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sabato 29 ottobre 2011

The Thing, di M. van Heijningen Jr.(2011)



Antardide. In una base scientifica norvegese, un gruppo di scienziati entra in contatto con una forma di vita aliena che trovano congelata in una grotta poco lontana dalla base. Gradualmente, e loro malgrado, scoprono che questo essere alieno è in grado di mutare aspetto ed assumere le sembianze di qualsiasi forma di vita umana o animale che riesce a contagiare. Lo scongelamento della "cosa" provocherà eventi sempre più catastrofici...

Di cosa ci accingiamo a parlare? Nientemeno che del prequel di "La Cosa" (1982) di John Carpenter, a sua volta remake di "La cosa da un'altro mondo" (1951) di Howard Hawks. Ne deriva quindi la necessità di maneggiare con cura un oggetto estetico che si carica sulle spalle grossissime responsabilità, un oggetto, cioè, denso di rimandi, associazioni di idee, valenze storico-cinematografiche, e chi più ne ha più ne metta. Già a partire dall'idea di raccontarci cosa è successo nella base norvegese "prima" del narrato carpenteriano, implica dare un'interpretazione specifica al remake del 1982. Implica cioè pensare che il film di Carpenter   necessiti di un disvelamento narrativo, rispetto a un plot che si pensa in qualche modo incompiuto, o comunque meritevole di approfondimento. Implica porsi nell'ottica di misurarsi con un maestro, nonchè con una delle sue opere maggiormente mitopoietiche, archetipiche, irraggiungibili e irripetibili. Van Heijningen Jr. è consapevole di queste implicazioni? Direi proprio di no. Prima di tutto perchè appiattisce tutta la costruzione narrativa sugli effetti speciali,  aspetto importante, anzi sensazionale, nell'originale del maestro. Ma ciò che nel 1982 era davvero sensazionale e nuovo, qui, nel 2011, appare quasi obsoleto, inutilmente ripetitivo, per non dire urtante. Sono anni che ci vomitano addosso effetti speciali di ogni genere, e in questo nuovo "The Thing" la combinazione tra effetti speciali classici e CGI rende tutto il reparto make-up and special effects una specie di congegno baroccheggiante nel quale si intravede un notevole compiacimento, da parte del regista, a mostrare quanto sia bravo, quanto sia moderno, a riprodurre trasformazioni corporee incredibili: braccia appese a molli deformazioni scheletriformi con inserzioni di zanne dentate; facce che si separano da se stesse come in un quadro vivente di Francis Bacon, ma in presa diretta; lunghe chele serpentiformi che emergono dal ventre come i vibranti capelli di Medusa. La potenza dell'alieno è resa cioè attraverso suggestioni visive appunto tra il barocco e lo stile pittorico di Bosch ne "Il giardino delle delizie", e la povera paleontologa Kate Lloyd (una Mary Elizabeth Winstead piuttosto spenta e mutacica, in verità), è costretta a vedere fusioni di corpi umani e smembramenti improvvisi di arti che diventano ragni e scolopendre inimmaginabili, lei che pensava di tornarsene al suo laboratorio con qualche innocuo trilobite extraterrestre. Tutto