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giovedì 23 gennaio 2014

"La zampa della scimmia": un interessante esempio di letteratura perturbante nel cinema



La letteratura horror-perturbante da sempre ha ispirato registi e sceneggiatori. "The Monkey's Paw", ad esempio, ultima fatica del regista statunitense Brett Simmons, è tratto dall'omonimo racconto dello scrittore inglese William Wymarck Jacobs, pubblicato in Inghilterra del 1902.

Suggestiva la storia e davvero ascrivibile al Perturbante freudiano classicamente inteso: nel suo racconto "The Monkey's Paw", rimaneggiato da Simmons, Jacobs narra dei coniugi White nel momento in cui giungono in possesso di un amuleto misterioso, la "zampa di scimmia". Il potere di questo oggetto deriva dall'incantesimo di un vecchio fachiro secondo il quale era possibile esaudire tre desideri attraverso la zampa stessa. 

I coniugi White, pur sapendo che il possessore dell'amuleto, dopo aver espresso il suo primo desiderio, si era suicidato,  esprimono come loro primo desiderio la richiesta di 200 sterline. Il giorno dopo i coniugi ricevono la notizia della tragica morte del figlio, un incidente sul lavoro per il quale riceveranno come compenso 200 sterline. Nel tentativo di rimediare al loro errore, i White esprimono come secondo desiderio quello di riavere indietro il figlio morto. Il ragazzo ritornerà infatti, ma come zombie. L'unica alternativa che rimane ai due genitori è quella di utilizzare il terzo desiderio per annullare il secondo. 

Il film di Simmons rielabora in chiave moderna questo interessante spunto narrativo perturbante che emerge dal racconto di Jacobs. Qui sotto potete leggere una mia riflessione più accurata dell'opera del regista americano. 

http://www.latelanera.com/cinema/recensioni/recensione.asp?id=4262

venerdì 17 gennaio 2014

Riflessioni su: il caso Caterina Simonsen


Inauguriamo questa nuova tag facendo alcune riflessioni sul caso di Caterina Simonsen, di cui ha parlato lungamente e saggiamente il teologo Vito Mancuso sulle colonne di "Repubblica" qualche settimana fa. 

E' un caso che fa molto discutere, e giustamente secondo me, su certi fondamentalismi duri a morire anche nell'era della tecnologia diffusa, e che riescono oltretutto a circolare in modo delirante e farneticante sulle strade e autostrade della rete. 

Questa ragazza ha scatenato una disputa infinita tra animalisti e sostenitore della sperimentazione animale da far venire i brividi. Perchè questo bailamme? Semplicemente perché Caterina ha detto che deve la sua vita alla sperimentazione farmacologica su animali, il che sembrerebbe la pura e sacrosanta verità. Fatte queste considerazioni ragionevolissime e soprattutto esperite sulla sua pelle, si è tirata addosso gli strali da vari figuri circolanti in modo più o meno nomadico in rete. Qualcuno gli ha addirittura augurato la morte, ponendo su un piano più elevato la vita di un criceto alla sua. Si tratta proprio, direi, di un caso di fondamentalismo (in senso interiore, psichico, intendo) che prende a mio avviso una forma quasi psicotica, nel momento in cui idealizza in modo assoluto (come desiderio religioso-psicotico di Assoluto) le istanze animaliste. 

Mi sembra che questi animalisti non siano cioè lontani da certe declinazioni medievaleggianti di molte congregazioni religiose (cattoliche in particolare), per cui chi non condivide la stessa fede deve essere eliminato, è un nemico, un traditore. Si intravede qui un problema di carattere quindi identitario: uno si sente se stesso solo se appartiene a un gruppo religioso e ne condivide ossessivamente il credo. 

Freud, nel suo noto scritto del 1927 "L'avvenire di un'illusione", sosteneva (anche un pò ironicamente, il che non è da sottovalutare, infatti Freud non è mai stato di suo molto ironico), che "la religione è la nevrosi ossessiva dell'umanità", nel senso di un'organizzazione gruppale-istituzionale volta a irrigidire i confine tra sè e l'altro da sè, dal momento che l'angoscia che vi sta alla base è appunto quella del contatto, del "contagio", della contaminazione col "diverso pensiero". 

