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giovedì 13 agosto 2015

Dark Was The Night, di Jack Heller (2014)



Maiden Woods è una città nascosta nella profonda provincia montana statunitense. Gli abitanti sono per lo più boscaioli e vivono una vita tranquilla e laboriosa quanto riservata. Qualcosa tuttavia si nasconde nei fitti boschi che circondano la cittadina. Quando un'impresa che si occupa di deforestazione comincia a tagliare alberi nei boschi, cominciano a verificarsi strani fenomeni che lo sceriffo Paul Shields e il suo vice Donny Saunders non riescono a spiegarsi. I due daranno inizio ad una lotta parallela con i loro demoni interiori e con una razza di demoni molto più antica di loro...

Quando si legge che il Cinema Perturbante contemporaneo non ha più niente da dire, oppure che ormai tutti i campi horror sono stati arati e che quindi non c'è più niente di veramente nuovo sotto il sole, a me viene da ridere. Ed è un riso sornione, discreto, soprattutto quando penso a queste due ultime annate cinematografiche (2014 e 2015), che hanno invece prodotto opere interessantissime (ne ricordiamo a titolo di esempio solo una, "The Babadook", di Jennifer Kent), per nulla scontate e certamente assai nutrienti del filone Perturbante in generale. 

Una di queste opere è senza ombra di dubbio "Dark Was The Night", del regista Jack Heller ("Enter Nowhere, 2011) che è anche produttore, e produttore assai prolifico (ha in post-produzione  già due film, più uno completed). Heller in questo film entra a passi spediti nell'area mitopoietica molto classica del monstrum statunitense, cioè quel tipo di monstrum che rappresenta più di tutti il Perturbante primigenio cui ha da sempre attinto la cultura popolare americana. Stiamo parlando di quell'area del sovrannaturale naturalistico che vede la Natura come sfondo per l'eterno conflitto uomo-ambiente, un conflitto che ha - ricordiamolo - da sempre ispirato anche la letteratura americana classica, da Faulkner, a Jack London, all'Hemingway de "Il vecchio e il mare", a Lovecraft stesso, per poi arrivare alla letteratura "pop", rappresentata ad esempio da King e  Lansdale. Come sapete non uso scomodare facilmente Faulkner e compagnia bella quando recensisco un film (di qualsiasi genere esso sia). Se lo faccio significa che il film che vado recensendo ha evocato in me linee associative di un certo tipo, associazioni delle quali mi sono abituato a fidarmi, perché di solito mi portano a scorgere versanti  suggestivi e magari inesplorati di un'opera cinematografica. 

"Dark Was The Night", oltre a Faulkner, mi ha fatto venire in mente uno degli ultimi scritti di Melanie Klein, "Sul senso della solitudine" (1959), sorta di declinazione psicoanalitica dei temi forti e propri della letteratura americana: la solitudine dell'uomo di fronte alla Natura, in ultima analisi di fronte alla morte, rappresentante irrappresentabile del destino transitorio e precario dell'uomo stesso rispetto alla solida eternità dei processi naturali. Heller lavora con finezza e profondità questi temi, davvero molto difficili da vedere in certo tipo di cinema americano contemporaneo. Per fare ciò Heller parte da un cast nel quale spicca il protagonista, un prometeico Kevin Durand che sembra la statua vivente di ciò che la Klein descrive come "posizione depressiva", quella particolare dimensione mentale cioè attraverso la quale il soggetto si rende conto della sua provvisorietà e inesorabile impotenza e solitudine di fronte al muoversi insondabile delle onde della vita. Una dimensione emotiva che si raggiunge con la "maturità", quando si è riusciti cioè ad integrare e superare le spinte aggressive e ciecamente impulsive tipiche della prima infanzia e dell'adolescenza (spinte che prendono il nome, nel pensiero della Klein, di "posizione schizoparanoide", atteggiamento che nel film veste i panni di Heath Freeman, ragazzotto di provincia dai comportamenti ribellistici, che si contrappone adolescenzialmente allo sceriffo Shields). 

