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mercoledì 30 ottobre 2013

Grabbers, di Jon Wright (2012)


Una bucolica e serena isola irlandese viene improvvisamente invasa da mostruose creature tentacolari che seminano il panico tra la popolazione. Ma fuggire dall'isola è impossibile, dal momento che una violenta tempesta scuote le acque del mare circostante. Quanto tutto sembra ormai perduto, si scopre che le malefiche creature sono allergiche all'alcool, e anche a coloro che ne assumono una certa quantità. I superstiti decidono quindi di barricarsi dentro un pub, e per resistere agli attacchi degli alieni cominciano a bere a più non posso... 

"Grabbers" di Jon Wright, è un simpatico, pacioso film che secondo me solo una mente irlandese poteva partorire, cioè una mente anglofona ma non proprio inglese. Gli irlandesi sono infatti, a mio avviso, i meridionali dell'area nordica: amano far caciara, bere, suonare la sera i loro allegri e insieme malinconici reel nei pub godendosi le fresche brezze serali che provengono dal mare. Il mio cane, poi, è proprio un Setter irlandese e quindi personalmente ce l'ho un pò in casa l'Irlanda e ho ben presente il suo carattere, la sua indole, nel caso del mio cane insieme dolce e burrascosa, affettuosa e testarda. Questo film è esattamente così, è come un Setter irlandese che scorrazza dolcemente in su e in giù, selvaticamente, senza la pretesa di un messaggio "alto", ma al contrario solo desideroso di proporre un'opera di "cultura popolare", quasi fumettistica, ricorsiva, anche ripetitiva nelle stereotipie di genere, ma confezionandola con gusto, con un sapore come può essere quello di un appetitoso ma popular Irish Stew servito in un pub del Donegal  insieme ad una buona pinta di Smitwicks. E' quello che ci vuole, ogni tanto, per farci assaggiare appieno il sapore della vita che scorre nei suoi fiumi carsici sotterranei che poi risalgono inaspettatamente, disordinatamente in superficie sorprendendoci, tanto quanto fanno, potremmo dire,  i mostruosi alieni che affiorano dal mare che circonda nel film la dolce e bucolica isola di Erin. "Grabbers" è cioè un film senza alcuna pretesa, una fiaba nordica come tante altre attraversata inoltre da una deliberata ironia che sfiora il comico in molti punti, che rimanda ai vari "Creepshow" degli anni '80, che omaggia il "mostro" tentacolare, mucillaginoso e alieno di molti altri film di questo genere che abbiamo visto. Ulteriore elemento interessante di questa pellicola è la volontà di Wright (il quale viene peraltro, non dimentichiamolo, dal teen movie "Tormented" - 2009, che si muove in un ambito più "serio" di critica sociale rispetto al tema delle psicopatologie dei gruppi giovanili), consiste nel legare insieme il tema del piacere per il bere  socialmente condiviso, al limite dell'alcolismo nei paesi nordici, Irlanda compresa, a quello del genere horror su impianto mitografico lovecraftiano. Anche qui abbiamo infatti una specie di "mostro di Dunwich" che "impreca e gorgoglia al centro dell'oscurità", dell'abisso marino, ma questo mostro viene subito demistificato mediante il registro retorico dell'ironia, versata a dosi industriali. Il mostro è infatti allergico all'alcol, sostanza naturale tra le più amate da Irlandesi e anglosassoni in generale. Questo escamotage drammaturgico di per sè demenziale e divertentissimo, permette così di creare un link improbabile quanto solidissimo all'interno di uno script di questo tipo. Ma credo che il protagonista principale del film sia decisamente il gruppo, la comunità di Erin, eccezionale cast che dà il meglio di sè nelle lunghe, chiassose sequenze della festa alcolica al pub, organizzata da i due poliziotti della Garda locale, Cìaran O'Shea (Richard Coyle) e Lisa Nolan (Ruth Bradley): vecchi pescatori dalla folta barba bianca vestiti con maglioni pesanti delle Isole Aran, vecchiette con cappellino stile Regina Elisabetta che si scolano pinte di birra rossa, ragazzi ubriachi che si baciano dietro i separé del pub, biologi un pò ossessivi completamente brilli che affrontano il mostro nel più completo delirio alcolico. Ma direi che è Ruth Bradley, la giovane poliziotta Lisa Nolan, a splendere come un'alba sulle Cliffs of Moher presso Doolin. La sequenza in cui si ubriaca per la prima volta mi ha fatto subire una meravigliosa regressione nel ricordo della mia prima (e praticamente unica) sbronza, quando avevo 17 anni, in un locale di Varsavia, nel quartiere centrale di Stare Miasto. E per questo la ringrazio di cuore. "Grabbers" è un film certamente da vedere in questi giorni di Halloween che stanno arrivando, magari sorseggiando  una birra rossa con accanto il proprio cane vicino al camino acceso (se non fa troppo caldo come nei giorni di questo ottobre insolito). E' un film che genera davvero spensieratezza, che libera la mente da tutta la spazzatura che ci riversa addosso la televisione ogni giorno. Per non parlare dei paesaggi irlandesi che i lunghi piani sequenza di Wright ci mostrano delle coste irlandesi, dei sassi levigati e scuri come appoggiati sulle spiagge di sabbia, delle balenottere spiaggiate sulla rena. Con un prefinale e un finale da fuoco d'artificio comico-orrorifico, "Grabbers" non spaventa affatto, sia chiaro, pur costruendo alcune sequenze ben fatte ed efficaci (come l'attacco del mostro nel bagno di Paddy Barrett), ma ci lascia con un sorriso sornione sulle labbra al termine della visione, effetto dovuto al semplice fatto che è il film stesso a sorriderci e a farci ridere in modo disarmante dall'inizio alla fine della pellicola. "Grabbers": consigliato soprattutto per la sua sapida, sconclusionata, eccentrica, joyciana "irlandesità". 
Regia: Jon Wright   Soggetto e Sceneggiatura: Kevin Lehane   Fotografia: Trevor Forrest  Montaggio: Matt Platts-Mills     Musiche:  Christian Henson   Cast: Richard Coyle, Ruth Bradley, Rissel Tovey, Lalor Roddy, David Pearse, Bronagh Gallagher, Pascal Scott, Clelia Murphy    Nazione: UK, Irlanda   Produzione: Forward Films, High Treason Productions, Irish Film Board   Durata:   94 min.