questo baraccone effettistico è anche suggestivo, cioè ha la funzione di liberare la mente dai nostri impegni quotidiani, come se andassimo a vedere un rettilario australiano, nel week-end con i bambini. Purtroppo si tratta solamente di questo però, e il film brucia velocemente, come una sigaretta accesa in un giorno di vento. Il tema del "fuoco" è peraltro anche qui (come nell'originale di Carpenter) centrale, ma il problema narrativo del film è che anch'esso segue il destino carbonizzante de "la cosa", incendiata a più riprese dai lanciafiamme norvegesi. Un film, cioè senza alcuno spessore stilistico, dalla sceneggiatura monocorde, che a tratti riprende, con scarsissimo effetto, suggestioni da opere come "Alien" (1979), soprattutto nelle carrellate lungo i corridoi bui, alla ricerca (vana) del "mostro". La tensione, la paranoia di gruppo che abbiamo tanto apprezzato nel film di Carpenter, qui si riduce a qualche urlo, a qualche schiamazzo nella sala-bar della base, per poi passare subito a qualche bella trasformazione dell'uno o dell'altro membro dello staff. In estrema sintesi Matthijs van Heijningen Jr. non offre nessun contributo interessante al mito de "La Cosa": si misura col suo prestigioso predecessore semplicemente amplificando a dismisura l'elemento effettistico, e riducendo al minimo l'aspetto interattivo-gruppale, affossando del tutto ogni possibilità di sviluppo creativo di una storia dalle potenzialità considerevoli. Dopo che van Heijningen Jr. ci ha raccontato cosa è successo nella base norvegese, "prima" di ciò che accadde nella più famosa base statunitense, ci viene una gran voglia di tornare a vederci il film di Carpenter, i suoi bellissimi, intensi campi lunghi esterni sui paesaggi innevati, i suoi claustrofobici piani sequenza interni, lasciandoci alle spalle al più presto Kate e i suoi amici. Personaggi che dimentichiamo infatti molto presto, inghiottiti anche loro nella mucillagine biologica che invade ogni sequenza. "The Thing" (2011), è un prequel davvero inutile, a tratti ridondante nel volere stupirci a tutti i costi mostrandoci le multiformi deformazioni aliene, e con un prefinale che diventa un banale survival horror come tanti ne abbiamo visti. Musica (di Marco Beltrami), e fotografia (di Michel Abramowicz) non imprimono particolari spinte vitali ad un corpus filmico che si affloscia morendo su se stesso, di morte naturale, in un finale, ancora una volta inutilmente, tirato per le lunghe. "The Thing" (2011): film del tutto superfluo, comunque ininfluente, e da dimenticare. 
Regia: Matthijs van Heijningen Jr.  Sceneggiatura: Eric Heisserer, John W. Campbell Jr. Fotografia: Michel Abramowicz  Musiche: Marco Beltrami  Montaggio: Peter Boyle, Julian Clarke, Jono Griffith   Cast: Mary Elizabeth Winstead, Joel Edgerton, Ulrich Thomsen, Eric Christian Olsen, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Paul Braunstein, Trond Espen Seim, Kim Bubbs,    Nazione: USA, Canada  Produzione: Morgan Creek Productions, Strike Entertainment  Durata: 103 min. 

