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domenica 29 aprile 2012

Dialogo psicoanalitico con Michele



Michele (11 anni): "Papà, cos'è il transfert?"
Papà: " Per esempio quando un paziente ti racconta un sogno, si usa dire che il sogno è una finestra sul transfert. Cioè, è come se il paziente, quando ti racconta un sogno, aprisse una finestra e ti facesse vedere il panorama del suo transfert, cioè come vive la relazione che ha con te".
Michele:"...e non deve essere una bella vista...". 

lunedì 23 aprile 2012

The cabin in the woods, di Drew Goddard (2012)



Un gruppo di giovani amici parte con un camper per passare il week-end in un cottage sperduto in un bosco. All'interno della vecchia baita disabitata i ragazzi si aspettando di passare alcuni giorni di totale relax e divertimento. Non andrà così, e ben presto l'artiglio fatale della morte verrà a ghermirli, uno ad uno...

"The Cabin in The Woods" è un'operazione meta-filmica che lo sceneggiatore di "Cloverfield" (2008) Drew Goddard dirige con mano salda e ispirata, e soprattutto lontana da ogni tipo di fanatismo o fondamentalismo "di genere". In tal senso io credo che "The Cabin in The Woods" non si possa racchiudere in un genere cinematografico classico, del tipo "film horror", in senso stretto. Ma questo è anche il suo pregio maggiore, cioè la sua equidistanza da qualsiasi  coinvolgimento "fondamentalista" di sorta. Possiamo definire questo film una riflessione, un "saggio" sotto forma di film, che riguarda il genere Perturbante, nelle sue declinazioni più sci-fi che "horror", sebbene i contenuti visivi cui attinge siano assolutamente quelli del cosiddetto genere horror. Di più: a tali contenuti il regista attinge a 360 gradi, senza tuttavia mai sposare una prospettiva particolare. E' appunto questo l'elemento maggiormente spiazzante di "The Cabin in the Woods", il che tuttavia non vuol dire generare una sinonimia tra "spiazzante" e "perturbante". La pellicola è infatti molto lontana da ciò che qui siamo usi chiamare Cinema Perturbante. Intendo dire che visionandolo non ci si spaventa affatto, anzi Goddard ci tiene molto ad evidenziare tale distanza siderale dall'inquietudine, fin dalle prime sequenze, cioè fin da quando il camper dei giovani gitanti non è nemmeno ancora arrivato al cottage (non entro nei particolari per evitare spoiler). Un pò come se Goddard volesse subito dirci: 'guardate che non voglio fare un film horror, voglio invece solo pensare, riflettere con voi su tutto questo baraccone horror che piace tanto, e a così tanta gente come voi che state lì in sala a guardare questo film'. Questa modalità resa esplicita fin da subito (o quasi) non rende tuttavia il film meno interessante, al contrario genera in noi un'immensa curiosità relativa al capire dove Goddard voglia andare a parare. Non solo: paradossalmente, genialmente direi, la prospettica narrativa dell'intera sceneggiatura, tiene comunque in piedi un dispositivo ad alto gradiente di intrattenimento, di suspense, di immaginifico visionario mitopoietico, attraverso sottili e macroscopiche (di volta in volta) citazioni derivate dalla storia del Cinema Perturbante. Infatti possiamo anche dire che c'è di tutto in questo film: mutazioni