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lunedì 29 agosto 2011

Uninhabited, di Bill Bennett (2010)


Harry e Beth vogliono un tipo diverso di vacanza. Lei è una biologa marina, così decidono di noleggiare una barca per  dirigersi su una remota isola sulla Grande Barriera Corallina. Paradiso? L'isola è idilliaca, circondata da una barriera larga, coperta di palme e ricca di uccelli e altri animali selvatici. E' piccola e completamente deserta. Dopo lo snorkelling, il sesso e il riposo, i due giovani innamorati presto cominciano a pensare che ci sia qualcun altro sull'isola, anche perchè scoprono impronte, che non sono le loro, sulla sabbia. In un primo momento l'esperienza sembra divertire Harry e Beth, ma gli eventi si fanno vieppiù  inquietanti. Dal paradiso, la vacanza sull'isola deserta si trasformerà per loro in un incubo.


"Sea, sex and sun": questa in sintesi la meta che si prefiggono Harry e Beth, giovane coppia  che si lascia alle spalle il continente rifugiandosi per dieci giorni su un'isola selvaggia e completamente disabitata. I due trentenni fanno ciò che è giusto e sano fare alla loro età (ma anche a qualsiasi altra età, basta che lo si voglia), e il regista Bill Bennett, la cui lunga carriera comincia nel lontano 1985 ("A Street to Die"), li sceglie mediante un casting saggiamente condotto. Lei è una Geraldine Hakewill che sa impersonare molto bene la fidanzatina seduttiva; liquida come una sirenetta, come si addice ad una giovane biologa marina, fa di tutto per stordire con effetti speciali erotico-soft il suo uomo. Lui è invece un Henry James che indossa perfettamente i panni del ragazzone di provincia che quasi non crede alla meraviglia di essere il fidanzato della "dottoressa", per giunta così ammaliante e carina. Bennett tuttavia ci fa assaporare velocemente questo edenico incipit, gettandoci subitamente nell'enigma delle impronte inspiegabili sulla sabbia. Non appena il marinaio trasporta i due piccioncini sull'isola per poi andarsene in modo spiccio, respiriamo immediatamente un sapore di mistero, evocato dagli sguardi preoccupati di Harry, che sente strani echi provenire dal bosco. I colpi di scena si susseguono da qui in poi con equilibrata scansione temporale, all'interno di una natura lussureggiante che non viene peraltro sottolineata con grande forza espressiva dal regista. E si tratta, ritengo, di una buona mossa, poichè appare chiaro che a Bennett interessa di più la storia, cioè non vuole girare l'ennesimo film sulla Natura Selvaggia come protagonista. A questo riguardo, nello svolgimento dello script, l'inserzione, a circa metà del minutaggio, dei due pescatori di frodo che approdano sull'isola, è ben congegnata poichè sposta decisamente il baricentro del nostro sguardo sulla narrazione, e non sull'immagine in quanto tale (o sull'effetto speciale spettacoloso-naturalistico). Colonna sonora e fotografia plasmano bene le atmosfere, sia diurne che notturne, e le rendono sottilmente inquietanti, così come perturbante giunge a noi l'apparizione del capanno di Coral, nel bosco. L'idea del capanno è originale, poichè è un "capanno che piange", cioè un luogo-fantasma, piccolo, prima vuoto, poi "arredato" di oggetti provenienti non si sa da dove. La sequenza del prefinale con Harry che trova il telefono satellitare che squilla nel capanno è in tal senso molto intensa e ispirata. La casupola contiene un diario, nel quale è raccontata la storia di Coral, che qui ovviamente non riporto per preservare la sorpresa a chi desidera vedere il film. Sciaguratamente i guai di questa pellicola cominciano proprio con la scoperta del "diario". Infatti tutto comincia a virare (troppo rapidamente) al soprannaturale, e così la psicologia dei personaggi, l'interazione tra Harry e Beth, il pathos psicologico, si decompongono e scivolano via nel mare, nonostante il buon climax tra prefinale finale. Certo, l'attenzione al "femminile", così importante per tutta la cinematografia mainstream australiana (vedi Jane Campion), attrae assolutamente l'interesse di Bennett, che da un certo punto di vista sembra voler parlare più di uno stupro che raccontarci una storia di fantasmi. Ma è appunto questa curiosa commistione ambigua tra  denuncia socio-culturale che tende al femministico, e horror-sovrannaturale puro, che opacizza a tratti la visione di un film che avrebbe potuto offrirci molto di più in fatto di "perturbante", anche pensando alla mano registica molto ispirata di Bennett (certe inquadrature del falò finale sulla spiaggia sono davvero degne della Campion di "The piano" -1993). "Uninhabited" è ad ogni modo una ulteriore dimostrazione che il cinema "australe" ha - da sempre- molte carte da giocare e possiede un suo fascino che non ci lascia certo indifferenti. Consigliato, seppur con qualche pacata ma decisa riserva. Regia: Bill Bennett Sceneggiatura: Bill Bennett Fotografia: Lachlan Milne Musica: Peter Miller Nazione: Australia Produzione: SC Films International, Screen Australia Durata: 93

