Pagine

sabato 30 maggio 2015

Il confessore, di Jo Nesbø (2014)


Anno: 2014    Editore: Einaudi  Collana: Stile Libero  Traduzione: Maria Teresa Cattaneo    Pagine: 544  ISBN: 978-88-06-21844-7      Euro: 21,00. 

Il mondo di Sonny Lofthus è crollato il giorno in cui, tornando a casa, ha trovato il padre, un poliziotto dall'animo e dall'etica integerrimi, morto suicida. Ha cominciato a drogarsi. Ora non ha neanche trent'anni ed è in prigione da dodici per duplice omicidio. Eppure c'è qualcosa in lui che ispira fiducia, perché nel carcere di massima sicurezza di Staten i compagni lo considerano una specie di confessore; gli raccontano le loro storie. La sua esistenza è ormai tutta lì, non ha più sogni né un'idea del futuro. Finché un detenuto gli rivela che in realtà suo padre è stato ucciso. In quel preciso istante Sonny riscopre una ragione per vivere e riacquistare la libertà: ha deciso di punire i colpevoli, uno alla volta...

Era da un pò di tempo che non scrivevo recensioni di libri. Prima di dedicarmi alla vide-recensione a "Hyena" del regista inglese Gerard Johnson (che potrete visionare tra qualche giorno qui e sul mio canale YuoTube), eccomi dunque a dire due parole -necessarie- su quest'ultimo libro di Nesbø, che ha peraltro molte consonanze di contenuto con il film di Johnson. Infatti sia il libro dello scrittore norvegese che il film del regista inglese di cui parleremo a breve, trattano entrambi di un 'identica area antropologica, che è quella che potremmo intitolare "La violenza del Potere". Ma procediamo con ordine, cioè dal libro di Nesbø.

L'Autore si allontana nettamente dai territori della lunga, avvincente, ma alla fine anche un pò noiosa e ricorsiva saga di Harry Hole, e qui introduce un nuovo personaggio poliziesco, Simon Kefas, detective della squadra omicidi della polizia di Oslo, che viene tuttavia fatto entrare in scena in modo del tutto collaterale, dalla porta di servizio potremmo dire. Kefas è una figura lontanissima dallo spessore tragico di Hole; ha una moglie con un grave problema alla vista, una giovane, bella e intelligente giovane collega, e un acume poliziesco non da poco. Da un certo punto di vista possiamo certamente dire però che il vero protagonista di questa nuova storia dello scrittore norvegese non è il poliziotto, bensì l'"assassino", termine che metto tra virgolette poiché più che un assassino si tratta di un soggetto che è costretto ad agire concretamente, sanguinariamente, dal momento che quello è l'unico modo per dialogare con un ambiente sociale corrotto fino alle radici, marcio, dove l'Etica è totalmente alla deriva. Il linguaggio è questo, quindi Sonny Lofthus deve per forza parlare il linguaggio della "legge del taglione" per farsi capire. 

Per questi motivi il lettore sta sempre, fin dalle primissime pagine, dalla sua parte, senza cedimenti valoriali di sorta. Come in "Hyena" di Johnson, anche in "Il confessore", il confine tra legalità e illegalità è confuso: la polizia è corrotta, invasa da "talpe" che ne corrodono alle fondamenta la mission sociale. Chi dovrebbe proteggerti ti sbatte in galera. Ecco dunque che l'intelligenza del Figlio (Sonny Lofthus) va oltre, surclassa, spazza via le "colpe dei padri". Ciò avviene attraverso il sangue ovviamente, perché quello tra padri e figli, ma anche ogni legame sociale su cui si fonda la civiltà, è un legame di sangue. 

Quella di Nesboø è una riflessione sulla violenza del potere costituito, un potere che, sulla base della sua apicalità e sovradeterminazione, non si fa scrupolo di distruggere la vita chiunque le si metta tra i piedi. Una riflessione condotta attraverso uno stile narrativo come al solito dinamico, fresco, e, al contempo, totalmente inverosimile.