corporee, zombies, fantasmi, horror orientale, "mostri" cloverfieldiani, spaesamenti e atopie in stile "Lost", cannibalismi, richiami a "Saw", il tutto però mantenuto e "frullato" a freddo, come dicevo più sopra. A tale proposito "The Cabin in the Woods" mi ha fatto venire in mente certe ricette del cuoco spagnolo Ferran Adrià,  per confezionare le quali utilizza strumentazioni inusuali in cucina, come compressori, presse, affumicatori a freddo e così via. Quella di Adrià è definita tra l'altro "cucina molecolare", nel senso che il suo approccio alla materia prima alimentare è "decostruttivo", per poi costruire piatti e sapori "altri". Quello di Goddard sembra essere un "cinema molecolare": la materia prima è sempre la stessa, è horror, ma il tutto è decostruito per poi costruire un sapore alieno all'horror medesimo. Adesso spero sia più chiaro perchè dicevo che "The Cabin in the Woods" non è un "film horror", pur mostrando, paradossalmente, contenuti horror. Goddard allestisce dunque un ossimoro filmico, un disegno alla Escher, con cascate che sgorgano e scendono verso il basso, per poi risalire ingannando l'occhio che le vede apparentemente sullo stesso piano visivo anche se non lo sono. Vero è, io credo, che il fruitore cui pensa il regista è pur sempre lo spettatore di genere, quello che va in trattoria, per intenderci, e non al ristorante di Adrià, quindi forse questo è il problema, il "difetto" di questo film, che rimane comunque opera interessante, esperimento unico nel suo genere, nonchè godibilissima esperienza visivo-narrativa. Il "difetto", dicevamo, è che la sceneggiatura, pur anelando al metafilmico, all'autoriflessivo, rimane sempre incastrata all'interno di stilemi e sottotesti inequivocabilmente horror-oriented e sci-fi. Una sceneggiatura, cioè, che rimane intrappolata entro se stessa e in ciò che mostra, un pò come i protagonisti della storia, all'interno del cottage e dei suoi dintorni. Per uscire da questa trappola, Goddard, nel finale, vira verso il mistico-umanitario, attraverso il tema del "sacrificio", cosa che ricorda vagamente la storia di "Martyrs" (2008) di Laugier, ma un viraggio di questo genere non è sufficiente a chiudere il cerchio di una vicenda in fin dei conti chiusa per definizione all'interno del genere cinematografico che vuole destrutturare e decostruire autoriflessivamente. In ogni caso "The Cabin in the Woods" è un film piuttosto originale, spiazzante nel condurci lungo sentieri del tutto imprevisti e lontani dalle nostre normali aspettative, nonchè ottimo nell'allestimento di un reparto make-up che ci propone nuovi "mostri" anche abbastanza spaventosi (vedi la bambina con la bocca enorme piena di denti aguzzi). "The Cabin in the Woods": da vedere certamente, e assolutamente in sala, per discutere sull'indiscutibile talento narrativo di Goddard.
Regia: Drew Goddard  Soggetto e sceneggiatura: Drew Goddard, Joss Whedon    Fotografia:  Peter Deming   Montaggio: Lisa Lassek    Musiche: David Julyan   Cast:  Chris Hemsworth, Richard Jenkins, Bradley Whitford, Kristen Connolly, Anna Hutchison, Fran Kranz, Jesse Williams, Brian White, Amy Acker  Nazione: USA Produzione: AFX Studios, Metro-Goldwyn-Mayer (MGM), Mutant Enemy   Durata:  105 min.   