venerdì 18 ottobre 2013

Quando l'anti-ideologico diventa ideologico: alcune note su certi stereotipi lacaniani nella critica cinematografica (ripensando al dibattito su "Gravity")






Credo sia interessante il dibattito che da qualche tempo a questa parte si è acceso trasversalmente tra vari blog di cinema e altro, e che ha visto dividersi vari blogger tra coloro che individuano certo cinema odierno etichettandolo senza se e senza ma come "hollywoodiano" o "disneyano" (Elvezio Sciallis), e altri (compreso il sottoscritto, ma anche Lucia de "Il giorno degli zombie", credo) che preferiscono operare distinguo più cauti rispetto alla valutazione di certi autori contemporanei che a mio avviso hanno cose interessanti da dire e le dicono (James Wan è uno di questi, sebbene criticabile da vari punti di vista, come molti altri registi più indie e creativi di lui, vedi il bravo ma anche presuntuoso  Pearry Teo,
ma sono solo esempi). Sul blog di Simone Corà il dibattito su tali argomenti si è acceso e infittito dopo la visione di "Gravity", e dal momento che mi sembra che tale dibattito meriti di essere continuato ed approfondito, procedo qui ad esprimere alcune mie ulteriori riflessioni a riguardo. Già in un mio precedente post in risposta ad un articolo di Elvezio avevo cercato di individuare una sorta di schema concettuale implicito alla base delle sue argomentazioni, e tale schema mi  pareva rimandasse ad una certa influenza del pensiero di Jaques Lacan tra le righe delle sue argomentazioni. Vorrei qui esplicitare meglio questa ipotesi, evidenziando quanto, in Lacan, il dominio (tirannico) del Simbolico-Linguistico sull'Immaginario, autorizzi molti blog di critica cinematografica a buttare al macero alcune opera che a mio avviso abbisognerebbero di altra e più fine interpretazione. La chiave di volta dello strutturalismo psicoanalitico di Lacan è il significato del simbolo fallico, elemento che permea tutti i suoi scritti, e che, secondo Lacan,
fonda l'Inconscio del soggetto tout-court. Tale significato si correla alla potenza paterna, alla proibizione, alla Legge, al fallo come oggetto del desiderio materno, desiderio che nasce dalla mancanza. E' il fallo che struttura tutta la funzione simbolica, il resto, secondo lo psicoanalista francese, è aria fritta, è Immaginario, è Walt Disney, sia dal punto di vista cultarale in generale, che da quello più specificamente psicoanalitico. Tale approccio, tuttavia, come scrive Roberto Speziale Bagliacca in un suo interessantissimo saggio, rimuove il non banale fatto che "Le proposte di Lacan non pare risolvano, però, con conseguente congruenza i problemi dell'organizzazione psichica e della conoscenza, nè per gli psicoanalisti che non siano di stretta osservanza lacaniana, nè per gli studiosi del linguaggio" (Speziale Bagliacca, 1982). Ma è Umberto Eco in "La struttura assente" (1968) a portare avanti una critica essenziale al lacanismo, la cui ricerca, scrive Eco :"...se impostata con rigore, deve darmi sempre e comunque, al di sotto delle variazioni su cui si esercita, lo stesso risultato; e ricondurre ogni discorso ai meccanismi dell'Altro che lo profferisce. E poichè questi meccanismi sono ormai noti in partenza, la funzione di ogni ricerca non sarà altro che di verificare l'Ipotesi per eccellenza. In conclusione ogni ricerca si rivelerà vera e fruttuosa nella misura in cui ci darà quel che sapevamo già. Non vi sarà scoperta più folgorante , nel leggere strutturalmente l'Edipo Re, che lo scoprire che Edipo aveva il complesso di Edipo: perché se si scoprisse qualcosa in più, questo in più sarebbe un di più, una sorta di polpa non sufficientemente rosicchiata che ricopre l'osso della determinazione prima". Tale "determinazione prima" è appunto il simbolo fallico-paterno. Pongo in grassetto l'ultima proposizione di Eco poichè la ritengo metaforicamente centrale e illuminante di certa critica cinematografica che a mio avviso è vittima (inconsapevole?) di tale assunto lacaniano. La "polpa", questo di più, coincidono  con quell'elemento immaginario/visivo che si discosta dal Simbolico, inteso come determinazione ultima del Simbolo Fallico, il Linguaggio, il Logos. Quella di Lacan