Leggendo Nesbø a me viene spesso in mente il tema ottocentesco del "verisimile" manzoniano. Con Nesbø siamo agli antipodi di una poetica di tal genere. L'Autore inventa situazioni assolutamente improbabili (vedi la fuga di Johnny dal carcere di Staten, oppure la meravigliosa sequenza dell'uccisione "metempsicotica" di Kalle Farrisen mediante un semplice ma letale ventilatore). Tuttavia le sa far diventare esteticamente "digeribili", anzi macrobiotiche e molto nutrienti. E' forse questa la cifra specifica del nostro norvegese, che tanto si discosta dal mood letterario del classico thriller scandinavo. Pensiamo ad esempio a un Indridason, oppure a un Mankell: nelle loro pagine sentiamo il vento delle brughiere islandesi sferzare l'erba sul terreno, oppure le betulle svedesi stormire lungo i gelidi promontori generati dai mille laghi. Leggendo Nesbø ascoltiamo invece le urla dei tossici in crisi d'astinenza nell'ostello di Ila, oppure osserviamo le borse bisunte di barboni ugualmente tossici nascosti tra i cespugli del parco. Vediamo sangue scorrere a fiumi, narrazioni di palpebre tagliate da parte di Nestor, boss della mafia locale e della tratta di donne che vengon dall'est, a chi tra i suoi collaboratori si fa rubare i soldi della droga venduta. E via di questo passo. 

Personalmente, dopo "Il Pipistrello", avevo lasciato Jo Nesbø al suo destino: mi sembrava che girasse su se stesso senza produrre niente di nuovo, di originale, intendo, come quelle eterne franchise che purtroppo vediamo proliferare nel genere cinematografico a noi caro, una specie cioè di inutile rincorsa, motivata puramente da interessi economici, a sequel, prequel, remake, che fanno diventare il cinema una brodosa, melensa minestra da ospedale che poi alla fine uno vorrebbe solo buttare nello sciacquone. Perché è quello che si merita davvero. Con "Il confessore" siamo invece in presenza di un viraggio abbastanza netto di Nesbø, non dico dalle parti di una poetica in stile Gerard Jonhson, che pur mi è venuto in mente leggendo il libro (e ci sarà pur un motivo...), tuttavia e in ogni caso un viraggio verso un'attenzione ad un degrado sociale, a un "ambiente" come gruppo allargato che, sulla base di una mentalità mafiosa che esercita violentemente il suo potere deformando l'Etica a suo piacimento, determina il destino dell'individuo (Johnson è incomparabilmente più profondo e lacerante, su un piano cinematografico, a descrivere il degrado psicosociale che porta l'individuo al totale annichilimento di sè, ma lo vedremo in dettaglio nella video-recensione successiva a questa recensione letteraria). 

"Il confessore" riabilita ai miei occhi senz'altro un Autore dalla biografia che fa intuire la sua frequentazione con l'ambiente della droga (Nesbø ricordiamolo, mi risulta che fino al 2013 abbia anche fatto il musicista suonando nel gruppo norvegese dei Di Derre. E si sa che l'ambiente artistico non sfugge certo alle morgane delle sostanze stupefacenti e degli ambienti ad esse limitrofi). Da questo punto di vista ho fatto addirittura la fantasia che il nostro abbia avuto figli con problemi molto grossi di droga, e mi piacerebbe molto che qualcuno che ne sa più di me in fatto di questioni biografico-letterarie mi dia notizie in merito. Fatto sta che "Il confessore" è un romanzo avvincente fin dalle prime pagine, che consiglio vivamente.


