piloti che guidano dal loro interno i robot. Su questa improbabilità totale è centrata tuttavia tutta la potenza evocativa del film, che introduce e sviluppa quella che potremmo definire una grande metafora centripeta, una figura retorica che cioè cerca di fondere insieme due aree semantiche lontanissime: la concretissima tecnologia fantascientifica e la fragile, impalpabile soggettività dell'individuo. I due piloti guidano infatti dei robot d'acciaio e titanio, ma essi possono funzionare al meglio se i ricordi dei piloti scorrono fluidi e senza alcuna resistenza, dall'uno all'altro. Quest'ultimo sembrerebbe il particolare insignificante di un'altrettanto insignificante sceneggiatura da film estivo qualsiasi, invece Del Toro  rimane saldamente agganciato al suo (al nostro) immaginario infantile mostruoso-rutilante, e lo fa lavorare secondo le sue logiche non lineari, fregandosene bellamente di ogni raziocinio narrativo, e raggiungendo un risultato non paragonabile ad altre pellicole similari. Il risultato finale di questo lavoro è ovviamente un grande, grandioso divertissement assolutamente fine a se stesso, che al massimo ricorda il Godzilla/Gojira (1954) di Ishiro Honda, ma neanche ha la pretesa di rinfrescarne i fasti. Del Toro non ha qui alcuna pretesa in verità, se non quella di divertirsi e stupirci con effetti speciali. Desidera semplicemente far spalancare gli occhioni del bambino che è in noi, molto simile alla Mako bambina, con quel suo paletot azzurrino con le cuciture in evidenza, alle prese con il mostro che la rincorre per le strade della città deserta per mangiarsela. Anche tutto l'apparato pseudoscientifico che ci mostra gli encefali dei vari mostri Kaiju messi in formalina nei laboratori militari, appartengono alla stessa filigrana immaginifica, con quei gangli proboscidiformi che si appiccicano ai vetri delle teche in cui sono confinati. Queste immagini ci rimandano direttamente a quelle di Hellboy (2004), ma in "Pacific Rim" il tutto è trattato in modo ancor più proteiforme e mucillaginesco, in modo cioè cinematograficamente più libero, onirico e fantasticato, senza remore, attraverso l'utilizzo di una verve visiva completamente, e appositamente lanciata a briglia sciolta. Anche le caratterizzazioni dei personaggi, molto tarate sull'"eroico", cioè su uno stile pomposo americaneggiante con tanto di sacrificio umano da parte del comandante supremo, vanno in questa direzione, che può irritare certamente i più, sono messe in scena intenzionalmente, perché c'è un bambino che sta giocando, che sta leggendo un fumettone adrenalinico, mica un professore di filosofia di Berkeley, accidenti! "Pacific Rim" è dunque un'operazione totalmente ludico-libidinale e su questa linea rimane dal primo minuto all'ultimo di girato. Come pensare altrimenti un finale happy end come quello di questo film, finale preceduto da un prefinale sottomarino e abissale che allestisce lo scontro definitivo coi mostri in un modo all'apparenza così puerilmente