Anche Wilfred R. Bion, molti anni dopo Freud e allargandone il pensiero espandendolo in territori meno noti alla psicoanalisi classica, negli anni '50 e '60 parlava di psicopatologia del gruppo. I gruppi umani, secondo Bion sono caratterizzati da "assunti di base", cioè forme specifiche e riconoscibili in cui si addensano le emozioni peculiari che caratterizzano e identificano un gruppo. 

Il gruppo di "animalisti" a tutti costi che hanno attaccato sul web Caterina Simonsen credo possano essere ascritti alla tipologia dell"assunto di base bioniano dell' "attacco-fuga", nel quale la paranoia e la proiezione sull'altro di aspetti non riconosciuti di sè, imperano nel gruppo come meccanismi di difesa iper-patologici acuti. 

E' per i motivi suddetti che a Caterina, secondo questi personaggi inquietanti che si aggirano per la rete, oltre a Grillo et similia, viene augurata la morte, cioè solo perché questa ragazza inerme si presta molto bene ad assorbire le proiezioni aggressive di costoro che proiettano , dall'altra parte, sul criceto o simile animale, una parte di sè molto fragile, molto infantile, molto profonda, e che appunto perché profonda non vedono appartenere a se stessi. 

Bisogna quindi essere molto grati a Caterina se ha avuto il coraggio di fare un'operazione di scarto, di movimento laterale rispetto al movimento monolitico e massificatorio del gruppo degli "animalisti". Infatti ha avuto il coraggio di esprimere il suo pensiero soggettivo, nonché il suo amore per la vita, alla faccia della convinzione fideistica, totalitaristica dell'illusione che non ha un avvenire (e invece la vita sì). 

E considerate poi, per concludere, che chi scrive ama moltissimo gli animali, soprattutto i cani. Ho sempre avuto cani come compagni di vita, non ultimo il mio setter irlandese, Dylan, che purtroppo qualche giorno fa è stato  investito da un'automobile e adesso ha una zampa ingessata per frattura della tibia. E che tutta la famiglia sta curando con antidolorifici, e soprattutto con amore. 

lunedì 13 gennaio 2014

Rituali esoterici ed esiti fallimentari del cinema perturbante


Il cinema horror-perturbante si è spesso fatto ispirare dalle dinamiche delinquenzial-gruppali, e in particolare è il tema della "setta" (satanica o meno) ad aver sedotto molti registi, non ultimo ad esempio Timo Tajianto che nel secondo capitolo di "V/H/S" scrive e dirige un corto molto omaggiante nei confronti di quel sottogenere, e ci riesce anche bene per certi versi, rinverdendo un campo sempre molto difficile da coltivare. Ci prova dunque anche l'americano Mickey Keating con "Ritual" del 2013, film purtroppo debolissimo sotto ogni profilo, ma direi soprattutto sul piano della semplice rappresentazione di una setta esoterica che definire improbabile è un eufemismo generoso. Il budget di questo film è inesistente, d'accordo, ma qui è l'economia delle idee e del talento registico a fare innanzitutto difetto. Tali bugs originari determinano in quest'opera, in modo cristallino, il fallimento totale di ciò che possiamo definire Perturbante, almeno rispetto a come lo ha definito Freud nel suo saggio del 1919. Si veda, per ulteriori approfondimenti, anche il link qui sotto, dove ne parlo molto più diffusamente.

sabato 4 gennaio 2014

We are what we are, di Jim Mickle (2013)


I Parkers hanno sempre tenuto molto alle tradizioni di famiglia, e per dei buoni motivi. Nel chiuse delle stanze di casa sua, situata in una remota zona rurale dei monti Catskills, nello stato di New York, il patriarca Frank governa la sua famiglia con fervore rigoroso, determinato a mantenere le abitudini ancestrali della famiglia intatte ad ogni costo. Mentre una pioggia torrenziale sta flagellando da giorni il territorio circostante, una tragedia impensabile si abbatte su di lui e sulle sue figlie Iris e Rose: si tratta della morte della moglie, Emma. Le sorelle Parker saranno così costrette ad assumere responsabilità che vanno ben oltre quelle di una tipica famiglia americana. La pioggia incessante continua a inondare la loro piccola città, e le autorità locali iniziano a scoprire indizi che le portano più vicino al segreto che i Parkers hanno tenuto stretto per tanti anni...