è, in sintesi, come ci ricorda ancora Speziale Bagliacca, una teoria che possiede una sua intrinseca natura fallico-narcisistica di stampo autoritaristico, che desidera eliminare con violenza il materno/immaginario dal suo territorio, ma che diventa anche l'antitesi di una conoscenza realmente aperta e scientifica, che magari un giorno potrà scoprire un di più. Si tratta di un dominio culturale predatorio, che vediamo rispecchiato storicamente dall'atmosfera stalinista e autarchica che caratterizzò l'Ecole lacaniana a Parigi negli anni '70 (basti dire che l'unico che poteva firmare i suoi articoli sulla rivista Scilicet era Lacan stesso,
mentre gli altri analisti si autoescludevano masochisticamente da tale possibilità, e Lacan era perfettamente d'accordo!). Il dominio spietatamente e narcisisticamente fallocentrico del pensiero lacaniano respinge ogni altro vertice interpretativo: l'infantile, il materno, l'Immaginario, il contenitivo, così come tutta la psicoanalisi post-freudiana (Winnicott, Klein, Mahler, Bion etc.), vengono messi alla porta con un sorriso sardonico, perché l'Inconscio è strutturato come un Linguaggio, e il Linguaggio è il Simbolico, e il Simbolico è rappresentato dal Fallo paterno. Attenzione: non dalla funzione paterna o dal pene paterno, bensì dal Fallo, non si stanca mai di ripetere Lacan, cioè da un organo maschile priapicamente, maniacalmente sempre eretto, mussolinano, la cui funzione è essenzialmente antidepressiva. Il "discorso è iniziato prima di noi", soleva affermare Lacan, sottolineando del Simbolico l'inesorabilità quasi nazista nel suo porsi come ineludibile: è questo il cuore della sua teoresi, che si autolegittima arbitrariamente in nome di una interpretazione del "vero Freud" (Lacan usava spesso dire che la sua teoria fosse infatti un "ritorno a Freud"). Una certa insistenza odierna sull'importanza della SCRITTURA, del RACCONTO, della SCENEGGIATURA nella valutazione di un film, non fa che ripercorrere questo tipo di concettualizzazione. Un'insistenza che riecheggia anche in altre considerazioni relative ai veri "barbagianni freudiani" che (loro sì!) sanno cosa sia il VERO Perturbante nel Cinema (vedi post di Lenny Nero di cui ho discusso nell'altro mio post precedentemente citato). L'implicito stereotipo fallico-narcisistico lacaniano che presiede a un certo tipo di critica cinematografica tranchant, ovviamente considera come "noioso" (Wan, Cuaròn, et al.) tutto ciò che adombra quel di più di immaginario, di "sognante" che un film può portare. Tutto questo di più portato, deve essere invece de-portato dal momento che devia dalla determinazione di base, come sottolinea Eco, e si limita a diventare, umanamente, umilmente pene e non più Fallo. In sintesi, ciò che desidera porsi come critica anti-ideologica (ed era questa una delle principali seduzioni e mire lacaniane) si trasforma a sua volta in Ideologia fallica all'ennesima potenza, per non affrontare la "depressione" di una potenza umana normale, peniena e antifallica. Si tratta di una teoresi che sottende fondamentalmente una svalutazione del femminile-materno, inteso come desiderio illimitato che può trovare il suo limite solo nella Legge del Padre. Ecco perché tutta un'area psicoanalitica fondamentale anche per gli sviluppi odierni della pratica della psicoanalisi (area che va da Winnicott a Bollas, da Fonagy a Ogden) e che sottolinea l'importanza fondativa della relazione originaria madre-bambino per lo sviluppo mentale, veniva considerata da Lacan solo fuffa inutile se non dannosa. Il passato, se non è sufficientemente elaborato, ritorna tuttavia, e il fantasma di Lacan e del suo narcisismo anti-materno, si aggira ancora, indisturbato, tra le mille recensioni che leggiamo tra le pieghe dei nostri blog, alcuni dei quali sono chiusi ai commenti, proprio come faceva Lacan con Scilicet. Ecco dunque che "Gravity" è una schifezza perché "non c'è il racconto", ma solo l'immagine, cioè lo sguardo, cioè il significante primario della relazione non parlata ma sensoriale e preverbale tra madre e bambino. Ecco che "Pacific Rim" viene bollato come ideologico, tanto quanto "The Conjuring", mentre, non si sa per quale motivo il