sabato 23 maggio 2015

Video-recensione a "It Follows", di D.R. Mitchell, 2015

Nuovo tag, "video-recensioni", per alcuni, non secondari, motivi: 1) si va verso il periodo estivo, momento importante per diverse uscite che non si possono tutte visionare e recensire "classicamente" ma alle quali occorre magari dare spazio e "ossigeno" attraverso ultreiori forme di segnalazione, anche di più rapida fruizione; 2) desiderio di sperimentare nuovi canali comunicativi con mi legge, mi segue, oppure passa di qui per caso; 3) ci sono diversi film che necessitano di molte parole, di molta attenzione, di molta "cura". Uno di questi è sicuramente "It Follows", che ho già recensito più sotto, ma di cui avevo proprio voglia di ritornare a parlare. Perchè se lo merita ed è un film che muove il pensiero. Buona visione! 





domenica 17 maggio 2015

Coherence, di James Ward Byrkit (2013)


Cominciano ad accadere strane cose, proprio quando un gruppo di otto amici si riunisce per una cena nella stessa serata in cui una cometa transita nel cielo sopra di loro...

Era da tempo che rincorrevo questo film, ma non ero ancora riuscito in nessun modo a vederlo. Ecco dunque che finalmente congiunture astrali a me propizie me lo pongono sotto gli occhi, producendo in me un moto di grande ammirazione verso James Ward Byrkit, al suo primo lungometraggio dopo alcuni corti. "Coherence" è un thriller/horror metafisico virato completamente al fantascientifico che cattura fin dalle prime inquadrature, dai primi movimenti di macchina. All'apparenza statico come una piece teatrale (in fondo abbiamo soltanto otto persone che parlano intorno ad un tavolo apparecchiato, in una stanza), il film è invece profondamente, oniricamente dinamico, molto più, oserei dire, di tanto cinema "d'azione" o di classica confezione sci-fi, soprattutto mainstream. Ed è dinamico ovviamente a partire da una sceneggiatura che peraltro ha vinto il premio come miglior screenplay a Sitges nel 2013, e a ragione, ragionissima. Una sceneggiatura che sembra un puzzle dall'impossibile costruzione, che tuttavia torna ad assumere una forma genialmente coerente nell'ultima sequenza fatta dei due primi piani  di Em e Kevin (due dei principali protagonisti), presi in campo-controcampo: sequenza molto corta ma totalmente spiazzante poiché svela la tragica verità di una contraddizione impensabile che riguarda i due personaggi.

"Coherence" è a tutti gli effetti inseribile nel genere sci-fi, tuttavia, considerata la mia allergia atavica nei confronti delle categorie aristoteliche, preferirei definirlo più propriamente un film di genere Perturbante, innanzitutto perché pone in discussione il tema dell'identità in modo quasi filosofico, cioè in modo molto radicale, iniettando sottilmente angoscia nello spettatore, a partire dall'inizio dell'incontro degli amici, e facendola crescere a livelli considerevoli fino all'ultima, inquietante sequenza. Sia chiaro: si tratta di un'angoscia molto "fredda", del tutto cerebrale, tutta concentrata nei fitti, realistici dialoghi tra i personaggi, per cui è necessario avere sotto mano una versione sottotitolata, altrimenti si rischia di perdere gran parte se non tutto del senso della storia. Di sangue ne scorre pochissimo, ma vi assicuro che quello che scorre è sufficiente a farci venire la pelle d'oca. Il film infatti mi ha fatto venire in mente "Triangle" (2009), Christopher Smith, ma in versione congelata, liofilizzata, spremuta e raffreddata in un congelatore scozzese. Nonostante questo costante processo di freezing che Byrkit imprime a tutta la pellicola, il film tiene sulla corda lo spettatore fino alla fine, anche mediante un montaggio molto particolare, dell'astuto Lance Pereira, costruito a stacchi di cesura composti da brevissime dissolvenze in nero che chiudono un quadro di scena e ne aprono un altro sulla stesso punto della storia, quasi a voler ingannare lo spettatore circa il reale scorrere del tempo narrato. Byrkit muove poi la macchina lavorando molto sui primi piani, cogliendo sguardi, espressioni, ammiccamenti, aiutato, certo dall'ottima, contrastata fotografia di Sadler e Muller, ma anche utilizzando a brevi tratti la cinepresa come fosse una camera amatoriale, suggerendo (ma solo suggerendo, attenzione!) la presenza di un'occhio mockumentaristico, forse per accentuare il realismo. Ad esempio Byrkit in alcune sequenze in campo medio, zooma quasi a scatti consecutivi leggermente in avanti, cogliendoci impreparati, magari proprio quando descrive momenti di particolare tensione tra i protagonisti. Ho trovato questo uso della cinepresa piuttosto originale e innovativo, anche perché sempre finalizzato a generare senso di inquietudine.