Il clima "depressivo" in senso kleiniano soffonde tutta la pellicola, anche attraverso la notevole, ruvida fotografia di Ryan Samul, ma soprattutto attraverso un dosaggio molto accorto e misurato delle apparizioni del monstrum che vediamo in toto solo nella sequenza del prefinale ambientata nella chiesa, sequenza intensissima, dal carattere primordiale, epico-eroico, come sottolinea anche Elvezio Sciallis nella sua pregevolissima recensensione al film, che invito grandemente a leggere. Come sottolinea Sciallis, siamo qui lontani mille miglia dal tipico machismo presente in gran parte del cinema statunitense. Al contrario Heller dipinge, mediante la figura di Shields, la figura di un uomo tragico, combattuto da fantasmi familiari, rappresentante di un paterno scevro da aspetti idealizzati, un padre cioè molto reale, un padre come funzione, come processo, come organizzatore narrativo del limite, e che appunto per queste sue caratteristiche, incarna il Limite, non certo l'onnipotenza del macho schwarzeneggeriano. 

L'eroismo di Shields consiste tutto nell'affrontare il fallimento e nel convivere con esso, condividendolo con un comprimario (il vice Saunders) che non è un doppio donchichottiano qualsiasi, bensì una specie di Watson sherlockholmesiano dal carattere però tutto esistenzialista. Saunders è infatti una specie di Virgilio che accompagna Shields-Dante in un cammino di deriva e frammentazione ineluttabile, raccontata con  pacatezza e fluidità, e nella quale gradualmente si infiltra l'inquietudine e il senso della fine. Heller sa davvero il fatto suo dietro la macchina da presa, e  sembra aver letto molte cose, aver macinato molti autori. Il rapporto di Shields con suo figlio fa venire in mente ad esempio il Cormac Mc Carty di "The Road" (2009), laddove l'aspetto protettivo, ulisseo, della figura paterna, si fa appunto tragica, combattuta e perturbante di fronte ad un ambiente divenuto improvvisamente ostile, un ambiente che non fa altro che sottolineare l'impotenza dell'uomo, e, soprattutto, la fragilità riparativa e libidica del legame generazionale padri-figli. La sequenza in cui lo sceriffo scopre che suo figlio Adam non è più nell'automobile in cui lo aveva chiuso, mi ha richiamato alla mente il pathos narrativo delle prime pagine di "Bambini nel tempo", di Ian McEwan, con quell'immagine terribile del padre che perde il bambino (o bambina? Non mi ricordo) al supermercato: evento tragico che solo un padre può davvero capire.

"Dark Was The Night" sembra una riflessione quasi filosofica sulle mutazioni antropologiche inflitte dalla post-modernità alla stabilità del soggetto in quanto individuo che ha la paternità e la responsabilità del proprio desiderio. E per portare avanti questa riflessione, giustamente, l'ispirazione di Heller pesca nel magico evocato dalla figura del Bigfoot della cultura popolare, poichè il post-moderno tecnologico (come direbbe il filosofo Gunther Anders) fa emergere, paradossalmente, le spinte primordiali, darwiniane, rimosse dell'umano. L'homo tecnologicus non è in fondo molto dissimile dall' homo homini lupus, così solo, in balia di un consumismo sfrenato, di un Far West individualistico dove solo la forza del denaro e della finanza sono diventate l'unica Legge. L'uomo di oggi è cioè in balia delle sue stesse pulsioni, non è più padrone/padre di se stesso. Le sue pulsioni non le sa più dominare e queste lo hanno travolto, portandolo verso una condizione borderline, sospingendolo verso l'orizzonte della propria autodistruzione. Il mostro che Heller evoca nel film, padrone dei boschi, è forse anche interpretabile come estrinsecazione di questa violenza dell'uomo, che tagliando/castrando le foreste, produce effetti nefasti sulla sua umanità, e che ritorna poi sull'uomo stesso come angoscia evacuata, non elaborata (mostruosa, appunto). 