martedì 23 agosto 2011

Good Neighbors, di Jacob Tierney (2010)



Victor è nuovo di Montreal e tenta di fare amicizia coi suoi due nuovi vicini di appartamento: Spencer, un giovane uomo invalido e costretto su una sedia a rotelle dopo un incidente stradale nel quale ha perso la vita sua moglie; e la ventenne Louise, che lavora in un ristorante cinese nel quale non entra mai nessun cliente. Louise ama i gatti e la sua dorata solitudine. Nel frattempo Montreal è terrorizzata da un misterioso serial killer che violenta e uccide giovani donne.


A dispetto delle entusiastiche recensioni della critica americana, "Good Neighbors" (giunto alla ribalta al Toronto International Film Festival nel 2010) è una noir-comedy intellettualoide e manierata fino allo stremo dello spettatore. Personalmente non capisco come fa ad esempio Chris Eggertsen di Bloody Disgusting a premiare un film così con ben 8 punti su 10. Incomprensibile. Eggertsen sostiene che la caratterizzazione psicologica dei tre personaggi (a parte Speedman che gli sta un pò antipatico) è magistrale, e che i colpi di scena sono architettati in modo sopraffino e spiazzante. La verità è (a mio modesto avviso) che il film è lentissimo, al punto che annoierebbe anche un bradipo affetto da narcolessia, e per di più è tensiogeno a un grado sottozero, da far venire nostalgia di una sana ventata di azoto liquido sulle ginocchia. Alle nostre ginocchia, invece, "Good Neghbors" fa venire solo il latte, dal momento che fino a circa due terzi di pellicola non accade nulla di nulla. Il tutto si apre con il trasloco di Victor (Jay Baruchel), maestro elementare nevrotico, timido e imbranato, che comincia ad entrare in contatto coi suoi due vicini, molto diversi da lui, ma forse per questo per lui interessanti. Se io avessi una vicina di casa come Louise, anonima ventenne che passa la sua vita dando da mangiare ai suoi amati quanto fastidiosi gatti, e che non dà segno di alcuna funzione neuronale attiva, nè tanto meno di un briciolo di sensualità femminile, personalmente mi limiterei a salutarla educatamente sulle scale. Invece Victor si incaponisce, secondo motivazioni di cui il regista ci tiene accuratamente all'oscuro, con questa "misteriosa vicina", fino a che ci andrà a letto insieme (col preservativo ovviamente, perchè va bene il contatto, ma la nevrosi ha ragioni che il cuore non può conoscere, ed è poi evidente che Louise non ci tiene neppure ad avere una vita sessuale sua, magari usando, che so, la pillola?). Spencer dovrebbe essere in lutto profondo: ha perso la moglie in un incidente stradale causato da lui. E' completamente paralizzato dalla cintola in giù e frequenta solo una anziana signora che gli fa inutili massaggi riabilitativi alle cosce. In tale tremenda posizione esistenziale cosa fa Spencer? Si dispera? No. Si riempie la casa di acquari e dà da mangiare ai pesci, oppure invita a cena Victor, Louise e altri amici, passando le sere dell'inverno canadese chiacchierando come un improbabile intellettuale liberal newyorkese. Come si vede, la sceneggiatura è molle come una prugna matura ad agosto inoltrato, e la caratterizzazione psicologica dei tre personaggi si colloca tra l'inverosimile e il semplicemente palloso. Se a quanto detto aggiungiamo una regia statica, che crea le sue forme mediante l'alternanza tra inquadrature fisse (il ristorante dai colori rossi in cui lavora Louise) e dissolvenze su porte, finestre e ambienti interni sempre uguali, ne deriva un prodotto artistico finale che stanca l'occhio, anzi lo congela in un freddo artico, altro che canadese. Certo, fotografia ottima, gusto del particolare molto raffinato, movimenti di macchina lenti e ampi, soprattutto quando riprendono le grandi cucine e gli spazi dei tre appartamenti. Ma il quadro non migliora comunque, aldilà dell'occhio da esteta fuori tempo di Tierney. I colpi di scena di cui parla Eggersten ci sono, è vero, ma sono bolliti e stracotti insieme alla lenta zuppa che ci viene propinata fino ad oltre metà pellicola. Tali colpi di scena sono poi letteralmente ammazzati da un finale che rappresenta a mio parere il contrario dell'intrattenimento, poichè ha la pretesa di risolvere l'intreccio capovolgendo in modo troppo artefatto la situazione di base, rendendo questo movimento di fatto assai poco convincente. "Good Neighbors": film che si può tranquillamente evitare, nonostante l'incenso che gli è stato gettato da più parti, negli States. Regia: Jacob Tierney Sceneggiatura: Jacob Tierney, Chrystine Brouillet Cast: Jay Baruchel, Scott Speedman, Emily Hampshire, Xavier Dolan, Gary Farmer, Kaniehttiio Horn, Jacob Tierney Nazione: Canada Produzione: Magnolia Pictures, Park Ex Pictures Durata: 99 min.