Gli attori sono poi tutti bravissimi a creare dialoghi e intrecci interattivi molto veloci, molto quotidiani, in particolare Emily Foxler, che in particolare nel concitato e insieme surreale prefinale, e naturalmente nella sequenza che chiude egregiamente il film, sa dare grande spessore emotivo alla sua interpretazione.  

Confezionare un cosiddetto film di fantascienza attingendo ad un substrato culturale che annovera nel suo tessuto addirittura Schroedinger e il suo famoso "paradosso del gatto", nonché facendo muovere otto attori su una scena pressoché fissa, e per di più estrinsecando notevole pathos perturbante, non sono cose di poco conto, soprattutto in fase di scrittura. Far salire in modo motivato la paranoia del gruppo sulla base del passaggio della "cometa di Miller" sulla testa di queste otto persone, è un successo notevole di per sè, basti pensare al colpo di scena (davvero straniante) della scatola bianca contenente le foto dei protagonisti, giunta da chissà dove e portata nella casa dei vicini chissà da chi... 
Ma aldilà della Fisica quantistica, rimando scientifico che attraversa tutto quanto il film, mi sembra che Byrkit desideri qui riflettere anche, se non soprattutto, in modo potremmo dire "pirandelliano" sul tema dell'identità e della sua permanenza, sulla sua contraddittorietà, sul suo cambiamento costante sempre ben miscelato paradossalmente alla sua stabilità originaria, tutti elementi spesso rimossi, ma sempre attivi e in alcune occasioni detonanti, all'interno dell'identità medesima. E' la relazione di coppia, sembra suggerire Byrkit, il luogo in cui tali profonde faglie identitarie viste nella loro quintessenza contraddittoria, assumono la loro forma conflittuale più pura. Chi sta parlando con chi? Chi è mia moglie adesso, dopo vent'anni di matrimonio? E' sempre la stessa persona? O è un'altra? E io chi sono, cosa mi ha fatto diventare questa relazione? Il film parla di questi aspetti (alienanti) della relazione interpersonale, del modificarsi inesorabile della relazione da contenitore rassicurante delle origini (l'innamoramento), a luogo di instabilità identitarie reciproche che cercano di ri-trovare vanamente un "luogo delle origini" che non esiste più. Quel "luogo delle origini", nel film, è "la vera casa" in cui gli otto amici si sono incontrati, e che ora cercano come nomadi perduti nel deserto, e che gli stessi non troveranno più, fino alla deflagrazione trasformativa finale di tutte le sicurezze possibili in insicurezze assolute. Proprio per questo ascriverei questo film al genere Perturbante: il senso di assoluta relatività dell'Essere in cui inutilmente cerchiamo un nostro luogo "sicuro" viene trasmesso dall'opera di Birkyt come da poche, pochissime altre opere. 

"Coherence", piccolo gioiello da non perdere, e che sono felice di aver finalmente trovato (paradossale, no?).    

