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venerdì 19 maggio 2017

Alien Covenant, di Ridley Scott (2017)


Nel flashback introduttivo Sir Peter Weyland, fondatore della Weyland Corporation, si rivolge ad un androide che entra a far parte della spedizione Prometheus. Weyland chiede all'androide di scegliere un nome per se stesso e lui sceglie 'David'.
Nel 2104 l'astronave USCSS Covenant, in missione di colonizzazione planetaria, è in viaggio verso il pianeta Origae-6 con a bordo oltre 2.000 coloni in stato di ipersonno. Una tempesta di neutrini colpisce l'astronave provocando ingenti danni e la morte di 47 coloni oltre a quella del capitano Branson. L'androide Walter si ritrova così costretto a svegliare l'equipaggio dal sonno criogenico.
Il primo ufficiale della Covenant, Chris Oram, assume il comando della missione. Mentre sta riparando l'astronave, l'equipaggio intercetta una trasmissione radio proveniente da un vicino pianeta e decide di indagare sulla sua provenienza.
Raggiunto il pianeta, Tennessee, Ricks e Upworth rimangono a bordo della Covenant in orbita nello spazio mentre il resto dell'equipaggio si dirige sul pianeta per esplorarlo. Essi si ritrovano su un pianeta verdeggiante privo però di forme di vita animali. Durante l'esplorazione, un membro della squadra di sicurezza, Ledward, calpesta piccoli baccelli neri, causando la fuoriuscita di alcune spore che penetrano nel suo orecchio senza che egli se ne accorga. Nel corso di ulteriori ricerche la squadra scopre il relitto di un'astronave precipitata e al suo interno trova una piastrina identificativa appartenuta ad una certa "Dr.ssa E.Shaw" nonché la fonte della trasmissione che hanno captato. Ledward inizia a sentirsi male e Karine lo riconduce alla navetta di sbarco. Karine lo porta con urgenza nell'infermeria della navicella. Dalla schiena di Ledward fuoriesce una mostruosa creatura aliena, il Neomo che aggredisce ed uccide Karine. Nel disperato tentativo di uccidere la creatura, il pilota della navetta Faris, spara accidentalmente a diversi serbatoi infiammabili collocati a bordo della nave, provocando così un'esplosione che la uccide e distrugge completamente la navetta. Il Neomorfo riesce però a fuggire. Nel frattempo Hallett, rimasto anch'esso infettato dalle spore, rimane ucciso quando dalla sua bocca fuoriesce un secondo Neomorfo...

Questa è una recensione che definirei necessaria ma non sufficiente: necessaria per il dato storico stesso dell’uscita in sala di un’opera di Ridley Scott, maestro indiscusso e indiscutibile, opera che riprende e continua la mitopoiesi di Alien, cominciata nel lontanissimo 1979. Non sufficiente per motivi intrinseci alla lunghezza media di una recensione, e per il suo stile, che non può che essere ahimè un po' tecnico, scarsamente emotivo. Questo film meriterebbe invece uno stile più poetico, letterario, meritando un “parlare come sognare”, se utilizziamo la nota frase dello psicoanalista americano Thomas H. Ogden. Infatti partirei col dire che “Alien Covenant” è un “sogno delle origini”, o meglio un sogno che Scott fa sull' “origine” intesa come operatore concettuale e culturale. Non solo cioè, origine dell’uomo, oppure origine del male eccetera, ma anche origine del Cinema, della visione, della capacità dell’uomo di sognare, cioè di “ri-vedere” e di rielaborare continuamente, poeticamente la propria vita. 

Una delle prime associazioni che mi sono venute in mente mentre ero in sala con mio figlio, mi ha rimandato infatti al libro di Philip Dick, “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, opera visionaria, che parla del rapporto tra robotica e un’umanità ormai perduta nella notte dei tempi, libro che è stato essenziale per la scrittura di “Blade Runner”. Dicevo che il dato che mi è parso essenziale di quest’ultimo film di Ridley Scott è il suo far convergere tutta la sua potenza sinfonica verso il tema delle origini, “sognando” le origini di quel primo Alien che abbiamo visto nel 1979. E’ un film che va visto almeno due volte, non ci si può accontentare di vederlo una volta sola e poi averne un quadro sufficientemente chiaro per poterlo valutare con tutta la serenità necessaria. Come una sinfonia, appunto, occorre farne esperienza -emotiva, sensoriale, cognitiva- adeguatamente immersiva, facendo sedimentare le sue molte suggestioni e facendole agire col tempo dentro di noi.