domenica 21 agosto 2011

Sesso, Morte e Super-Io, di Ronald Britton, 2004



Anno: 2003 Editore: Karnac Book Ldt, London. Tr. it. Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma, 2004 Traduzione: Gianni Baldaccini Pagine: 178  ISBN: 88-340-1450-2  Euro: 15,00.

"Sex, Death and Super-Ego" di Ronald Britton è un libro per psicoanalisti, o per chi pratica la psicoanalisi professionalmente in vari ambiti in cui tale disciplina trova uno spazio idoneo per essere applicata. Ero dunque indeciso se segnalarlo qui e scriverne una recensione, poi mi sono detto che un libro è un libro, e, dal momento che l'ho trovato molto interessante e mi è piaciuto, ho pensato che non vedevo il motivo di censurare il desiderio di scriverne per i lettori del mio blog. Partiamo col dire che Britton appartiene alla scuola psicoanalitica inglese dei post-kleiniani. Si è formato con personaggi illustri come Herbert Rosenfeld, Betty Joseph, Hanna Segal ed ha elaborato in modo originale il pensiero kleiniano, pensiero che, approfondendo l'insegnamento di Freud (soprattutto l'ultimo Freud, cioè gli sviluppi teorico-clinici freudiani successivi al 1921), si dirige verso l'attualità delle nuove patologie narcisistiche contemporanee. In questo libro Britton espone il suo punto di vista circa la formazione del Super-Io nei suoi intrecci con l'Io, concetto quanto mai complesso, quanto dimenticato anche dalla psicoanalisi contemporanea. Cosa vuol dire Io, soprattutto oggigiorno? Soprattutto all'interno del pensiero psicoanalitico, nel quale un intersoggettivismo totalizzante sembra aver ormai messo in ombra il tema dell'individualità e dell'intrapsichico in quanto tale? E' proprio vero -si chiede Britton- che "tutto è relazione", e che quindi il tema dell'Io è diventato ormai obsoleto? Partendo dal punto di riferimento imprescindibile di Freud, Britton si sposta rapidamente in territorio kleiniano, dialettizzando il fondativo rapporto tra Io e Ideale dell'Io (principalmente costituito dai genitori interiorizzati dall'Io dell'individuo) e ristudiando in termini molto moderni e convincenti l'idea di "scena primaria". Secondo Britton l'Io è una funzione che rimanda al contenimento psichico: "Se le funzioni dell'Io sono integre, l'individuo si sente contenuto in sè stesso" (pag. 84). Ciò significa che per Britton l'Io è una parte dell'apparato mentale in cui ha luogo l'integrazione/contenimento degli stimoli (interni ed esterni) cui l'individuo è continuamente sottoposto. Finalità precipua di tale processo "integrativo", è quella di creare uno spazio interiore, simbolico, mentale, che l'Autore definisce come "l'altra stanza". Un'"altra stanza" che è poi quella in cui avviene l'amplesso tra i genitori, ma che può essere appunto pensata, "collocata", integrata e tollerata, interiorimente, senza che si sviluppino angosce di esclusione o invidie intollerabili. Dall'Io Britton passa ad esaminare il concetto di Super-Io, sempre a partire da Freud, per poi procedere verso gli sviluppi kleiniani e bioniani. Il Super-Io è sempre collegato da Britton - come da Freud stesso- al tema dell'Ideale dell'Io costituito dai propri