giovedì 19 aprile 2012

The Moth Diaries, di Mary Harron (2011)

Rebecca è una sedicenne che ritorna, dopo l'estate, al suo prestigioso collegio, e qui ritrova la sua amata amica del cuore, Lucy. Tra di loro si insinua tuttavia l'inquietante presenza di un'altra allieva, Ernessa, generatrice di gelosie femminili. Ogni sera Rebecca scrive sul suo diario quanto le sembri pallida e strana Ernessa, e descrive gli incidenti e le morti che piano piano cominciano a manifestarsi all'interno del collegio...

La saga di "Twilight" davvero sta contagiando molti sottotesti filmici odierni, ultimo dei quali è senza dubbio "The Moth Diaries", di quella Mary Harron che avevamo trovato (sciaguratamente) dietro la macchina da presa di "American Psycho" (2000), riduzione spenta e amorfa del ben più potente testo di Ellis. La Harron qui tenta di rivitalizzare il sottogenere gothic-horror, in un modo che con il perturbante e con il gotico non ha nulla a che vedere, e soprattutto nulla ha che vedere con qualsivoglia "rivitalizzazione" delle suddette categorie  estetiche. Al contrario la Harron produce una specie di risciacquatura di piatti, cercando di darle un'apparenza interessante, ammiccante, che comunque risciacquatura rimane. Non basta una citazione, veloce, insipida del racconto "Carmilla" (1872) di Sheridan Le Fanu, per dare spessore a una storia vuota e insapore come questa. Ma non sono solo quelli appena menzionati i problemi di "The Moth Diaries". Il vero problema è la focalizzazione della storia sul narcisismo adolescenziale visto in chiave femminile. Un tema simile è già di per sè più che arduo se non si manovra con mano salda la psicologia dei personaggi e non la si sa rendere in modo autentico ed espressivamente vitale. Viene in mente, a proposito di resa filmica delle tematiche narcisistiche (il rispecchiamento identitario, la fusionalità, l'immaginario adolescenziale, etc.), il memorabile "Heavenly Creatures" (1994) di Peter Jackson con quella giovane e splendida Kate Winslet contrapposta all'alterità sofferta di una intensa Melanie Lynskey. La Harrion si pone  agli antipodi di un modo tale di fare cinema: spegne la luce su ogni spunto dello script che le permetterebbe di far alzare in volo veramente quella farfalla che ci mostra nei titoli di testa. Qui ci troviamo di fronte a rimandi leggermente, velatamente narcisistico-lesbici, mai davvero sviluppati e pensati. Ma, come si suol dire, no pensiero no party. E infatti l'esito finale è piattissimo, smisuratamente piatto e inconsistente. Non parliamo, poi, di come viene trattato il tema della sessualità adolescenziale, cioè non trattato, o meglio reso opaco e orbitalmente marginale, quando invece tale tema è proprio il cuore pulsante di ogni transito adolescenziale, gotico o non gotico che sia. Dove diavolo è finito David Lynch? La Harron ha mai, per puro caso, dato un solo sguardo a "Twin Peaks?" Sa chi è Laura Palmer? Le vaghissime scene di amplesso che ci mostra sono statuarie e immote come il lago Baikal ghiacciato in inverno. La triade Rebecca, Lucy, Ernessa è sempre sfocata, dinamicamente non credibile sul piano narrativo, televisiva nei dialoghi, afona nell'espressione di emozioni potenti, quali appunto la gelosia in adolescenza, vero cardine basilare di quel periodo dell'esistenza di ciascuno di noi. Il Perturbante non alligna in alcuna inquadratura, ed è depositato in modo tombale, per così dire, nel personaggio del professor Davies (Scott Speedman), laddove la spettrale Ernessa diventa invece  la caricatura di una ragazza demoniaca che non convince per niente.  Il film inoltre non presenta picchi adrenalinici di sorta, anzi, tende a far assopire lo spettatore in molti punti e a far rimpiangere i libri di Hoffmann e Le Fanu, oppure tutta la tradizione letteraria ossianica anglosassone. Effettistica, musiche e fotografia emergono diafani come tutta la costruzione narrativa generale, e non incidono di una virgola sulla gestalt complessiva del prodotto. "The Moth Diaries" è un film che si fa velocemente dimenticare. Per fortuna. Da evitare.
Regia: Mary Harron Soggetto e Sceneggiatura: Mary Harron, Rachel Klein Fotografia:    Declan Quinn Montaggio: Andrew Marcus   Musiche: Lesley Arber Cast: Lily Cole, Scott Speedman, Sarah Bolger, Sarah Gadon, Valerie Tian, Judy Parfitt, Melissa Farman, Anne Day-Jones  Nazione: Canada, Irlanda   Produzione:  Alliance Films, Edward R. Pressman Film, Irish Film Board, Media Productions Max  Durata:  82 min.  

martedì 10 aprile 2012

Snowtown, di Justin Kurzel (2011)



Jamie, 16 anni, vive con la madre Elizabeth e due fratelli più giovani, Alex e Nicola, in un complesso di case popolari alla periferia di Adelaide, Australia. Come tutti i ragazzi della sua età, Jamie anela a una fuga dall'universo di violenza, povertà e disperazione in cui vive, e a un certo punto la salvezza si personifica nella figura di John, un uomo molto carismatico e paterno che arriva inaspettatamente in suo aiuto. John si installa presso la famiglia di Jamie, generando un clima di famiglia affettuosa e stabile, tutte cose che Jamie e i suoi fratelli avevano sempre desiderato. John tuttavia si trasforma tuttavia, gradualmente, da protettore a maestro che trasmette non conoscenza e saggezza, ma idee piene di razzismo e dogmatismo, che arriveranno a influenzare Jamie, portandolo a compiere atti pieni di sadismo e intolleranza. 