Tutto sommato la trama è semplicissima, riguarda l’esplorazione delle origini del mostro alieno invincibile, dal sangue fatto di acido che compare nel primo film della serie e contro cui Ripley-Sigourney Weaver si troverà a combattere per lunghi anni. Queste origini risiedono, aldilà delle varie forme di mutazione incontrate dal mostro sul suo cammino, principalmente in una fantasia inconscia di onnipotenza. C’è un qualcosa, da qualche parte, in un altrove sconosciuto – sembra volerci dire insistentemente Scott in questo suo ultimo film- che spinge verso la realizzazione di una fantasia di potere assoluto, incontrastato, famelico e onnivoro, un potere che desidera togliere di mezzo il senso del limite che caratterizza l’umano. Tale limite, heideggerianamente rappresentato dalla morte, esperienza che sottolinea continuamente la fragilità dell’uomo, lotta altrettanto continuamente con l’illusione dell’eternità, orizzonte non ancora conosciuto dall’uomo, ma, forse attingibile in un futuro robotico-tecnologico. “Alien Covenant” ruota intorno a questa idea, insieme fascinosa e terrificante: in fondo idea di derivazione faustiana, laddove Ridley Scott diventa il nostro attuale Goethe cinematografico a indicarci un Mefistofele che si trova all’interno del DNA dell’uomo stesso. La prima introduttiva sequenza dove vediamo l’androide David e suo padre, un umano, ci pone subito nel bel mezzo di questa idea ispiratrice del film: negli intensi dialoghi tra i due, venati da un sottile senso del tragico, cogliamo l'idea di un rispecchiamento mortifero tra uomo e androide ultra-umano, e il significato profondo di questo dialogo ci ritorna in mente solo a termine del film. Ridley Scott dirige un'opera pluristratificata: uno dei molti strati è appunto costituito dal tema dei possibili tragici effetti dello sviluppo scientifico-tecnologico, che tende di per sé ad andare oltre l’umano attraverso la promessa seducente e onnipotente dell’eternità, del controllo del Tempo. In estrema sintesi “Origine” e “Telos” umani sono i cardini centrali della poetica di questo film, e non so se questo vi sembra poco.

Fatte queste preliminari e necessarie premesse, veniamo ora alle considerazioni tecniche. Sul piano della regia credo che Ridley Scott si sarebbe benissimo potuto fermare alla sequenza della prima traumaticissima mutazione (nell'infermeria della navetta in esplorazione sul pianeta sconosciuto, ammarata sul lago e all'interno di scenari naturalistici a loro volta sinfonici, wagneriani). Poteva fermarsi lì, e ci avrebbe già regalato molto. Invece il nostro prosegue omericamente la sua storia, una specie di metafora uliseea al contrario, al negativo, in cui sono gli androidi a voler superare le Colonne d’Ercole, a dire “fatti non foste a viver come bruti", ma dal loro intrinseco punto di vista, cioè dall’interno del loro sogno "elettrico". Perchè, si sa, “gli androidi sognano pecore elettriche” e di quello sono capaci. Ma torniamo alla sequenza dell’infermeria: una sequenza epocale, da storia del Cinema sci-fi, memorabile e da studiare lungamente, sia nei movimenti di macchina, sia nel montaggio rapidissimo, chirurgico, privo della pur minima sbavatura, che ci incolla allo schermo, opera di un Pietro Scalia che è un vero mostro, come giustamente ci ricorda l’amica Lucia Patrizi nella sua ottima recensione; sia nell’uso superbo, raffinato degli effetti speciali (realizzati da una crew molto vasta); sia nell’uso di una fotografia da parte di Dariusz Wolski all’inizio dalle tonalità essenziali, quasi zen, della prima sequenza, per poi virare al grigio-verde piuttosto saturato delle sequenze d’azione sul pianeta: sequenze da “film di guerra”, che confluiscono tutte, nella prima parte del film, giustappunto nell'infermeria, dove si consuma il tragico parto alieno, e dove la luce ritorna ad essere intensa, ipoilluminante, iperrealistica; sia, per finire, attraverso un accompagnamento musicale (di un ispiratissimo Jed Kurzel, musica che, soprattutto nella prima parte, diventa co-protagonista di un’immersione emotivo-percettiva a mio avviso unica nel suo genere (la sequenza del dispiegamento delle vele solari dell’astronave dei coloni, accompagnata da un sonoro con leggere trombe di sfondo, non ha nulla da invidiare secondo me a “2001 Odissea nello spazio”).