hollywoodiano? Anche il tema del lutto di Becket (Charlie Hunnam) per il fratello ucciso durante lo scontro iniziale con un Kaiju, viene posto subito su uno sfondo temporale sfocato e ininfluente, là dove deve trionfare l'effetto speciale, il colore, la lotta, la sequenza con "il mostro in primo piano" (magistrale nell'ottica di questa estetica assolutamente ludica è la sequenza in cui si scopre che un Kaiju appena ucciso, porta dentro di sè un cucciolo che nascerà e combinerà subito pantagruelici danni). Del Toro in "Pacific Rim" decide di dedicarsi al piacere di girare un monster movie grosso, grasso e completamente sganciato da qualsiasi messaggio: è questa infatti la quintessenza del gioco in quanto tale. Provate a chiedere a un bambino perché gioca. Credo che vi risponderà, alzando le spalle: "perché di sì", ed è quanto basta a giustificarne il senso. Ma dobbiamo passare ora ad un aspetto che non mi ha completamente convinto di questo film. Del Toro ha grande libertà di mezzi e di movimento, ma allora perché non si (ci) intrattiene di più intorno alla figura del mostro? Perché non lo caratterizza con più cura, curiosità, come aveva fatto ad esempio nel memorabile Hellboy? E' vero che il regista vuole porsi agli antipodi di un film stile Alien (1979), e ciò è evidentissimo, ma il preadolescente che è in noi non è stupido, anzi al contrario è curioso e vuole guardare bene, ad esempio, come sono fatti i parassiti dei Kaiju, che gli vengono solo fugacemente mostrati. Vuole sezionarli per capirne il funzionamento, vuole vedere come sono i loro denti, così come gradirebbe cogliere sostanziali, polimorfe differenze tra i vari Kaiju. Allo stesso modo vorrebbe partecipare alla costruzione dei Jaegers, entrare nell'officina, cogliere bene come funzionano le giunture delle grosse gambe, annusarne l'odore d'olio e di titanio. Del Toro sembra invece timoroso di realizzare tali curiosità e sembra avere fretta di condurre avanti la storia per arrivare allo scontro finale, alla soluzione dell'enigma catastrofico cui tutta l'umanità sta partecipando. Mi sembra che in altri suoi film, come appunto il già citato Hellboy, Del Toro usi il tempo del racconto in modo più misurato e lento, allo scopo di prendersi cura proprio della curiosità creativa dello spettatore. In "Pacific Rim" il regista appare più distratto, proprio in un territorio in cui è molto, molto più libero di lavorare una materia tutta sua e che conosce molto bene, una contraddizione che non ho ben capito, in verità. In ogni caso il film è da vedere, certamente con bambini, soprattutto preadolescenti. Consigliato.
Regia: Guillermo del Toro Soggetto e Sceneggiatura: Travis Beacham, Guillermo del Toro Fotografia: Guillermo Navarro Cast: Charlie Hunnam, Diego Klattenhoff, Idris Elba, Rinko Kikuci, Charlie Day, Burn Gorman, Max Martini, Ron Perlman, Robert Kazinsky, Clifton Collins Jr., Brad William Henke, Larry Joe Campbell  Nazione: USA  Produzione: Warner Bros., Legendary Pictures  Durata: 132 min.   