Da anni vado sostenendo che una delle principali, nefaste caratteristiche dell'epoca cosiddetta "postmoderna" che viviamo, è l'assenza totale di rappresentazioni sociali e soprattutto artistiche dell'odio. Ciò non di meno, un certo tipo di Cinema Perturbante ha dato suoi fondamentali contributi nel supplire a questa carenza rappresentativa, cercando cioè di rappresentare un irrappresentabile tuttavia presente, vivo e malignamente infiltrativo all'interno della società che ci circonda. Avevo a suo tempo parlato a tale proposito di esempi cinematografici mirabili come l'inglese "Eden Lake" (2008), di James Watkins, che ritengo un'opera fondamentale per capire come un sentimento come l'odio possa essere trasmesso attraverso successive generazioni, e trovi poi nell'adolescenza il veicolo cardine per esprimere il suo potenziale auto ed etero distruttivo. Passo ora a segnalare un altro, recentissimo film, questa volta australiano, che si pone su una linea similare, ma di tenore ancor più elevato, sia sul piano estetico-filmico, che su quello della denuncia e della riflessione sociale sull'odio e sulla violenza perpetrata da un "diverso" (qualsiasi adolescente economicamente e affettivamente deprivato è un "diverso", oggigiorno) su altri "diversi", che appartengono tuttavia alla stessa società di diseredati. Kurzel sembra ambientare il plot in un contesto sociale che conosce benissimo, che sembra aver frequentato e "abitato" lui stesso per molto tempo, visto che il suo occhio appare quasi introspettivo e autobiografico, proprio nel suo modo di girare. La sua è infatti una macchina da presa che sta dentro le cose che riprende, che fa parte del gruppo sociale che inquadra, che "sta seduta a tavola" con la famiglia di Jaime, ne segue i dialoghi, la  profondità dei quali è a tratti bergmaniana, come un "Scene da un matrimonio" (1973), ma che  descrive il degrado e la manipolazione dei sentimenti, operati sulla pelle, appunto, di un adolescente. Il film è molto violento, ma nel senso di una violenza appunto manipolatoria sul versante psicologico: infatti l'obiettivo di John non è altro che quello di instillare il seme del dogmatismo nella mente non ancora adulta di Jaime. La sequenza della macellazione dei daini, le cui ossa e teste mozzate vengono poi gettate in secchi usati, con l'aiuto di Jaime, apre il lento ma inesorabile climax verso la pura violenza senza scarti di residua umanità, nella quale il ragazzo resta intrappolato, privo di ogni lume critico-etico alternativo. Altre sequenze memorabili, operate al ralenty, e soffuse da una colonna sonora indicatissima, sono quelle del ballo presso il bar-centro sociale in cui è tutta la piccola comunità del villaggio a diventare protagonista. Certo, perchè un'ulteriore pregio di Kurzel è di riflettere sul gruppo e sui gruppi che compongono una comunità, nonchè su quanto questi gruppi ristretti e "periferici" possano diventare l'ideale brodo di coltura di misfatti psicologici enormi. Nel film vediamo il gruppo dei ragazzi, quello degli adulti, quello dei "diversi", ma in sommo grado coinvolti