Regia: James Ward Byrkit    Soggetto e Sceneggiatura: James Ward Byrkit     Fotografia: Nic Sadler, Arlene Muller    Musiche: Kristin Hørn Dyrud    Montaggio: Lance Pereira  Cast: Emily Foxler, Maury Sterling, Nicholas Brendon, Lorene Scafaria, Elizabeth Gracen, Hugo Armstrong, Alex Manugian, Lauren Maher  Nazione:  USA, UK  Produzione: Bellanova Films, Ugly Duckling Films    Durata:   89 min. 


sabato 9 maggio 2015

It Follows, di David Robert Mitchell (2014)



Dopo la prima notte d'amore consumata sull'automobile del suo occasionale fidanzato, la 19enne Jay si ritrova legata su una sedia rotelle in un luogo desolato che sembra il parcheggio di una fabbrica dismessa. Il ragazzo le spiega con calma che con quel primo rapporto sessuale egli ha in verità generato un vero e proprio Calvario che Jay dovrà conoscere, giorno dopo giorno: si tratta di una specie di subdola malattia, sessualmente trasmessa. Solo che non produce sintomi fisici, bensì l'evocazione di una spaventosa entità che la seguirà ovunque, perseguitandola attraverso visioni di persone sconosciute: Queste "persone" cercheranno di raggiungerla per ucciderla. Se Jay non riuscirà a trasmettere lei stessa questa "malattia", attraverso un nuovo amplesso, rischierà la morte. Intanto Jay comincia a vedere strani personaggi muoversi verso di lei, ad esempio una vecchia dal volto terreo, in vestaglia, che viene a visitarla mentre sta seguendo una lezione... 

Uno dei principali meriti di "It Follows", ultimo, attesissimo, osannato, iper-hyped film di David Robert Mitchell, consiste essenzialmente nel ridisegnare i confini, la forma, la struttura identitaria potremmo dire, del teen slasher classicamente inteso. Mitchell compone questo nuovo disegno rimescolando completamente tutte le carte, mischiando tutti quanti i colori della tavolozza, frammentando il villain in molti villain che poi sono "uno, nessuno, centomila". Non abbiamo cioè a che fare con nessun Michael Myers di sorta, tuttavia il clima della desertica cittadina in cui abita Jay potrebbe essere la stessa in cui Myers ha operato nei film di Carpenter insieme a Jamie Lee Curtis alla fine degli anni '70. La colonna sonora sembra infatti presa da un film di quel tipo (ma ne parleremo della colonna sonora, eccome se ne parleremo); tutto l'allestimento sembra fatto regredire con apposita mano da Mitchell proprio in quel periodo; tutti i movimenti di macchina sono ciò che di più lontano possiamo trovare rispetto ai movimenti ipomaniacali che siamo abituati a vedere oggigiorno in un qualsiasi filmetto hollywoodiano sedicente horror;  tutto il mood solitario, inverosimilmente, tragicamente autisticoide del gruppo di adolescenti che ci viene presentato, è invece ciò che di più vicino possiamo trovare in uno slasher classicamente inteso, a partire da "Venerdì 13" (Sean S. Cunnigham, 1980)  per passare al "My Bloody Valentine" di G.Mihalka, 1981, per procedere ai vari, già citati, "Halloween" , per poi giungere almeno al primo "Nightmare on Elm Street" (1984) di Wes Craven, notoriamente innovatore del genere. Tutto questo "citato", e molto altro ancora (il film l'ho visto due volte e sono sicuro che ci troverò altre cose dopo altre visioni) si trova e si ritrova in "It Follows", ma come se fosse fatto risplendere di nuova luce, di altri contrasti, di più profonde, più sofferte sfumature. 