Tutti i comparti tecnici (scenografie naturalistiche e cosmiche comprese) lavorano come in un perfetto gioco d’orchestra che mi fa tornare ancora una volta al termine “sinfonico”.

Due parole finali, su quelli che a me appaiono essere gli unici difetti di un film peraltro ineccepibile, a tratti grandioso, sempre abissale nella profondità di riflessione e sottotestualità che si muovono sotto la superficie del visivo: 
a) la sceneggiatura di Dan O’Bannon e Ronald Sushett (su un soggetto di John Logan e Dante Harper, e su una story rimaneggiata anche da Jack Paglen e Michael Green quindi organizzata da ben sei mani) , contiene qualche buco, che naturalmente passa inosservato di fronte al mastodontico e raffinato lavoro di tutto il gruppo di produzione e post-produzione (vedansi le sequenze in cui la nave madre si avvicina alla tempesta e nelle quali i contatti con l’equipaggio sul pianeta non fanno minimamente emergere, inspiegabilmente, la gravità della situazione sul pianeta; oppure quelle in cui si costruisce l’interazione tra David e Walter; oppure le inquadrature di raccordo storico con “Prometheus”, che potevano essere narrate in modo decisamente più fluido);
b) il casting (a cura di Carmen Cuba), che vede spiccare in modo sublime l’interpretazione di Michael Fassbender, un algido e primitivamente mortifero David, ma che non è capace di conferire particolare espressività ad altri personaggi, soprattutto in Daniels (una Katherine Waterston che ci saremmo aspettata non diciamo all’altezza di una Sigourney Weaver inarrivabile, ma un po' meno melanconica e più determinata).

Come dicevo all’inizio, anche ora che sto per concludere la mia recensione all’ultimo “figlio” di Ridley Scott, sento che questo scritto non sia sufficiente, sebbene necessario. Molte cose infatti andrebbero ulteriormente osservate, come ad esempio il nesso (centrale) con “Prometheus”, oppure il significato molto profondo, dalle valenze simboliche tutte da analizzare, della sequenza relativa alla morte del capitano dell’astronave – il film si apre infatti con un lutto, non dimentichiamolo, e da quel lutto, da quella tragica assenza iniziale, si sviluppa poi tutta la narrazione. Preferisco tuttavia accomiatare il lettore con un senso di incompiuto, di insaturo, poiché, come la poesia, anche il cinema, e soprattutto questo film, è vera poesia solo se promuove aperture di senso e di pensiero. 

Regia: Ridley Scott Soggetto e Sceneggiatura: Dan O’Bannon, Ronald Sushett, John Logan,  Dante Harper Fotografia: Dariusz Wolski Montaggio: Pietro Scalia Musiche: Jed Kurzel Cast: Michael Fassbender, Katherine Waterstone, Billy Crudup, Danny McBride, Demian Bichir, Carmen Ejogo, Jussie Smollett, Callie Hernandez, Amy Saimetz, Nathaniel Dean, Uli Latukefu Nazione: UK, Australia, New Zealand, USA  Produzione: Twenthieth Century Fox Film Corporation, Brandywine Productions, Scott Free Productions  Durata: 2h e 2 min.

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