sudcoreano "The Host" di Bong (2006) viene osannato come un capolavoro, forse proprio e solo perché non statunitense direi, oppure anche lo stesso "Hellboy" di Del Toro. Insomma, c'è molta confusione sotto il sole della blogsfera, soprattutto quella parte che si occupa spasmodicamente del cosiddetto Cinema Perturbante, participio/sostantivo molto freudiano, ma usato spessissimo in molto poco freudiano.  Una nebbiosa confusione che a mio avviso deriva dal fantasma di Lacan che ancora si aggira fallicamente per l'Europa, indicando seduttivamente, come il Pifferaio Magico della nota fiaba (il flauto è in fondo un simbolo fallico) la direzione giusta dove trovare la Verità, il Vero Freud, la Vera Autenticità estetica di un film. Ma torniamo al l'ideologia fallico narcisitica lacaniana: cosa si cela dietro questa "corazza" teorica spesso implicita, agita in molto recensioni, le cui mire credo sia utile svelare? Si cela una forma mentis antimaterna, dicevamo, ma anche una volontà "antidepressiva". In una parola possiamo dire che dietro questa corazza che inneggia al Simbolico come una spada capace di sciogliere tutti i nodi critici



, si cela l'onnipotenza di un bambino incapace di elaborare il lutto per la perdita dell'oggetto, l'incapacità di elaborare tale depressione e il capovolgimento magico di questa incapacità nell'atteggiamento tirannico di un bambino crudele e avido in cui nasce il seme di una personalità autoritaria. Il complesso corpus teorico lacaniano tradisce un'ideologia di questa natura. Cosa sono, peraltro i molti villain crudeli e massacratori di molti film horror, se non questo super-io sadico che tiranneggia la vittima deputata, se non proprio questo Padre Fallico che rade al suolo in modo solo castrante e non protettivo (come un padre normale e non solo superegoico-limititativo dovrebbe essere?). Cos'è lo spettatore se non il bambino che desidera elaborare il suo lutto mediante il ritrovamento dell'oggetto perduto attraverso il suo Immaginario mediato ed evocato dall'Immaginario filmico? Il Cinema non è forse uno spazio dell'Illusione che contribuisce anche ad una maggiore conoscenza del proprio Sè emotivo? Perché considerare come "spazzatura" molte opere cinematografiche schiacciandole in una critica puramente linguistica che, autoritaristicamente,
ne sopprime gli intenti onirico-visivi? Il sogno , per Freud, non era infatti solo "metonimia", "metafora", cioè non era solo "racconto" (come vorrebbe farci credere Lacan), ma anche "regressione alla raffigurabilià" mediata dall'affetto, dove la "sceneggiatura" riveste un'importanza piuttosto relativa rispetto a desideri ed emozioni in gioco. Molti altri elementi potrei discutere qui, ma decido di fermarmi, sperando di aver contribuito a continuare un dibattito che vorrebbe avere lo scopo di favorire la crescita di un pensiero di gruppo fra i blogger che si occupano di cinema (perturbante e no), e senza voler fare l'"intellettuale", come qualcuno mi ha detto con modalità anche in quel caso un pò aristocraticamente "lacaniana".

domenica 13 ottobre 2013

I spit in your grave 2, di Steven R. Monroe (2013)



Katie è una giovane donna che ha un sogno nel cassetto: diventare una modella. Quando arriva a New York alla ricerca di agenzie fotografiche cui inviare il suo book, non potrà immaginare l'incubo in cui ben presto finirà. Rapita e portata da uomini sconosciuti, Katie subirà ogni tipo di vessazione e tortura. Data per morta dai criminali che l'hanno rapita, viene abbandonata chiusa dentro ad un baule. Ma per lei non è ancora il tempo di morire. Il tempo che le si apre davanti è invece quello della vendetta...

Una minestra riscaldata è quella che è. La può fare anche Gualtiero Marchesi, ma se è riscaldata c'è poco da fare. E' quello che possiamo dire in esergo al commento di questo film di Steven R. Monroe, che pure aveva mostrato felici ispirazioni nel suo primo "I spit in your grave" (remake) del 2010, rifacimento dell'originale di Meir Zarchi del 1978. Rifacimento molto omaggiante e che vedeva lo stesso Zarchi tra gli sceneggiatori. Monroe desidera battere il chiodo sullo stesso legno, ma questa volta chiama all'opera due sceneggiatori freschi freschi e cioè Neil Elman e Thomas Fenton, che sono però freschi fino a un certo punto, avendoli già visti all'opera in altri film del tutto secondari se non dannosi per la storia del cinema, come ad esempio "Saw IV" (2007) (Fenton) e "Mongolian Death Worm" (2010) (Elman). I due si mettono a tavolino e scrivono una storia