"We are what we are" di Jim Mickle non è un remake. Potremmo forse pensarlo come una leberissima reinterpretazione del precedente omonimo di Jorge Michel Grau, da cui è consapevolmente ispirato, come recitano i titoli di coda, ma credo sia necessario subito sgombrare il campo di questo interessantissimo film da facili etichette, perché il film di Mickle possiede uno spessore e un'identità tutta sua e che va rispettata come tale. Il film di Grau è poi un'altra e ben diversa cosa, a parte l'ambientazione cittadina e suburbana. Mickle proviene peraltro da prove di un certo tenore, come "Mulberry Street" (2006) e "Stake Land" (2010) e qui si muove con mano esperta nel territorio dell'horror neogotico, capace di creare atmosfere molto particolari, di fotografare un clima familiare e la sua storia di disfunzionalità transgenerazonali in un modo che non credo abbia eguali. A partire dalle scelte di casting Mickle azzecca ogni mossa, ponendo in primo piano Mr. Parker, un Bill Sage cupissimo, roco, malato e diafano, fantasma vivente tra i suoi fantasmi familiari, febbricitante in senso lato in ogni inquadratura. Ottimi i primi piani di Frank, chiuso nella sua officina artigianale dove aggiusta orologi, oppure intento ad apparecchiare la tavola nella sala da pranzo della casa in stile coloniale dove abita con i suoi tre figli: Iris, una Ambyr Childers dagli occhi azzurri iniettati di un rosso sanguigno, sul quale immagino Edgar Allan Poe si sarebbe ispirato per la scrittura di un suo racconto; Rose, una Julia Garner efebica come una statua di gesso a cui un druido dei boschi ha saputo dare vita; Rory, il più piccino, interpretato dal piccolo Jack Gore, il cui cognome sembra essere di per sè tutto un programma, e la cui mimica imprime un quid in più di traumatico all'intera vicenda. Vicenda molto simbolica, allegorica si potrebbe dire, in cui un padre vuole uccidere letteralmente il futuro rappresentato dalla sua prole, inchiodando i suoi figli alla coazione rituale di un passato familiare ancestrale. E' questo il nucleo tematico che fa da architrave concettuale del film: i fantasmi del passato che attraversano l'inconscio di una famiglia, bloccano in una morsa di ferro ogni movimento di autonomia e di desiderio dei figli. Nel caso di Frank questi fantasmi sono rappresentati da una tradizione di cannibalismo, ereditato dagli avi, che ritornano in suggestivi, intensi flash back dove li vediamo muoversi fra i boschi e nelle grotte piovose delle Scatskills mentre dissezionano il cadavere di una donna e lo cucinano al fuoco vivo della legna come semplice bacon.  Si tratta di una ricostruzione storica cinematograficamente molto riuscita, antitetica a tutto ciò che potrebbe essere definito come pacchiano, considerato l'alto rischio di cadere in rappresentazioni grottesche di una perversione il cui tabù ancestrale fonda ancora oggi l'intera cultura umana. Anche i riferimenti scientifici alla Sindrome di Kuru, di cui sembrerebbe soffrire Frank, una sorta di Malattia di Creutzfeldt-Jacob scoperta negli anni '50 tra le tribù della Nuova Guinea dedite a rituali di cannibalismo, è resa da Mickle in modo leggero ed esteticamente ben integrato nel girato complessivo.  