Ancora due parole, prima di concludere, sulla sceneggiatura di Tyler Hisel, giocata in modo efficace e profondissimo da parte del regista. Sceneggiatura che merita una menzione particolare, considerate la modalità lenta di descrivere i movimenti dei personaggi, e in particolare la sua capacità di soffermarsi saggiamente, senza nessuna fretta, sui dialoghi, soprattutto quelli che delineano il rapporto tra Shields e Saunders, e quello tra Shields e il figlio Adam. Si tratta di dialoghi dolenti, a tratti struggenti, "parlati" con un uso della vocalità da parte di Durand davvero esemplare: una voce che più che essere grave, "profonda", diventa una vera e propria "voce dal profondo", il profondo inascoltato della voce di tutti noi... Sempre parlando della sceneggiatura le inserzioni dei dialoghi tra Saunders e il barista (un Nick Damici eccellente), sono collocate in punti precisi e ben pensati del film, diventando così veri e propri snodi narrativi essenziali per dare corpo, spessore e ritmica all'intera storia. 

Il Cinema Perturbante contemporaneo è vivo, molto vivo e gode di ottima salute. Alleluja!


Regia: Jack Heller Soggetto e Sceneggiatura: Tyler Hisel Fotografia: Ryan Samul Montaggio: Paul Convington, Toby Yates,  Tim Donovan  Musiche: Darren Morze  Cast:  Kevin Durand, Lukas Haas, Steve Agee, Nick Damici, Ethan Khusidman, Heath Freeman, Bianca Kajlich, Sabina Gadecki, Joe Pallister,   Nazione: USA  Produzione:  Caliber Media Company, Foggy Bottom Pictures, Molecule Durata:  90 min.  


sabato 1 agosto 2015

The Atticus Institute, di Chris Sparling (2015)




Nell'autunno del 1976, un piccolo laboratorio di psicologia in Pennsylvania divenne la sede inconsapevole per l'unico caso di possessione demoniaca confermato dal governo degli Stati Uniti. L'esercito Usa assume presto il controllo del laboratorio agli ordini della Sicurezza Nazionale e, poco dopo, attua misure drastiche con l'intento di trasformare  in arma militare l'entità incontrollabile che si trova di fronte. I dettagli degli eventi inspiegabili che si sono verificati sono stati resi pubblici soltanto anni dopo,  rimanendo segreti per quasi quarant'anni...

"The Atticus Institute" di Chris Sparling (writer di Buried, 2010), è un piccolo found-footage che si avvale deliberatamente di una modalità documerntaristica di ripresa allo scopo di raccontare una storia che vuole porsi come originale relativamente al filone mocku. Per giungere a questo non facile obiettivo, Sparling alterna immagini di interviste televisive a superstiti e testimoni della vicenda, a filmati appunto found-footage risalenti agli anni '70. Il montaggio di Sam Bauer è ben lavorato, non annoia e consente di seguire in modo piuttosto coinvolgente una storia che di per sè non è nulla di veramente nuovo: siamo infatti nel risaputo territorio della possessione demoniaca, per di più con una Rya Kihlstedt che almeno nella prima parte del film assomiglia maledettamente alla Mia Farrow di "Rosemary's Baby".

Sappiamo bene che il tema della possession è molto di moda all'interno dell'attuale corrente horror mainstream, e da questo punto di vista questo film non si discosta da un simile trend che probabilmente va incontro ai gusti del grande pubblico contemporaneo, e per motivi che poi andrebbero tutti studiati con attenzione. Per sovramercato "The Atticus Institute" è prodotto dagli stessi produttori di "The Conjuring" e "Annabelle" (rispettivamente di Wan, 2013 e di Leonetti, 2014), opere che non potremmo sicuramente definire pietre miliari del nostro genere preferito, anzi potremmo dirne piuttosto tutto il contrario. Dico questo perché il film di cui stiamo parlando si aggira in un ambiente scivolosissimo nel quale temi, contenuti, ispirazione e produzione sembrerebbero tutti orientati a costruire una bella trappola per un regista alle prime armi come Sparling. 