a mio avviso pallidissima, a tratti stucchevole (a partire dalla scelta della ragazzina con il sogno di diventare fotomodella, ma su tale aspetto torneremo), e soprattutto cotta e stracotta. Lo script punta molto sulla fragilità e solitudine di Katie (Jemma Dallander) arrivata in un'anonima, fredda e impersonale New York a cercare fortuna: è una ventenne qualsiasi, carina ma non bellissima, che si suppone sia fresca di uno fra i tanti College della provincia statunitense. E' Capuccetto Rosso, e sua mamma la manda tranquillamente nel bosco senza curarsi del lupo cattivo. Lo script ci dice  questo a chiare lettere e costruisce tutta la prima parte del film su tale mitema banalissimo, frusto oserei dire e che vorrebbe appoggiarsi su una critica sociale della cultura dell'immagine cui tante adolescenti odierne sono sedotte, senza tuttavia apportare nulla di originale a tale critica, ma anzi, al contrario, spostando il tutto sul piano di un conflitto maschile-femminile di un semplicismo sconcertante e anche pericoloso. Il film a tratti sembra addirittura, a mio modesto modo di vedere, strizzare l'occhio a certo cinema à la Eli Roth, con quello spostamento di luogo in Bulgaria, ambiente slavo, transilvanico, nota patria del Dracula stokeriano. Anche in questa strizzatina d'occhio ravviserei una certa ambiguità nel voler guidare seduttivamente per mano lo spettatore in territori cinematograficamente consueti, per poi procedere nell'allestimento di una seconda parte, dedicata al revenge, che vorrebbe stordire lo spettatore mediante facili identificazioni con la vittima. Se nel primo film del 2010, Munroe era riuscito a confezionare un'opera quantomeno apprezzabile, commemorativa e innovativa insieme,  innanzitutto non infiltrata da ipocrisie e rimandi seduttivi di qualsiasi natura, presentandoci una protagonista a tutto tondo, e attraverso una regia sufficientemente fredda, in questo secondo esperimento il regista newyorkese si perde tra le scartoffie di Elman e Fenton, lasciando loro, purtroppo, la libertà di organizzare un gruppo di cattivi molto poco credibile. Anzi, i due sceneggiatori scivolano, rompendosi il collo, proprio sull'idea di presentarci  una famiglia disfunzionale bulgara dedita al rapimento di ragazzine statunitensi per poi darle in pasto alle pulsioni ignobili di tutti i parenti di volta in volta riuniti per l'occasione. E scivolano perché già quest'idea è troppo macchinosa e bolsa, e poi perché la resa finale di tutti gli attori, così come dell'armamentario sadico che mettono in pratica, risulta molto poco efficace. Ma torniamo al tema della vendetta di Cappuccetto Rosso sui lupi cattivi, e sul conflitto maschile-femminile, così come ci viene presentato dalla poetica di Munroe. Ritengo sia questo il punto più dolente di questo film. Tutta la vendicatività femminile è rappresentata senza alcuno spessore, ed anche con un certo "maschilismo di ritorno" che si manifesta attraverso una sostanziale processo di identificazione della  protagonista con la ferocia maschile. Sembrerebbe che il regista ci voglia convincere che l'unico strumento a disposizione di Katie sia un desiderio mimetico che capovolge biblicamente il male inferto a lei nel suo opposto speculare. Si tratta quindi di un'operazione di rispecchiamento narcisistico, secondo cui il femminile trova una sua linea espressiva solo nel riprendere temi maschili, anche nel sadismo. D'altra parte Katie, fin dall'inizio desiderava entrare nell'occhio fotografico dell'uomo-fotografo, solo questo la muove, e non altro. Credo sia questo elemento sottilmente e implicitamente maschilista, che ci presenta cioè una ventenne avviluppata nel desiderio dell'Altro-Maschile, l'aspetto più violento del film e che mi ha fatto cadere in disgrazia Monroe dopo la buona prova del suo precedente film. La violenza presentata dalle sequenze di tortura, soprattutto quella di lei sui maschi, prende solo il tempo che trova e diventa subito minestra riscaldata, e neanche cucinata da Gualtiero Marchesi, come dicevo, ma da un Monroe qualsiasi. "I spit in your grave 2": da evitare per i vari motivi fin qui descritti, ma in particolare per la sua colpevole ambiguità.
Regia: Steven R. Monroe  Soggetto e Sceneggiatura: Neil Elman, Thomas Fenton  Fotografia: Damian Bromley    Montaggio: Kristina Hamilton-Grobler   Cast: Jemma Dallender, Joe Absolom, Yavor Baharov, Aleksandar Aleksiev, Mary Stockley, Michael Dixon, Valentine Pelka    Nazione: USA   Produzione: Cinetel Films    Durata: 106 min.
   