mercoledì 12 ottobre 2011

Apollo 18, di G. Lòpez-Gallego (2011)


Nel 1970 la spedizione lunare NASA Apollo 18, venne lanciata nello spazio, ma incontrò parecchie e tragiche difficoltà lungo il suo percorso. Gli eventi che seguirono al lancio della spedizione furono così terribili che la NASA decise di nasconderli al mondo, arrivando a dichiarare che la missione non fu mai realizzata. Il film ci mostra cosa successe veramente...


"Apollo 18" è tutto costruito secondo la tecnica del "found footage", che consiste nel generare una storia filmica a partire da presunti "documenti reali". Si tratta, in altre parole, di un mockumentary più raffinato, per così dire, presentatoci come una sorta di documentario costruito tramite le "vere" riprese degli astronauti che hanno preso parte alla "vera" spedizione Apollo 18. Così infatti il film si presenta, in modo spoglio, scarno, come se il regista semplicemente ci mostrasse cos'ha trovato in un archivio segreto della NASA. Ma "Apollo 18" risulta, all fine, un film riuscito, soprattutto perché sembra un sogno, cioè il sogno che Gallego fa  di una spedizione che non è mai realmente avvenuta. E' questo suo aspetto "onirico", favorito anche dalle riprese non nitide, da videocamera amatoriale in movimento, a rendere il film gradevole e spiazzante al contempo, soprattutto perchè capace di aprirci ad un "altrove" sognante, che è poi quello, anche mitico della Luna. I nostri astronauti sembrano infatti dei cavalieri ariosteschi caduti sulla Luna per ritrovarvi un senno che invece perdono del tutto, poichè sul satellite amico, materno, luminoso, trovano invece l'Altro, lo Straniero, fonte di minaccia, imprevedibilità, straniamento cognitivo dato che le sue forme sono "strane", unhuman, in senso sia estetico che etico. Dialoghi e psicologia degli astronauti sono condotti con saggia semplicità, senza spingere l'accelleratore su una caratterizzazione yankee che sarebbe andata a detrimento dell'elaborazione di un allestimento giustamente claustrofobico: esterno selenico e interno della navicella sembrano infatti partecipare della stessa, siderale, atmosfera di isolamento pneumatico cui sono sottoposti i protagonisti della vicenda, isolamento che non viene alleviato dalla voce di Houston. Anzi, al contrario, il Capitano Benjamin Anderson (Warren Christie) e il suo equipaggio sono ben lontani dai climi cinematografici del famoso "Houston, abbiamo un problema" ("Apollo 13", 1995), e se anche pronunciassero quella frase, a nulla varrebbe l'aiuto tecnico della base terrestre. Sono soli, alle prese con un'incognita più grande di loro, sorpresi e atterriti dal ritrovamento di una navicella russa, che sulle prime li conforta, perchè tale ritrovamento sembra fornire una spiegazione, che poi aggrava invece la situazione, visto che le macchie di sangue che trovano al suo interno, non fanno certo presagire nulla di buono. Il film può risultare lento a tratti, forse anche faticoso nella percezione visiva ovviamente frammentaria in alcuni punti, tuttavia Gallego è in grado di imprimere una ritmica calibrata e alternata di colpi di scena e pause che a partire dal 40esimo minuto fa crescere la suspense fino a un climax interessante e che sa generare inquietudine (la sequenza in cui vediamo all'improvviso uno strano essere ragnesco camminare rapidamente all'interno del casco di uno degli astronauti, è qualcosa di veloce ma intensamente perturbante. Per non parlare, poi, delle interessanti sequenze di trasformazione psicofisica cui sono sottoposti i nostri eroi). A un prefinale piuttosto lento, segue tuttavia un finale molto efficace, definitivamente catastrofico, e anche abbastanza credibile, pur all'interno di una cornice di inverosimiglianza in stile [REC], che però è complessivamente ben armonizzata. Il film di Gallego si fa dunque vedere con un certo piacere perturbativo generale, anche perchè sa essere sufficientemente originale da elaborare una stilema mockumentary che riprende molti spunti dalla mitopoiesi, appunto, di [REC], senza mai comunque appiattirvisi in modo copiativo. C'è da dire inoltre che non è facile in ogni caso, soprattutto oggi in cui lo stile "mocku" è diventato dilagante (vedi i vari "Paranormal Activity" e compagnia bella), sfornare un film finto documentaristico senza cadere in facilonerie o ripetitività inconsapevoli. Gallego scansa bene gli ostacoli sul suo cammino in questo senso, e per questo (e non solo) va premiato consigliando senz'altro la visione del suo film.
Regia: Gonzalo Lòpez-Gallego Sceneggiatura: Brian Miller, Cory Goodman Fotografia: Josè David Montero Cast: Warren Christie, Ryan Robbins, Ali Liebert, Andrew Airile, Lloyd Owen, Michael Kopsa, Kurt Max Runte Nazione: USA, Canada Produzione: Apollo 18 Productions, Bekmambetov Projects Ldt. Durata: 86 min. 

giovedì 6 ottobre 2011

La stella del diavolo, di Jo NesboØ (2003)



Oslo si trova nella morsa di una delle estati più torride che la storia ricordi. Anche mettere due patate sul fuoco sembra un supplizio, ma quando, in un appartamento del centro, delle grosse macchie nerastre si allargano nell'acqua delle patate che bollono in una pentola sul fornello, Vibeke Knutsen capisce che non può essere colpa del caldo e, sollevando i suoi occhi dalla pentola al soffitto, vedo un denso liquido scuro colare attraverso l'intonaco e scendere a gocce verso il basso. Al piano di sopra, il quinto, una donna giace in una pozza di sangue, assassinata.


Anno: 2003 Editore: tr. it Piemme Milano, 2008 Traduzione: Giorgio Puleo    Pagine: 471   ISBN: 978-88-566-1981-2   Euro: 11,50.