La trappola consumistica in parte scatta, e il regista vi cade come una volpe nella tagliola, in parte tuttavia la volpe riesce a sfuggire e a dileguarsi nei boschi, e noi siamo contenti per lei. Intendo dire che per essere al suo primo, vero lungometraggio perturbante, Sparling riesce a fare molte più cose di quanto ci saremmo aspettati, e questo è già buono. Certo, con i produttori che ha addosso, non poteva forse fare di più, ma intanto il regista riesce con maestria a produrre una ricostruzione di filmati d'epoca non da poco, facendo un'opera di casting poi notevole. Sia i personaggi odierni che quelli del 1975-1976 mi sono infatti sembrati assai pregnanti e fedeli (io in quegli anni facevo le scuole medie, e vi assicuro che ci si vestiva come nel film - ho ancora alcune foto di classe che lo testimoniano). Sparling conduce uno studio sull'epoca che riproduce degna di uno storiografo e di questo sforzo gli va dato atto, compresa la ricostruzione fedele degli strumenti di un laboratorio di Psicologia Sperimentale (anche quello ho visto all'opera dal vivo, mentre frequentavo la facoltà di Psicologia, a Padova, negli anni '80, e vi assicuro che era proprio come nel film). 

Il positivo (molto positivo) di questo film sta proprio in questa ricostruzione ottimamente elaborata e dettagliata di quegli anni. Altro elemento non secondario è il clima da guerra fredda che la pellicola è capace di rievocare, con la bizzarra inserzione, nel plot, delle forze armate e dei funzionari del governo americano, nonchè dei mezzi terroristici e talebani che utilizzavano (e tuttora è facile pensare utilizzino...) per torturare la povera Judith: non è facilissimo trovare in un film di genere Perturbante, l'occasione di una critica storica di vicende che hanno riguardato lo stile politically uncorrect utilizzato dai governi statunitensi in un passato neanche tanto lontano. 

Anche l'intreccio, sul piano dello script, del tema possessione con quello storico-politico è un'idea che ho trovato molto interessante, raffinata direi quasi, per certi versi innovativa. Intrecciare ulteriormente questi due filoni all'interno di una cornice mocku, ecco questo è forse l'errore più grosso in cui cade Sparling.

La corsa verso un vero, puro "realismo" diventa in questo film un peso inutile se non dannoso. Siamo infatti più interessati alla storia in sè, ai rapporti di forza tra un sovrannaturale che non si fa impacchettare in protocolli di stato o in setting scientifici precostituiti da una parte, e dall'altra una miopia politica che non può che essere miope. Sparling avrebbe certamente dovuto (e potuto) lavorare meglio questi elementi della scrittura filmica, tralasciando invece la pretesa del "ritrovamento" a tutti i costi di reperti storici. Tale pretesa va infatti a detrimento della sceneggiatura medesima, vedi ad esempio l'inspiegabile e mal gestito salto logico del filmino del compleanno del nipote del giovane collaboratore del Dr. West. Da dove viene quel filmino? Come si collega al resto del girato d'epoca, che è invece il frutto di registrazioni scientifiche, da laboratorio? 

Sparling nel suo film prova a gettare nuovo ossigeno nel sottogenere possession, e a tratti l'ossigeno sembra arrivare, ma questa nuova aria fresca è presto soffocata dall'afa di un iper realismo mockumentaristico portato avanti con un manierismo a volte anche un pò supponente. La possessione stessa infatti sembra passare in secondo piano, fino a diventare una sorta di caricatura di se stessa, e la protagonista medesima della possessione si perde come personaggio all'interno di tale manierismo storico-ricostruttivista. Stessa sorta toccherà anche al secondo protagonista simmetrico della storia, il Dr. West.

"The Atticus Institute" è dunque una buona prova per un regista al suo primo esperimento, ed è quindi da vedere e valutare positivamente, avendo tuttavia ben presenti tutti i suoi limiti. 

Regia: Chris Sparling    Soggetto e Sceneggiatura:  Chris Sparling  Fotografia: Alex Vendler    Montaggio: Sam Bauer    Musiche: Victor Reyes    Cast: William Mapother, Rya Kihlstedt, Julian Acosta, Carlos E. Campos, Jake Carpenter, Hanna Cowley, Aaron Craven, Suzanne Jamieson, Rob Kerkovich, Lauren Rubin, Bill J. Stevens, John Rubinstein    Nazione: USA    Produzione: Unversal, TSC   Durata:  92 min.