mercoledì 9 ottobre 2013

Gravity, di Alfonso Cuarón (2013)


La brillante dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) è alla sua prima missione spaziale, insieme all'esperto astronauta Matt Kovalsky (George Clooney) che è al suo ultimo viaggio prima della pensione. Quella che doveva essere una tranquilla passeggiata spaziale di routine per la manutenzione del telescopio Hubble, si trasforma in una esperienza catastrofica: una pioggia di detriti derivanti da un satellite russo che è andato distrutto, li investe improvvisamente mentre stanno ultimando il loro lavoro fuori dallo Shuttle. Vengono così a trovarsi soli nel silenzio dell'universo, in totale assenza di gravità. Fluttuanti nell'oscurità, non hanno apparentemente chance per salvarsi, anche per via dell'ossigeno che va via via esaurendosi. Forse l'unico modo per sopravvivere è avventurarsi nello spazio alla ricerca della salvezza...

Nella lingua inglese "gravity" possiede come in italiano diversi, ambivalenti e "primordiali" significati tra cui quelli di "gravità, serietà, austerità", ma anche quello di "gravità" in senso fisico e di "peso specifico" (Grande Dizionario Hazon Garzanti Inglese-Italiano Italiano-Inglese). Alfonso Cuarón condensa tutti gli aloni semantici che gravitano (anche linguisticamente!) intorno a questo sostantivo, in un'opera di grande spessore estetico, in un film che è anche un grande generatore di domande irrisolte, di riflessioni insature sulla condizione umana. Appartenente a tutti gli effetti al recente filone di quella "fantascienza esistenziale" di cui "Moon" di Duncan Jones (2009) è uno splendido esempio, "Gravity" si avvale di un comparto tecnico che si sposa magistralmente con una regia degna di Kubrick, quanto ad ossessività e attenzione al visivo inteso come veicolo primario dei sentimenti umani più profondi. Un visivo panoptico, dagli orizzonti onnicomprensivi e onnipervasivi, dove la luce è protagonista indiscussa e creatrice insieme di forma e sostanza del racconto. Certo, occorre avere dalla propria parte un direttore della fotografia maniacalmente dedito al suo mestiere perché il risultato sia coerente con le aspettative della regia. E Cuarón ha in questo caso dalla sua parte lo stesso Emmanuel Lubezki che aveva lavorato alle luci di "The Tree of Life" di Terrence Malick nel 2011, nientemeno. Dopo una tale esperienza, che immagino esistenziale, catartica, più che solo professionale per Lubezki, arrivare sul set di "Gravity" deve essere stata una vetta non molto ardua sebbene impegnativa per il direttore della fotografia che Cuarón ha saggiamente preso a bordo della sua ciurma. Le sequenze iniziali della pioggia di detriti che sconvolgono schizofrenicamente la calma della "passeggiata nello spazio" della dottoressa Stone e dell'astronauta Kovalski, sono un esempio mirabile dell'importanza essenziale della fotografia in qualsiasi film, e a maggior ragione in un film di cosiddetta "fantascienza". Dato a Cesare quel che è di Cesare relativamente all'uso della luce e della palette cromatica, passiamo a dire qualcosa circa la qualità del costrutto narrativo dello script, che è essenzialmente suddiviso in due parti. I due tempi stanno tra loro in un equilibrio non sempre perfettamente stabile, e questo va detto senza se e senza ma. Nella prima parte domina il senso di vuoto, della perdita dei punti di riferimento essenziali alla sopravvivenza, della precarietà assoluta dell'individuo posto di fronte a un universo sconosciuto e ostile che è anche, metaforicamente, l'universo dell'Incoscio, l'In-cognitus, ciò che ci attraversa impersonalmente sia fuori che dentro di noi fin dai primi istanti del nostro venire al mondo. In questa prima parte il film si presta egregiamente a rappresentare infatti le emozioni travolgenti implicate in ciò che la psicoanalisi usa definire "cambiamento catastrofico", e che ha come suo prototipo il trauma della nascita, momento esiziale per il successivo sviluppo del soggetto. Le sequenze iniziali in cui la dottoressa Stone precipita nel vuoto roteando su se stessa rimandano infatti a quel tipo di trauma iniziale che poi la sceneggiatura sviluppa come conflitto interno alla protagonista tra l'abbandonarsi alla morte oppure lottare per la vita tornando coi "piedi per Terra". E qui capiamo meglio anche l'uso che il regista fa del titolo, "Gravity", così denso di chiaroscuri perturbanti e ambivalenti (resi assai bene dalle inquadrature del volto sfondato e amorfo di uno degli astronauti della missione, crivellato dalla pioggia di detriti). La seconda parte del film, per certi versi più debole, riecheggia alcuni stereotipi cinematografici peraltro egregi, come "Alien" di Ridley Scott (1979), con la protagonista femminile che riesce miracolosamente a trovare rifugio nel nulla dell'universo che la circonda, lottando disperatamente per la salvezza, come la Ripley di "Alien". Aldilà degli stereotipi Cuarón riesce tuttavia a virare verso confini sconosciuti del genere fantascientifico e ad esplorarli con cipiglio quasi filosofico, senza mai sfiorare il concettoso o il facilmente leopardiano, ma rimanendo sempre entro il perimetro di un intrattenimento, sempre molto pensato e che "da da pensare". Molti gli spunti del film che fanno riflettere (a partire dalle vicende dei due protagonisti intesi come individui) sulla condizione umana intesa come situazione universale in cui il soggetto esiste solo in quanto in relazione ad un legame umano che lo costituisce. La coppia Stone-Kovalski, legata al cavo delle tute da astronauta, nelle sue imprevedibili fluttuazioni nell'oscurità dello spazio, evocano l'idea della precarietà dell'uomo e del suo bisogno assoluto di legami affettivi e relazioni intersoggettive. Il film prende una piega molto "d'azione" nella sua seconda parte, fino al concitato finale al cardiopalma, che però "atterra" catarticamente su radure di speranza, imprevedibilmente, potremmo dire, considerata l'odissea cui è sottoposta la dottoressa Stone. Apprezzabile questo finale, perché apre al futuro, non ripiegandosi su una masochistica e sterile autocommiserazione. Il consiglio, se possiamo chiamarlo così, visto che non sono certo qui per dare consigli a nessuno, è quello di andare senza dubbio a vedere questo film, vera esperienza estetico-visivo-emotiva molto intensa, molto simbolica.
Regia: Alfonso Cuarón   Soggetto e Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón, Rodrigo Garcia   Fotografia: Emmanuel Lubezki  Montaggio: Alfonso Cuarón   Cast: Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris, Orto Ignatiussen, Paul Sharma, Amy Warren Nazione: USA, UK Produzione: Warner Bros., Esperanto Filmoj, Heyday Films   Durata: 90 min.   

  

sabato 5 ottobre 2013

La maledizione di Chucky, di Don Mancini (2013)



Costretta fin dalla nascita a stare su una sedia a rotelle, la giovane Nica ha da poco perso la madre. Per il funerale della donna, Nica si troverà costretta a vivere con Barb, sua sorella maggiore, donna attraversata da interessi famelici e perversioni inconfessate. Insieme alla donna abiteranno temporaneamente con lei Jan, marito di Barb, Jill, la babysitter di Alice, 5 anni, figlia di Barb e Jan. Il gruppetto familiare sarà ben presto coinvolto in una serie di "sfortunati eventi" che sembrano tutti rimandare a Chucky, una bambola che è stata appena recapitata da un corriere espresso presso la casa di Nica...