genitori interni. Interessantissima è l'analisi della sezione biblica dedicata al Libro di Giobbe, che mette in scena un Super-Io divino il quale mette alla prova la fedeltà di un Io sadicizzato e annichilito. L'analisi di Britton evidenzia che il Giobbe biblico risulta infine in grado di mettere i  discussione il suo Dio, cioè di non cedere comunque al sadismo intrinseco della parte maligna del Super-Io stesso, dis-identificandosi cioè dal Super-Io, pur non rinnegandolo, capacità importante per l'Io, secondo Britton, in grado di dargli forza e di aumentare le sue capacità esplorativo-conoscitive. La parte finale del libro è particolarmente interessante, sul piano psicoanalitico, poiché affronta il tema (oggigiorno molto attuale) del narcisismo, inteso come forma clinica molto diffusa e spesso confusa con altre patologie come quelle borderline. Sul piano diagnostico, lo psicoanalista inglese evidenzia due tipologie di paziente narcisista, uno con "la pelle spessa" (si tratta di individui prevalentemente schizoidi e anaffettivi, che tendono a tenere a distanza emotiva elevata l'analista, nella stanza dall'analisi), l'altro con la "pelle sottile" (che tende invece ad identificarsi in modo iper-dipendente con analista, riempiendo di sè come un "blob" senza confine la stanza analitica e la relazione terapeutica). Entrambi i pazienti fanno vivere all'analista esperienze controtransferali penose e di difficile elaborazione. Un'ultima parola sull'ultimo capitolo del libro, "Problemi narcisistici nella condivisione dello spazio", che ho trovato di grande potenza seggestiva e metaforica, ad esempio in questo suo paragone (cui spesso la mia mente era andata in modo associativo, anche prima di aver letto questo libro) tra l'analisi e la vita matrimoniale, situazione in cui la condivisione dello spazio fisico è anche (e prima ancora) condivisione di uno spazio psichico, che diventa poi appunto uno spazio fisico abitato dall'immaginario fantasmatico-emotivo interno dei due abitanti (moglie/marito-analista/paziente). Lo stile di Britton è asciutto, anglosassone, simile a quello del suo collega John Steiner, di cui segnalo il fondamentale volume "I Rifugi della mente" (1993). Ma questa "asciuttezza" non è sinonimo di restringimento, ma al contrario di ampliamento del pensiero e delle modalità di funzionamento del mondo interno e dell'Inconscio di ciascuno di noi.

mercoledì 17 agosto 2011

Nemesi, di Jo NesbØ, 2010.





Data di pubblicazione agosto 2010 Editore: Piemme, Milano Collana Paperback Adulti Serie Bestseller Rilegatura brossura con alette Formato 12.5x19 cm
Pagine 496  ISBN 978-88-566-1465-7

Quando era entrato nella casa di Anna Bethsen la sera prima, il commissario Harry Hole pensava che sarebbe stato per l’ultima volta. Invece, quella mattina, dopo essersi svegliato sul divano di casa sua, coperto dal cappotto e completamente intorpidito dall’alcol, viene chiamato per un nuovo caso. Giunto sulla scena del crimine, scopre che questa coincide con la casa della donna, dove tutto pare uguale alla sera precedente, se non fosse che ora Anna è distesa sul letto con una pistola nella mano.