e confusi da un'ambiguità di fondo che travolge tutti, senza eccezioni. Simbolicamente assai pregnante a tale riguardo la sequenza (sempre al ralenty) in cui ragazzini preadolescenti e un adulto giocano insieme ad un tristo videogioco fuori moda, sempre all'interno del salone-bar di cui sopra. E' presente un'atmosfera di atemporalità informe e insensata che accomuna e confonde le generazioni in questo film, un grigiore anomico e anonimo sul quale il regista non accende mai una seppur fioca luce di speranza. Le vite dei personaggi cominciano così a prendere un unico senso, che è quello dell'idealizzazione negativa del gruppo dei gay, della loro stigmatizzazione razzista come "gruppo esterno" da eliminare. Durante questo fondamentale viraggio, ma centellinato con cura certosina, della sceneggiatura, il regista sempre volerci dire che l'unico "senso" per i protagonisti di questa storia, che sembra scritta direttamente da un Cormac McCarthy più pessimista che mai, sia il senso di appartenenza in quanto violenza contro l'altro che non appartiene al proprio gruppo (si veda a tale proposito la densità di odio misto a freddezza inenarrabile, presente nella terribile sequenza dell'uccisione del cane a colpi di pistola). "Snowtown" è un film duro e di difficile digestione, ma che cerca di rappresentare, senza ricorrere a facili moralismi, il processo di degradazione del vivere insieme di una comunità di periferia all'interno dell'orizzonte postmoderno contemporaneo. Le modalità espressive di questa "rappresentazione", fulminano lo spettatore attraverso sequenze molto drammatiche ed efficaci, tanto quanto mediante atmosfere raggelanti rese attraverso la fotografia di paesaggi e cieli sconfinati, quanto vuoti di umanità. E Kurzel si concede tutto il tempo che vuole, in modo iper-neo-realistico, concedetemi questo neologismo forse un pò bizzarro, per descrivere il campo emotivo degenerato che ha deciso di mostrarci: forse per questo il film soffre di lentezze a tratti intollerabili per lo spettatore medio, ma tollerabilissime, anzi apprezzate, per il fruitore che desidera porre al centro la riflessione profonda, più che l'intrattetimento. Ma è decisamente la figura di John ad essere la più rappresentativa di una pulsione perversa, anti-etica, anti-paterna, perché  integra in sé il senso di una trasformazione antropologica profonda, attraverso la quale chi dovrebbe proteggere le nuove generazioni, le utilizza invece come veicolo di morte (vengono in mente i ventenni kamikaze musulmani, oppure i soldati bambini della guerra africana tra Utu e Tutsie). "Snowtnown" è insomma un film denso di rimandi a quello che potremmo definire un Perturbante sociopolitico di cui è raro che un film si occupi in modo così sentito e profondo. Da vedere assolutamente.
Regia:Justin Kurzel   Soggetto e Sceneggiatura:  Shaun Grant  Cast: Lucas Pittaway, Bob Adriaens, Louise Harris, Frank Cwiertniak, Matthew Howard, Marcus Howard, Antony Groves, Richard Green, Aaron Viergever  Nazione: Australia    Produzione: Screen Australia, Australia Warp X  Durata:  119 min. 