Come a voler dire che i fantasmi inconsci che ostacolano il fluire del Futuro e della Vita, oltre ad essere familiari sono anche filogenetici, vengono da lontano, da una primitività autodistruttiva su cui si fonda l'umano, tanto quanto i tabù e i limiti culturali che cercano di frenarne la proliferazione mortifera. Ma la riflessione su un inconscio familiare che grava come un coperchio di piombo sulle nuove generazioni, si dipana soprattutto attraverso le notevoli, lente, struggenti sequenze in cui Rose e Iris, leggendo il diario lasciato in eredità dalla madre morta,  preparano il cadavere di una ragazza rapita dal padre per essere poi cucinata e mangiata. Il corpo pallido della vittima sacrificale viene "disegnato" con tratti di rossetto rosso, che genera un paesaggio estetico come in una body-art ultimativa, mentre il sangue cola lento dalle scanalature apposite dell'antico tavolo di quercia. Saranno, come si conviene, Eros, l'Amore, il Desiderio, a scardinare la perversa ritualità atavica dei Parker. Memorabile è infatti la sequenza dell'amplesso, immerso nella natura dei boschi silenziosi, tra Rose e il giovane poliziotto Anders, in cui cogliamo finalmente uno spiraglio di salvezza per le due ragazze, e che si conclude barbaramente, con l'ombra del padre, capace ancora una volta di distruggere quel momento di trasformazione vitale. Questa sequenza mi ha ricordato la potenza visiva di "Lezioni di piano" (1993) di Jane Campion, perché sottolinea la castrazione sadica del desiderio, il capovolgimento di una scena primaria in cui è il padre a uccidere la coppia vitale, che si apre alla procreazione del futuro. Il crollo, la rovina dei Parker e del loro originario, narcisistico segreto è ormai alle porte, ben rappresentato dalla sequenza in cui il patriarca cerca di fermare le ossa dei cadaveri da lui macellati che scivolano lente ma inesorabili nel fiume, verso il mare di una verità finalmente rivelata. La bellezza di questo film si condensa tuttavia nella finale ribellione delle figlie, di Rose soprattutto, la minore delle due, che proprio in un finale spiazzante, sommamente catartico, uccide, non il padre in quanto tale, ma i fantasmi inconsci di cui Frank è imbevuto ed è portatore. E lo uccide come in una riproposizione dell'originario mito dell' "Orda Primordiale" di cui ci ha parlato Freud in "Totem e Tabù" (1913), sotto gli occhi di un rassegnato, tramortito Dottor Barrow. "We are What We Are" ha molti pregi, ma direi soprattutto quello di far riflettere lo spettatore sulla presenza di rappresentazioni inconsce nascoste e depositate nell'individuo, inconsapevoli ma che giungono da lontano, da un passato che non passa, che ci fa credere che la nostra identità significa fede cieca in quel passato, ma rispetto al quale è necessario un atto di drammatica ribellione da esso per poter aprire di nuovo i sentieri verso il futuro. Il film ha anche, certamente, qualche difetto, primo tra tutti quello di una lentezza a tratti eccessiva, estenuante, dandoci la sensazione (fallace) che non "succede niente". Ma non è così, anzi credo che Mickle utilizzi i tempi del montaggio appositamente per dare l'idea della lenta, metamorfica trasformazione catastrofica di una organizzazione familiare-istituzionale profondamente perversa, decaduta, ma dura a morire, come certi fantasmi storici, come certe credenze, come certe illusioni collettive. "We are what we are": da vedere assolutamente con l'aprirsi del futuro del nuovo anno. 
Regia: Jim Mickle  Soggetto e Sceneggiatura: Jorge Michel Grau, Jim Mickle, Nick Damici  Fotografia: Ryan Samul   Musiche: Philip Mossman, Darren Morris, Jeff Grace Cast: Bill Sage, Kassie Wesley DePaivia, Julia Garner, Ambyr Childers, Michael Parks, Kelly McGillis, Annemarie Lawless, Wyatt Russell    Nazione:  USA   Produzione:  Belladonna Productions, Memento Films International, Uncorked Productions Durata: 105 min.