Proseguiamo con qualche ulteriore recensione letteraria, prima di reimmergerci nel filmico, brodo di coltura preferito da queste parti. Però si sa che l'estate favorisce il tempo della lettura, e infatti di libri ne ho letti un pò, quest'anno, tra una zuppa di pesce e una partita a tennis. Il secondo romanzo di Jo NesbØ tradotto in Italia, "Nemesi", si merita decisamente un lungo applauso, dopo che siete arrivati fino all'ultima delle sue lunghe 496 pagine che non vi deluderanno mai, ma proprio mai. Anzi, sono pagine che sembrano spalmate di unguento moschicida e noi lettori siamo le mosche catturate dalla rete seducentemente vischiosa di NesbØ. La storia parte a razzo mediante una rapina in banca che finisce in tragedia con una delle cassiere uccise con un colpo di fucile. Il nostro eroe, l'agente Harry Hole entra subito in azione, allontanandosi temporaneamente dall'indagine che sta seguendo e che riguarda la morte della sua cara collega Ellen. Tutto il libro racconta questo "temporaneamente", cioè questo interim temporale che si chiude geometricamente nell'ultima pagina, dove riprende l'indagine riguardante Ellen, lasciandola comunque ancora in sospeso e costringendoci - giustamente- a leggere il romanzo successivo. Sì, perchè i romanzi di NesbØ non sono storie separate. Sono invece un unico grande romanzo suddiviso in libri diversi, forse solo perchè nessun editore pubblicherebbe un libro di tremila pagine, che sarebbe troppo pesante (fisicamente, intendo) anche per chi legge. Dicevamo che il libro parte a razzo e su quel razzo vi tiene saldamente legati, paragrafo dopo paragrafo, facendovi conoscere i lati oscuri di una Norvegia autunnale, piovosa, attraversata da loschissimi figuri della malavita che si infiltrano fino agli alti gradi della polizia, generando un intreccio davvero malignamente perverso che Hole avrà la maestria di sbrogliare, come solo lui sa fare. La scrittura di NesbØ è come al solito  condotta in modo ferreo, e insieme zigzagante, caprioleggiante a salti carpiati, rasentante l'inverosimile assoluto, ma non per questo meno convincente. Anzi, al contrario, le capriole isotopico-letterarie cui ci costringe il nostro ci appaiono tanto gustose quanto più barocche ci si presentano: vedi la morte di Anna, un vero capolavoro di logica thrillerosa quant'altre mai. Nel libro è poi raccontata la trasferta brasiliana di Hole insieme ad una giovane collega della sezione Antirapine, esperta nell'analisi di video a circuito chiuso, nuovo personaggio assai ben tratteggiato, denso di chiaroscuri psico-femminili molto sottili e ambigui. Hole, tornato ad Oslo sarà vittima dell'aggressione di un tremendo rottweiler, nonchè quasi arrestato perchè sospettato di omicidio, naturalmente allo scopo di incastrarlo. Inutile dire, che tra una birra e l'altra il nostro eroe si divincolerà magistralmente dalle trappole disseminate sul suo sentiero. Insomma, io credo che la fama che segue ormai da tempo NesbØ ovunque vada e qualsiasi cosa scriva, sia del tutto meritata, con buona pace degli invidiosi di cui è pieno il mondo. Almeno stando a questi due libri che ho letto, voglio dire. Ma mi è difficile pensare che uno che scrive come lui, possa avere un calo di ispirazione nelle storie successive, che mi sto accingendo a leggere, in questa metà di agosto così calda. La prossima sarà infatti (già da domani) "L'uomo di neve", continuazione di "Nemesi". Nella prossima recensione tuttavia, non temiate, non vi tedierò ancora con NesbØ, anche perchè vorrei spezzare un pò l'attenzione con stimoli variegati, e passerò così a parlarvi di un libro di psicoanalisi pura, molto serioso e "duro", che però mi è molto piaciuto. Il titolo non ve lo dico. Come al solito voglio sorprendervi.

martedì 16 agosto 2011

La cavalcata dei morti, di Fred Vargas (2011)


Anno: 2011 Editore: Einaudi, collana Stile Libero Big Traduzione: Margherita Botto Pagine: 432  ISBN: 9788806209759  Euro: 19,00