domenica 1 aprile 2012

Silent House, di Chris Kentis, Laura Lau (2011)

Intrappolata in una casa di campagna di proprietà della sua famiglia, in riva a un lago, la bella e giovane Sarah, non potrà più comunicare con l'esterno, sempre più in balìa di eventi inquietanti e misteriosi. 

Ormai lo sappiamo da tempo che gli americani sono affetti dal misterioso virus del "remake", che sembra renderli famelici di trasposizioni in salsa statunitense di opere europee o latino-americane, come l'uruguayano "La Casa Muda" (vedi mia recensione qui: La Casa Muda-recensione), che ispira quest'ultimo "Silent House", diretto a quattro mani da Kentis e Lau. Aldilà del remake-virus, tuttavia il film della coppia Kentis-Lau non è malaccio, anzi, si esprime in modo abbastanza autonomo rispetto all'originale, e lo segue in modo non pedissequo, forse anche perchè si avvale, con un senso di umiltà che non va sottovalutato, della sceneggiatura scritta dallo stesso Hernàndez, regista dell'originale. Il film parte lento, poichè utilizza lo stesso espediente di "La Casa Muda", consistente nell'operare agendo "in tempo reale", cioè attraverso un unico piano sequenza lunghissimo, che alla lunga può anche annoiare lo spettatore abituato a vedere film d'azione tutti i giorni. A Kentis e a Lau non interessa l"azione", ma, anche qui, l'atmosfera e l'evocazione dell'inspiegabile, così come si appalesa nell'esperienza di una giovane adolescente, lasciata in balia di fantasmi paterni di carattere omicida, cui è costretta a far fronte, suo malgrado. Rispetto al film di Hernàndez, forse i movimenti di macchina sono più morbidi, sciolti e "liquidi", il che è certamente un vantaggio, poiché ciò favorisce un senso di spaesamento che ti coinvolge mentre segui le vicende che accadono sotto i tuoi occhi, nonchè aumenta il gradiente identificatorio con la protagonista, una Elisabeth Olson (Sarah) che sa rappresentare in modo efficace la sua paura, sebbene appaia orientata ad una (inconsapevole?) imitazione della Heather Donahue di "The Bail Witch Project" (1999), soprattutto nella parte finale del film. Tale richiamo tuttavia non guasta affatto, perchè avere come riferimento il mitico "TBWP", a me sembra, da parte dei registi e del cast, il segno di saper manovrare (anche inconsciamente, e perchè no?) una rete di sottotesti perturbanti interessanti, se non fondamentali e da non rimuovere come se niente fosse. Il padre di Elisabeth, appare meno fondativo, come personaggio, ma peraltro scompare quasi subito alla nostra vista, e noi siamo felici, perchè (come tutti gli amanti di Cinema Perturbante) non vediamo l'ora di vedere la nostra parte vulnerabile e sola, proiettata nella povera Sarah, alle prese con la Paura. Nonostante le inevitabili lungaggini iniziali, dopo circa 20 minuti il film comincia a prendere spessore, generando interni claustrofobici inquietanti al punto giusto, e avvalendosi di un uso del sonoro che anche le musiche stridenti di Nathan Larson sanno ben  accompagnare e alternare a silenzi inframmezzati da passi, tonfi e scricchiolii davvero tensioattivamente evocativi. Il problema di "Silent House" (che è poi quello di tutti i remake) è quello di avere dietro le spalle un deja-vu inevitabile, che condiziona inesorabilmente la visione. Il nostro preconscio ha cioè già registrato la storia, e le tracce mnestiche che vanno a formare la nostra normale memoria a lungo termine, costruisce sentieri visivi che indirizzano la nostra visione, aldilà del "nuovo" che il prodotto artistico che ci troviamo a visionare ci proponga.  Sul piano della sceneggiatura non siamo poi lontani dall'organizzazione narrativa di "La Casa Muda", elemento sia positivo che negativo, poichè la storia è quella e altro non ci aspettiamo. Ma, se è vero che bisogna essere Cézanne per dipingere una lunga serie di "remake" della sua montagna di Sainct Victoire, senza risultare ripetitivo, ma anzi innovativo ad ogni suo quadro, i nostri due registi, pur non essendo Cézanne, sanno parlare una loro lingua propria, distanziandosi nell'insieme dall'originale, attraverso un calibrato utilizzo di atmosfere d'interni, e dell'efficacia delle inquadrature, efficacia che risiede tutta, potremmo dire (scusate l'ossimoro), nell'angosciante morbidezza delle inquadrature stesse. Non dimentichiamoci poi che "Silent House" è il remake di un film difficile, lungo, che impegna la concentrazione dell'osservatore in una continua ricerca di senso e in un costante movimento identificatorio-disidentificatorio con la protagonista.  Alcune sequenze sono inoltre originali e condotte con sapienza perturbante considerevole, aldilà del "peso" derivativo dell'originale (vedi la sequenza dell'automobile nella quale Sarah, terrorizzata dagli eventi precedentemente sperimentati, sta aspettando che John ritorni). Possiamo dunque dire, almeno in questo caso, che non proprio tutti i remake sono orride copie di fulgenti originali, e che questo "Silent House" si fa guardare con benevolenza e speranza per il futuro. Da vedere. 
Regia:Chris Kentis, Laura Lau  Sceneggiatura:  Gustavo Hernàndez  Fotografia: Igor Martinovic Musiche: Nathan Larson  Cast: Elisabeth Olsen, Adam Trese, Eric Sheffer Stevens, Julia Taylor Ross, Adam Barnett, Haley Murphy   Nazione: Francia, USA  Produzione:   Elle Driver, Trazora Films Durata:   85 min.