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lunedì 29 agosto 2011

Uninhabited, di Bill Bennett (2010)


Harry e Beth vogliono un tipo diverso di vacanza. Lei è una biologa marina, così decidono di noleggiare una barca per  dirigersi su una remota isola sulla Grande Barriera Corallina. Paradiso? L'isola è idilliaca, circondata da una barriera larga, coperta di palme e ricca di uccelli e altri animali selvatici. E' piccola e completamente deserta. Dopo lo snorkelling, il sesso e il riposo, i due giovani innamorati presto cominciano a pensare che ci sia qualcun altro sull'isola, anche perchè scoprono impronte, che non sono le loro, sulla sabbia. In un primo momento l'esperienza sembra divertire Harry e Beth, ma gli eventi si fanno vieppiù  inquietanti. Dal paradiso, la vacanza sull'isola deserta si trasformerà per loro in un incubo.


"Sea, sex and sun": questa in sintesi la meta che si prefiggono Harry e Beth, giovane coppia  che si lascia alle spalle il continente rifugiandosi per dieci giorni su un'isola selvaggia e completamente disabitata. I due trentenni fanno ciò che è giusto e sano fare alla loro età (ma anche a qualsiasi altra età, basta che lo si voglia), e il regista Bill Bennett, la cui lunga carriera comincia nel lontano 1985 ("A Street to Die"), li sceglie mediante un casting saggiamente condotto. Lei è una Geraldine Hakewill che sa impersonare molto bene la fidanzatina seduttiva; liquida come una sirenetta, come si addice ad una giovane biologa marina, fa di tutto per stordire con effetti speciali erotico-soft il suo uomo. Lui è invece un Henry James che indossa perfettamente i panni del ragazzone di provincia che quasi non crede alla meraviglia di essere il fidanzato della "dottoressa", per giunta così ammaliante e carina. Bennett tuttavia ci fa assaporare velocemente questo edenico incipit, gettandoci subitamente nell'enigma delle impronte inspiegabili sulla sabbia. Non appena il marinaio trasporta i due piccioncini sull'isola per poi andarsene in modo spiccio, respiriamo immediatamente un sapore di mistero, evocato dagli sguardi preoccupati di Harry, che sente strani echi provenire dal bosco. I colpi di scena si susseguono da qui in poi con equilibrata scansione temporale, all'interno di una natura lussureggiante che non viene peraltro sottolineata con grande forza espressiva dal regista. E si tratta, ritengo, di una buona mossa, poichè appare chiaro che a Bennett interessa di più la storia, cioè non vuole girare l'ennesimo film sulla Natura Selvaggia come protagonista. A questo riguardo, nello svolgimento dello script, l'inserzione, a circa metà del minutaggio, dei due pescatori di frodo che approdano sull'isola, è ben congegnata poichè sposta decisamente il baricentro del nostro sguardo sulla narrazione, e non sull'immagine in quanto tale (o sull'effetto speciale spettacoloso-naturalistico). Colonna sonora e fotografia plasmano bene le atmosfere, sia diurne che notturne, e le rendono sottilmente inquietanti, così come perturbante giunge a noi l'apparizione del capanno di Coral, nel bosco. L'idea del capanno è originale, poichè è un "capanno che piange", cioè un luogo-fantasma, piccolo, prima vuoto, poi "arredato" di oggetti provenienti non si sa da dove. La sequenza del prefinale con Harry che trova il telefono satellitare che squilla nel capanno è in tal senso molto intensa e ispirata. La casupola contiene un diario, nel quale è raccontata la storia di Coral, che qui ovviamente non riporto per preservare la sorpresa a chi desidera vedere il film. Sciaguratamente i guai di questa pellicola cominciano proprio con la scoperta del "diario". Infatti tutto comincia a virare (troppo rapidamente) al soprannaturale, e così la psicologia dei personaggi, l'interazione tra Harry e Beth, il pathos psicologico, si decompongono e scivolano via nel mare, nonostante il buon climax tra prefinale finale. Certo, l'attenzione al "femminile", così importante per tutta la cinematografia mainstream australiana (vedi Jane Campion), attrae assolutamente l'interesse di Bennett, che da un certo punto di vista sembra voler parlare più di uno stupro che raccontarci una storia di fantasmi. Ma è appunto questa curiosa commistione ambigua tra  denuncia socio-culturale che tende al femministico, e horror-sovrannaturale puro, che opacizza a tratti la visione di un film che avrebbe potuto offrirci molto di più in fatto di "perturbante", anche pensando alla mano registica molto ispirata di Bennett (certe inquadrature del falò finale sulla spiaggia sono davvero degne della Campion di "The piano" -1993). "Uninhabited" è ad ogni modo una ulteriore dimostrazione che il cinema "australe" ha - da sempre- molte carte da giocare e possiede un suo fascino che non ci lascia certo indifferenti. Consigliato, seppur con qualche pacata ma decisa riserva. Regia: Bill Bennett Sceneggiatura: Bill Bennett Fotografia: Lachlan Milne Musica: Peter Miller Nazione: Australia Produzione: SC Films International, Screen Australia Durata: 93

7 commenti:

  1. L'avevo notato ma non mi ha colpito, temevo scenari da cartolina ed effetto Lost. Ora ci faccio un pensierino. Complimenti per la scelta di film poco trattati. E per le belle recensioni, of course. Ti faccio linkare al più presto

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  2. @ Case: grazie. Inutile dire che seguo molto il tuo blog, sebbene commenti poco :)

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  3. Ecco. L' Australia è il paese dove andarsi a pescare gli horror migliori e più interessanti.
    Bellissima recensione, come sempre, molto approfondita e interessante.
    Lo recupero subito.

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  4. per vedere ed apprezzare il vero volto dell'Australia consiglio di vedere il grande lavoro di Herzog "Dove Sognano Le Formiche Verdi" sospeso a metà tra commedia onirica, dramma ecologico e rigoroso documentario. Anche "l'Ultima Onda" di Peter Weir è un film che merita la sua attenzione.
    Vero, i film horror australiani sono molto curati in tutti i loro aspetti. In particolare ci tengo a ricordare il capolavoro "Wolf Creek" di Mclean (già in "Rogue" si può notare il suo talento alla regia) e il bellissimo "The Loved Ones".
    Meriti artistici a parte, come ci mostrano vari film l'Australia è un posto magnifico sia territorialmente per la vastità e i cambiamenti dell'ambiente che culturalmente per la triste storia che conserva e che, con nostalgia e rassegnazione ci raccontano i pochi nativi rimasti.

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  5. Grazie waYne. I film di Herzog e di Weir che mi indichi non li ho visti e me li segno. "Wolf Creek" non mi era molto piaciuto, mentre "The Loved Ones" l'ho trovato notevole, come risulta anche dalla mia recensione in merito. Sì, poi l'Australia, credo che non possa che evocare grandi movimenti rappresentativi interiori ai registi che decidono di ambientarvi un film. Soprattutto se si tratta di registi autoctoni.

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