Durante una vacanza in Alsazia, anni fa con mia moglie, vagando con l'automobile attraverso la campagna francese, sconfinammo in Lorena alla ricerca di un ristorante che ispirasse le nostre papille. A un certo punto decidemmo di prendere una strada secondaria che si immergeva in un bosco e segnalava con cartelli di legno la presenza, per quanto capivamo, di una trattoria a conduzione familiare. Il nostro vagare fu ampiamente ricompensato dal ritrovamento del tutto causale e rabdomantico di un bellissimo castelletto seicentesco  entro il cui salone riposava un enorme camino di pietra. Sul fuoco del camino il proprietario del ristorante abbrustoliva grosse fette di pancetta, raccontando ai commensali storie di caccia e di cucina, e servendo poi, insieme al bacon, anche squisite quiche lorrain come non ne ho mai assaggiate in vita mia. Il pranzo terminava con una crostata di mirtilli del sottobosco circostante, accompagnata con panna. Naturalmente il tutto era impreziosito dal sapore intenso di un ottimo rosso alsaziano, che alla fine della libagione ci fece gradevolmente girare la testa. Ciò che soprattutto ci colpì di quell'ambiente era l'atmosfera di intima familiarità e informalita', rappresentata in particolare dal bacon abbrustolito sotto i nostri occhi al fuoco del grande camino di pietra. La lettura dell' ultimo romanzo di Fred Vargas, "La cavalcata dei morti", mi ha fatto lo stesso effetto, o meglio mi ha riportato alla mente quell'esperienza alsaziana, così nutriente, così arricchente, ed e' proprio per questo che ve l'ho raccontata qui per esteso, all'interno di una recensione a questo libro.  Passeggiando nel bosco maledetto di Bonneval, Normandia, insieme al commissario Adamsberg, sembra di sentire il sapore delle more che il commissario raccoglie lungo il suo cammino, per poi fermarsi ad assaporarle, seduto su un tronco muschioso. Chi ama la scrittura morbidosa e vellutata della Vargas, archeologa e medievalista francese, creatrice sublime del personaggio del commissario dell'Anticrimine Adamsberg, si delizierà qui come in un bagno caldo, ritrovando tutte le atmosfere e lo stile sognante che aveva incontrato negli altri romanzi. Non siamo di fronte alla potenza drammatica di un "Sotto i venti di Nettuno" (2005) , e neanche al fascino millenaristico-leggendario di "Nei boschi eterni" ( 2007, che e' a mio avviso il suo capolavoro). In "La cavalcata dei morti" Vargas sembra concedersi anche lei ( e lei con noi, obviously) una tranquilla passeggiata nella foresta, rispetto ad altri suoi romanzi adamsbergiani in cui il ritmo e la vitalità caotica degli ambienti descritti dominano con maggiore nerbo la scena narrativa. Si tratta di una tranquillità relativa, naturalmente, poiché nel corso del romanzo vengono fatte secche almeno quattro persone, nonché descritte le atrocità sadiche di un padre sui suoi tre figli piccoli, ma il libro rimane comunque godibilissimo dalla prima all'ultima pagina. L'incipit e le pagine di apertura subito successive, sono poi gustosissime perché aprono alcuni sotto-plot polizieschi minori, che hanno come protagonisti alcuni piccoli animali (due topini che mangiano mollica di pane, e un piccione, vittima di un vandalo che gli ha legato le zampe con la corda di uno yo-yo, di cui Zerk, il figlio ventottenne di Adamsberg si prenderà cura, dopo che il volatile sarà passato dalle mani amorevoli della tenente Retancourt). La caratterizzazione delle altre figure, gli abitanti della cittadina di Ordebec in Normandia, e' disegnata altresì con mano creativa e umanamente toccante: i tre fratelli, Vandermot, per esempio, costituiscono un affresco familiare dai colori selvatici, bizzarri e insieme poeticissimi, basti pensare al fatto che uno dei fratelli, Martin, passa le sue giornate a catturare insetti nel bosco per poi farne marmellate e patè che offre ai suoi ospiti inorriditi; oppure Lina, l'altra sorella, evocherà in Adamsberg il ricordo di un dolce dei Pirenei, un koglouf, reso morbido dal miele e guarnito di mandorle.  Come quasi tutti i romanzi della Vargas, le suggestioni storiche legate a leggende medievali, si intrecciano con la dura realtà di crimini perpetrati nel presente, e anche qui infatti ci viene descritta come sfondo la leggenda della "schiera selvaggia", masnada di guerrieri fantasma che cavalcano urlando scheletri di cavalli, guidati dal diabolico Sire di Hellequin, attraversando tutto il nord Europa. La storia e l'intreccio sono poi, come di consueto, molto ben congegnati e il colpo di scena finale, pur non essendo un fuoco d'artificio ferragostano, lascia comunque basiti e pensierosi al punto giusto. Una Vargas dunque leggermente in minore, rispetto ad altre sue opere precedenti, nelle quali appare più ispirata, ma in ogni caso da leggere assolutamente per rendere l'Estate più fresca e gradevole.