sabato 6 luglio 2013

Ancora viva, di Carlene Thompson (2013)


Anno: 2013  Editore: Marcos Y Marcos Traduzione: Silvia Viganò  Pagine: 444  ISBN: 9788871686233    Euro:14,50 

Dov'è sparita la giovane Zoey, in quella strana, lontana sera dell'appuntamento al lago con un misterioso innamorato? Cosa si nasconde dietro le altrettanto misteriose sparizioni di altre ragazze di Black Willow in circostanze mai chiarite? E come mai Chyna Greer, ora che è tornata al suo paese dopo la morte della madre, continua a sentire la voce di Zoey, sua amica del cuore, che le chiede di aiutarla?


Dopo una pausa di vacanza abbastanza rigenerante, diamo il via a una serie di recensioni librarie, come si conviene approssimandosi l'estate. Mi ero approcciato a questo libro di Carlene Thompson, acclamata come nuova "regina del brivido", anche perché il suo nuovo romanzo "Ancora viva" era segnalato da varie fonti come molto particolare nonchè venato da un filone sovrannaturale piuttosto perturbante. A fronte di tali aspettative, non posso che giungere al termine del romanzo afflitto da cocente delusione. Sebbene la storia parta bene, con certe intense descrizioni dell'autunno nella cittadina statunitense di Black Willow, luogo attraversato da mille, lontane, adolescenziali malinconie, il racconto procede lentissimo, drasticamente rovinato da un'insistenza sui dialoghi che risulta alla fine solo irritante. Siamo dalle parti di un minimalismo americano che tuttavia viene solo scimiottato e mai risolto in modo originale: la Thompson non è certo Susan Minot e neppure Franzen. La scrittrice si limita a diluire una storia che vuole avere la presunzione di essere quella dell'omicidio seriale, dentro un brodo dialogico insulso e da telenovela, nel quale tutti parlano con tutti anche di sciocchezze qualsiasi, pur di aggiungere pagine al libro. Si vede poi lontano un miglio che ogni personaggio è costruito in modo scolastico e a tavolino, si pensi alla figura di Scott, pilota in congedo per aver causato un tragico incidente aereo nel quale sono morte molte persone, oppure al fratello di Chyna, Ned, tipico e banalissimo rappresentante della classe media-alta americana, dedito a passare le sue serate in famiglia a guardare le partite di baseball in tv. Ma sono in particolare le interazioni tra i personaggi sulla scena a non convincere nemmeno per un secondo, se si eccettuano le prime diciamo 50 pagine nelle quali la Thompson ci fa annusare la torta senza però poi mai sfornarla e lasciandoci così miserevolmente a bocca asciutta. L'esempio che segue può forse dare l'idea della inanità vanesia dei dialoghi. Si tratta di un incontro tra Rex, vecchio amico di famiglia e Chyna: 

"Credo sia stato il miglior barbecue del 4 luglio che abbiamo mai fatto qui. Tuo padre era tutto agitato per quell'ubriacone che palpeggiava le donne...". 
"Ron Larson". 
"Non ricordo il suo nome - solo che faceva il buffone . Sarei venuto alle mani con lui se tuo padre non si fosse intromesso e mi avesse fermato".
"Papà è sempre stato bravo a distendere le brutte situazioni".
Rex guardò di nuovo la foto. "Tu e la cara piccola Zoey. Dio, com'eri giovane. Non voglio dire che stai invecchiando in fretta - non ti darei mai ventott'anni - ma allora avevi ancora quello sguardo innocente".

Il libro è tutto così, mielosamente spalmato di belle parole quotidiane che esaltano la bellezza di Chyna, la sua bravura a scuola, l'affetto verso le sue amiche adolescenti, l'amore del suo cane Michelle verso di lei. Una melassa mortalmente indigesta, soprattutto per chi si attenderebbe, dietro l'angolo di ogni pagina, un qualche improvviso colpo di scena. I "colpi di scena" sono invece semplicemente dei brevissimi episodi in cui Chyna ha delle visioni o sarebbe meglio dire delle allucinazioni sensoriali: sente il freddo del cemento su cui è distesa una delle ultime vittime del rapitore-assassino; sente la voce in lontananza di una bambina che canta 'stella stellina, la notte si avvicina...', e così via. Non siamo attratti nè colpiti da alcuna situazione narrativa davvero perturbante, al contrario ci sembra di assistere ad un qualsiasi telefilm americano o meglio ad una situation comedy qualsiasi perché sciaguratamente abbiamo sbagliato canale mentre facevamo zapping. Già verso la metà del libro ti coglie una noia atroce e ti verrebbe volentieri voglia di buttar via il libro, ma la Thompson è subdola, e ti inietta piccole dosi di curiosità irrisolta, poiché vuoi pur sapere in fondo chi è l'assassino. Il problema anche qui è però che la rosa dei sospetti è assai ridotta: si tratta di tre uomini in tutto che possono essere papabili in questo senso. Il colpo di scena finale con la scoperta dell'identità dell'assassino, è costruito in modo semplicemente ridicolo ed è assolutamente inverosimile da qualsiasi punto di vista. Se un qualsiasi regista decidesse malauguratamente di usare questo libro come base di sceneggiatura per una sua trasposizione cinematografica, si condannerebbe di sicuro al disastro.  Insomma il mio consiglio è quello di non buttar via tempo e denaro con questo finto giallo estivo, ma piuttosto di utilizzare entrambe le risorse per dedicarsi a qualcosa di più impegnativo, per esempio l'ultimo libro di Cacciari, "Il potere che frena", Adelphi: e meno male che ci salva la filosofia.