  

mercoledì 1 gennaio 2014

New Year, New Tags



Buon 2014, innanzitutto, nella speranza che chi mi legge o di solito passa di qui abbia passato un divertente e catartico San Silvestro. Questo post di apertura del neonato anno nuovo si concentrerà su alcuni aspetti relativi ad un leggero ma significativo riassetto del blog, che vedrà l'introduzione di due nuove tags. E' da un pò che ci penso in verità. Il blog infatti, nato ufficialmente nel lontano 2003, è andato trasformandosi nella forma e nei contenuti, passando dalla obsoleta piattaforma di Splinder, a quella di Blogspot, sulla quale ci si trova bene, tutto sommato (la foto più sopra, del fotografo Juan Manuel Castro Prieto, faceva da sfondo al blog originario). Il cambiamento più significativo, non so se ve lo ricordate, avviene però qualche anno fa, quando il blog prende la decisa forma di un blog di recensioni cinematografiche, con particolare riferimento al Cinema Perturbante:
luogo di esplorazioni di quel particolare genere/sottogenere della cosiddetta Cultura Popolare cui i fratelli Lumiere hanno dato vita negli stessi anni in cui nasceva la Psicoanalisi attraverso l'opera di Sigmund Freud. Devo a Elvezio Sciallis, alla sua sensibilità, alle sue eccellenti recensioni sul blog che allora teneva su Blogspot, e ora tiene su Wordpress in Malpertuis alle sue riflessioni profonde su Cinema e Postmodernità, l'idea di quel cambiamento di passo di "Ulteriorità Precedente". Dopo un breve passaggio a HorrorMagazine, dove sono presenti alcune mie recensioni pubblicate anche qui, successivamente il blog è andato crescendo, sono aumentati i "lettori fissi" (non una folla, ma un numero per il nostro piccolo, più che soddisfacente), molte recensioni qui pubblicate sono state "catturate" da La Tela Nera, altre inserite, sotto forma di scheda o di recensione più lunga, nello Spazio Cinema del sito ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana: tutte piccole cose che tuttavia danno la giusta misura che si sta facendo un lavoro apprezzato, sebbene artigianale, come quello di Geppetto,
per così dire ( ma senza Geppetto non ci sarebbe Pinocchio, e la Balena, e la Fata Turchina, e tutta la storia che dalla modesta casetta di Geppetto è saltato fuori). Arrivati alla fine di questo ciclo (10 anni esatti: 2003-2013!) "Ulteriorità Precedente" sente dunque un pò il bisogno di dare il segno di una crescita che è realmente avvenuta. Sente il bisogno di spingersi un pò fuori dalla recensione filmica in quanto tale, e di volgere lo sguardo sul mondo complesso che viviamo, pur mantenendo solidamente l'imprinting recensorio (sia ben chiaro). Ecco dunque uno delle due nuove tag: Riflessioni su. In questa categoria andranno a cadere post che riflettono su avvenimenti di cronaca, di cultura, di politica che possono stimolare pensieri in varie direzioni. Partiremo ad esempio, e a breve, con un post sulla vicenda di Caterina Simonsen, di cui ha parlato molto saggiamente anche Vito Mancuso in un recente articolo su Repubblica. La seconda tag è un ritorno in realtà: Sogni e Visioni, un insieme di post derivanti da spunti narrativi liberi, in una "prosa poetica", visionaria, appunto, più legata ad esprimere in parole sensazioni ("di controtransfert positivo", potrei dire in termini psicoanalitici), che a uno stile argomentativo-critico come avviene invece negli altri post. Direi che questo secondo tag è stato certamente evocato da uno dei miei padri ispiratori psicoanalitici, e cioè da Christopher Bollas, che continuo a ritenere, insieme a Ogden, uno dei maggiori psicoanalisti viventi (molto winnicottiano aihmè, con buona pace di Lacan e dei suoi attuali allievi).
 Come vedete si tratta di due tag che asimmetricamente evidenziano due dimensioni entrambe attivate nell'atto dello scrivere, e cioè la dimensione della realtà esterna, nonché quella della realtà interna, quest'ultima fondantesi essenzialmente sulle free associations evocate dalla realtà esterna medesima. Questi due nuovi (e vecchi insieme, "ulteriori e "precedenti" diciamo) elementi che arricchiranno il blog, mi sembra rappresentino un buon modo per aprirsi mentalmente ad un 2014 che sia anche anno di riflessioni sulle forme di scrittura come quelle dei blog che teniamo, dei nostri laboratori di falegnameria amatoriale, delle nostre casette di Geppetto.                                                                                       (nell'ultima foto a destra, Christopher Bollas)