"La Maledizione di Chucky", titolo italiano dell'originale "Curse of Chucky" di Don Mancini, è un film debolissimo, scritto malissimo, girato con banalità e superficialità estreme e che non riceve supporto da nessun dei comparti produttivi che lo compongono: fotografia (scialbissima ed inutilmente cupa in alcuni punti), musiche (pompose e assordanti a commentare sequenze che non procurano la benché minima inquietudine), effetti speciali (ridicoli e totalmente irrealistici), sono tutti elementi che al contrario aiutano a mandare velocemente al macero una pellicola che si propone come il sesto capitolo della saga di "Cucky la bambola assassina", nata da un'idea dello stesso Don Mancini nei lontani, lontanissimi anni anni '80, e di cui ricordiamo qui di seguito la cronologia per motivi di filologia storica: "La bambola assassina" (1988), di Tom Holland; "La bambola assassina 2" (1990), di John Lafia; "La bambola assassina 3" (1991), di Jack Bender; "La sposa di Chucky" (1998), di Ronny Yu; "Il figlio di Chucky" (2004), di Don Mancini. Rispetto ai citati precedenti non c'è in realtà molto da dire su questo film, che parte malissimo con l'introduzione di questo quadretto familiare americano, del tutto inverosimile, finto come un prodotto di supermercato di serie B, privo di qualsiasi spessore introspettivo-psicologico, e con la tragica aggiunta, molto trendy, della scenetta lesbo tra Barb e Jill, forse volta a sedurre qualche adolescente-ultimo-dei-mohicani che ancora non conosce le delizie seduttive di internet (ma quando mai?). Don Mancini la tira in lungo (per circa 40 minuti, non so se mi spiego) con i parenti di Nica, concludendo il prologo infinito con la sequenza della cena che è quanto di più insipido e incolore abbia mai visto in un film cosiddetto "perturbante". Come insipidi e incolori sono tutti gli attori del cast, a partire dal sacerdote, personaggio plastificato e superfluo quant'altri mai. Passi pure il sacerdote, che morrà rapidamente decapitato com'è d'uopo, ma che dire della protagonista, Nica? Una Fiona Dourif in carrozzina che forse avrebbe bisogno di tornare a studiare un pochetto recitazione in una scuola a sua scelta, considerata una performance che produce un effetto molto più intenso di un sonnifero, e dovrebbe quindi essere suggerita come sponsor di qualche casa farmaceutica, oppure indicata come presidio medico ai medici di base. L'azione soporifera della Dourif si diffonde a tutto il resto del cast, e si muove entro una sceneggiatura che sembra costruita apposta per attori che appunto in costante crisi narcolettica invece di lavorare, almeno cercando di iniettare qualche seppur minima dose di adrenalina nelle vene dello spettatore. La sceneggiatura, giustappunto: una storia ondivaga e improbabile, senza nessuna spina dorsale, tutta orchestrata su espedienti creativi che mio figlio di 8 anni avrebbe saputo immaginarsi molto meglio, vedansi gli esempi ridicolissimi della videoconferenza di Barb e Jill dalle rispettive camere da letto, oppure la sequenza in cui Jan si mette i tappi nelle orecchie per dormire e in questo modo non sente gli urli di sua moglie mentre viene uccisa da Chucky, in soffitta. Neppure il ricorso al gore assume una qualche funzione bene in questo film, nemmeno la sequenza dell'enucleazione di Barb riesce ad essere girata con una qualche tonalità davvero horror, per tacere della sequenza in cui Nica afferra per la lama il coltello di Chucky mentre si trova chiusa nell'ascensore. Deve essere proprio scema se desidera tagliarsi a fette le mani da sola, la povera, sfortunata ragazza. Utilizzo, come vedete, un tono volutamente ironico poichè "La maledizione di Chucky" in fondo fa solo tenerezza per la futilità e vacuità estetica totale con cui è pensato, scritto e girato. Sorprende che un regista come Mancini, ispiratore del primo film sulla bambola assassina, e quindi un mito vivente per molti fan della saga, non abbia sentito fortemente la responsabilità di essere dietro la macchina da presa nel girare nel 2013 un altro episodio di una serie così famosa e importante per il genere. Problemi di budget, di longa manus della produzione? Può darsi benissimo, tuttavia la mia impressione è che si tratti solo di assenza di neuroni, cioè di pensiero. Punto e basta. Due parole, per concludere queste mie considerazioni, sul bambolotto infernale, al cui interno alberga l'animo malvagio del famoso serial killer che risponde al nome di Charles Lee Ray. Personalmente a me non ha mai fatto nessun effetto particolare, anzi l'ho sempre trovato insulso e poco perturbante, a parte il primo film, naturalmente, con la sequenza della sparatoria finale in cui Ray cade nel negozio sulle scatole di bambole (sequenza con un certo suo carattere suggestivo e che tutti ricordiamo). In quest'ultimo film di Mancini il bambolotto è semplicemente grottesco e non muove nessuna angoscia, tanto meno lo possiamo ascrivere ad una qualche area della categoria del "Perturbante". Torniamo a leggerci Freud, piuttosto, quando ci parla dell'inquietante racconto di E.T. Hoffmann, "Il mago sabbiolino". Forse proprio Freud dovrebbe leggere Mancini prima di rimettersi all'opera, altrimenti occorre inventare una nuova categoria o un nuovo genere per i film che ci propone. Categoria limitrofa a quella che contiene i film con Alvaro Vitali, sebbene non precisamente coincidente con essa. "La maledizione di Chucky": da evitare come, appunto, una maledizione.     Regia: Don Mancini   Soggetto e Scenggiatura: Don Mancini  Fotografia: Michael Marshall  Montaggio: James Coblentz   Musiche: Joseph LoDuca Cast: Brad Dourif, Fiona Dourif, Danielle Bisutti, Maitland McConnell, Chantal Quesnelle, A. Martinez, Brennan Elliott   Nazione: USA   Produzione: Universal 1440 Entertainment   Durata: 97 min.  

giovedì 3 ottobre 2013

I bastardi di Pizzofalcone, di Maurizio De Giovanni (2013)


Anno: 2013   Editore: Einaudi. Collana Stile Libero   Pagine: 316, brossura  ISBN: 9788806215736   Euro:  18,00  