La presente recensione è "spoilerosa", già a partire dalla riga seguente, dopo il punto, quindi chi prosegue è avvertito. L'elemento che di più permette di suggerire la lettura di "La stella del diavolo", terzo romanzo di Jo NesbØ tradotto in Italia da Giorgio Puleo, è il fatto fondamentale che qui ci sbarazziamo finalmente di Tom Waaler, collega (per modo di dire) e nemico numero uno del nostro eroe, Harry Hole. Ce ne sbarazziamo in modo catartico, attraverso la sua trucidissima morte, che avviene mediante amputazione del suo braccio, armato di pistola, all'interno dell'ascensore di una casa dello studente di Oslo. Ciò avviene nelle ultime, dense, angoscianti pagine del libro, che chiudiamo con un lungo, sofferto sospiro di sollievo che NesbØ ci permette finalmente di tirare, dopo ben tre romanzi! Il mostro è abbattutto, la vecchia strega bruciata, il babau annientato e di questo siamo grati allo scrittore norvegese. Discorso diverso va invece fatto per i primi tre quarti del libro, che peraltro comincia con un errore di italiano da parte di Giorgio Puleo, il quale scrive "disfando" al posto di "disfacendo" nella seconda pagina, ahimè... Ma, a parte questo svarione anche comprensibile se dovuto a semplice disattenzione (ma che irrita comunque un ossessivo e attento alla lingua come il sottoscritto), l'incipit e le prime cento pagine appaiono, almeno a chi scrive, piuttosto disarticolate rispetto ai romanzi di NesbØ finora letti. Sembra che lo scrittore norvegese fatichi un pò a mettere sul binario il treno, che poi in verità riesce comunque a partire e a farci viaggiare a ritmo sostenuto nelle praterie di un immaginario "giallo" sempre molto gustoso, fino alla conclusione che, come detto, è veramente da considerare un piccolo capolavoro a sè. La costruzione del fantomatico serial-killer travestito da  fattorino che uccide giovani donne amputandone un dito della mano, secondo uno schema preciso e "diabolico" (in senso letterale), è poi ben raccontata e risulta suggestiva. Da un certo punto in poi il ritmo diventa, come di consueto, molto "americano", dosando sapientemente colpi di scena, suspense e momenti di introspezione psicologica distribuita equamente tra tutti i personaggi della storia, cioè tra "i buoni" e "i cattivi". Mi sembra utile tuttavia sottolineare che, fermo restando che Harry Hole resti un personaggio di grande spessore e umanità, NesbØ in questo romanzo calchi un pò troppo la mano nel descriverlo come un ubriacone inveterato (nella prima parte), salvandone successivamente l'immagine "sobria" e cognitivamente presente e attiva (nella seconda parte). Ho trovato questa trasformazione narrativa un tantino tirata per i capelli, anche perchè non si capisce che bisogno abbia uno come NesbØ di pigiare l'accelleratore sul solito, risaputo elemento traumatico del "detective-con-problemi-esistenziali", figura che ci ha ormai da tempo scassato i maroni. Se Harry avesse poi davvero problemi così duri con l'alcol, avrebbe di conseguenza , e verosimilmente grosse difficoltà a ritrovare una bussola orientativa realistica e l'acume che invece NesbØ  gli attribuisce. Sto dicendo che i plot che NesbØ confeziona (il plot di "La stella del diavolo" in particolare) camminano su una corda tesa come acrobati, dando l'idea di cadere di sotto da un momento all'altro, in fatto di verosimiglianza. Pensiamo ad esempio al modo con cui sono ideati ed eseguiti i delitti in questo romanzo: pensiamo alla ragazza uccisa nel bagno delle donne di un affollato studio di avvocati di Oslo, uccisione molto complessa e seguita da tutto un rituale che porta via tempo all'assassino, del tutto incurante di essere scoperto e riconosciuto. A tratti sembra cioè che NesbØ sia più interessato a un virtuosismo semi-barocco nella scrittura di genere "thriller" , piuttosto che a evocare scenari narrativi nuovi all'interno dello stesso genere. Ma, aldilà di queste osservazioni critiche che mi sembra giusto rilevare, l'effetto complessivo di questo romanzo è che, nonostante certe soluzioni narrative tirate per i capelli, tutto comunque, alla fine, si tenga e rimanga in piedi. Come certe architetture alla Gaudì, diciamo, che percettivamente sembrano così "molli", liquide, sbilenche, ma che possiedono una loro interna struttura molto solida e in ogni caso stabile. "La stella del diavolo" è, tra quelli finora da me incontrati, forse il meno riuscito sul piano dello stile, ma il treno comunque, dopo le prime cento pagine, si mette in pista  permettendoci uno sguardo su panorami e scorci molto suggestivi e che non ci aspettavamo di vedere. Quindi, aldilà di tutto lo consigliamo.