I nuovi investigatori che compongono il commissariato di Pizzofalcone, a Napoli, devono sostituire alcuni loro colleghi da poco arrestati per aver compiuto un grave reato legato allo spaccio di cocaina. Tra loro il commissario Giuseppe Lojacono, siciliano con un passato molto chiacchieratom, ma reduce da un grande successo investigativo: ha catturato il serial killer noto come Coccodrillo. I nuovi investigatori non hanno neanche il tempo di conoscersi, che subito devono confrontarsi con delicato caso di omicidio nell'alta società napoletana. Mentre Lojacono, insieme al suo bizzarro collega Aragona, si muove tra esclusivi circoli nautici e appartamentui sul lungomare, i suoi compagni Di Nardo e Romano cercano di capire come mai una giovane e bellissima ragazza non esca mai di casa, mentre la città è squassata da una violenta e inaspettata burrasca fuori stagione...

Dopo questo lungo silenzio dovuto ad impegni di lavoro continuativi e pressanti che sembrano non finire mai, sono felice di riprendere il lavoro sul blog con questo post dedicato all'ultimo, bellissimo libro di Maurizio De Giovanni, che ormai credo si possa considerare il Fred Vargas italiano, a maggior ragione dopo questo "I bastardi di Pizzofalcone", che mi ha evocato ricordi relativi al famoso commissariato in cui il vargasiano Adamsberg appunto si muove. Quella di De Giovanni è tuttavia una ironia molto più amara di quella che attraversa i romanzi della scrittrice francese, sebbene i suoi personaggi si facciano comunque amare, e muovano spesso il riso, soprattutto, naturalmente, l'ispettore Lojacono, con quella figlia adolescente che sente per telefono dalla lontana Sicilia, e che lui pensava dolorosamente di avere perso, ma che l'adolescenza invece avvicina, perché i conflitti con la madre si fanno sentire e la figura del padre ritorna, dopo essere stata seppellita dalla virulenza del conflitto edipico. Da questo punto di vista direi che la parte migliore del romanzo è il finale, o per meglio dire l'ultima pagina, di cui ovviamente non dirò, ma che davvero lascia il lettore con un tenero sorriso sulle labbra, senza nulla togliere a tutto l'impianto narrativo che viene prima e che quell'ultima pagina prepara con maestria e tempistica perfette. I personaggi sono tutti costruiti con originalità e colti spesso "in soggettiva", all'interno dello loro vite private, tutte segnate da angoli bui, problemi di disfunzionalità familiare, micro-perversioni che ricordano molto il racconto "La carriola" di Luigi Pirandello. Le vicende personali dei "bastardi" di Pizzofalcone sono anche istantanee sociali molto indicative e salienti dei tempi di questa Italia di oggi che sembra aver smarrito un'identità e una comune etica da condividere comunitariamente. Mi ha colpito particolarmente il carattere della giovane Di Nardo, poliziotta cripto-omosessuale che finisce a Pizzofalcone per il suo smodato amore per le armi: notevole e suduttivamente ben narrata, la descrizione della serata della Di Nardo nel club privee. Anche gli accenti narcisistici di Aragona, con quella sua rischiosa abitudine di correre forte in macchina, sono resi in modo incisivo e insieme ironicamente distaccato. Dopo "Il metodo del coccodrillo", De Giovanni non poteva meglio continuare questa avventura, scrivendola con tonalità nuove ed inedite rispetto all'opera che fa esordire Lojacono: in questo suo nuovo romanzo De Giovanni sembra infatti quasi procedere per "libere associazioni", intercalando il corsivo dei pensieri sparsi dell'assassino ai vagabondaggi cittadini dei protagonisti, investigatori dal passato contorto e macchiato da colpe più o meno gravi. La struttura narrativa, aldilà del tono apparentemente ondivago e appunto associativo-fluttuante con cui è scritta, è solida, e ancora una volta si fonda shakesperianamente sui sentimenti più cupi e indigesti che albergano nell'animo umano: invidia, gelosia, sete di vendetta, ben delineando identificazioni tra vittima e carnefice, che infatti "uccide per amore", come l'Autore ci fa capire subito, fin dalle sue prime righe. Probabilmente il personaggio di Lojacono è qui figura più defilata rispetto a "Il metodo del coccodrillo", dove invece si impone dalla prima pagina all'ultima sottraendo spazio ad altri caratteri coinvolti nella vicenda. Possiamo dire che a De Giovanni interessa delineare la geografia del nuovo gruppo che ci presenta, piuttosto che soffermarsi sull'ispettore e sul commissario Di Palma, gran simpaticone, ma non ancora ben definito psicologicamente, e sul quale speriamo De Giovanni si soffermerà nei prossimi episodi della serie. Per il resto la scrittura è fresca, andante con moto, agrodolce quanto basta ad evidenziare le trasformazioni antropologiche cui stiamo assistendo e che la nostra società sta attraversando (basti solo citare la vicenda della ragazzina che non esce mai dall'appartamento in cui si trova...). Nell'ambito di un ambiente cittadino turbolento e anche metereologicamente poco ospitale, De Giovanni orchestra poi un intreccio thriller che non fa una grinza e che chiude il suo cerchio dando spessore all'intuizione del protagonista, cioè di Lojacono, restituendogli quella luce che era rimasta flebile a causa dello spazio che si prendono tutti gli altri personaggi. In sintesi stiamo parlando di un libro molto bello, godibile, ben scritto, a tratti poetico e dolente, che consigliamo senz'altro di leggere.