"It Follows" sembra infatti più un'opera di restauro di tutto il Cinema Perturbante teen-slasher visto fin qui da noi tutti, ma un restauro fatto da una mano quasi divina coadiuvata da un direttore della fotografia altrettanto ispirato divinamente, Mike Gioulakis, che sa far vibrare le foglie degli aceri come fossero stelle in un firmamento australiano, e lui ci porta in Australia con la sua macchina fotografica e per questo motivo siamo commossi davvero, e davvero lo ringraziamo. Gioulakis è un artigiano davanti al quale togliere tanto di cappello, e per fare ciò basterebbe solo osservare bene la sequenza che dall'interno buio e polveroso del capanno sulla spiaggia, ci porta fuori, in quel sole abbagliante, in quel cielo azzurro punteggiato da tranquille nuvolette bianche, mentre la ragazza morta di bianco vestita segue inesorabile Jay verso la sua automobile. Come non ricordare, dopo questa sequenza, i fotografi che hanno lavorato con Terrence Malick,? (Penso a Jack Toll, ma soprattutto al grandioso, mitico Tak Fujimoto, oppure a Stevan Larner e Brian Probyn). 

E' infatti proprio a causa della fotografia di Gioulakis che il film di Mitchell mi ha fatto pensare a "La rabbia giovane" (1973) di Malick, come se tuttavia "It Follows"  possa essere vista come un'opera speculare in negativo a quella di Malick. Là c'era "rabbia giovane", quindi ancora ribellione, spirito incendiario, esprit  iconoclasta, "sogno non sognato" che cerca una tela su cui essere dipinto, anche con violenza (Ogden, 2008) . Qui, al contrario siamo di fronte allo spegnimento di ogni fuoco. Siamo di fronte ad oggetti/soggetti carbonizzati i cui resti svolazzano nell'aria in un cielo vuoto. Magnifico, straordinario, a questo proposito il primo piano di Jay allo specchio mentre si trucca per uscire con il suo primo ragazzo: uno sguardo pieno di malinconia, ma ancora ingenuamente velato dall'estrema speranza nella realizzazione, appunto, di quel suo "sogno non sognato". Il sogno di avere per sè il suo "ragazzo", e basta sentire come pronuncia, molte, molte volte quella parola "guy". Sembra una parola che la riempie tutta, con cui si coccola, si consola, nella quale riversa tutta la sua anima di adolescente senza futuro. 

E infatti il futuro senza orizzonte di senso che Jay abita, viene ben presto a chiedere il conto: "it follows". E' il futuro, vuoto, o per meglio dire "pieno" solo di senso di morte e persecuzione, che "ti segue". E' un futuro che così appare perché le generazioni precedenti hanno smesso di costruirlo, di coltivarlo quel futuro. Ed è questo il futuro che gli adulti presentano davanti agli occhi ancora pieni di speranza dei loro figli: un domani angusto, corroso, un non-luogo fatto di marciapiedi grigi pieni di crepe nel cemento che nessuno aggiusta, di erbacce che nessuno taglia, di tempo sospeso come quello di Godot. E' evidente che il tradimento di ogni aspettativa, incarnata emblematicamente dal desiderio di Jay, da parte delle generazioni precedenti, si trasforma così in  persecuzione. Guarda caso una persecuzione simbolizzata dal contatto sessuale, che è poi il modo con cui le generazioni continuano a perpetuare la loro storia, generando ancora, sempre figli, cui proporre altri vuoti sogni di futuro. L'atto sessuale, in questo film non produce prole, ma mostri che uccidono coloro che si sono avvicinati a quel tipo di contatto, potenzialmente generativo. L'adolescenza è un processo, si suol dire in Psicoanalisi di "soggettivazione", una soggettivazione che ha bisogno di un Altro, di un Testimone, per potersi dare (spesso questo testimone è uno Psicoanalista, un Terapeuta, molto più che un genitore, a volte): il processo di soggettivazione ha la mira di arrivare ad un Soggetto. Ma - questa sembra essere la radicale domanda che ci pone Mitchell col suo film - qual'è il posto del Soggetto in questo mondo? Qual'è il mondo che consegniamo alle nuove generazioni, quali i valori, quale l'Ordine Affettivo, quale ambiente, quale qualità di vita e di relazione?  

Basterebbe dire queste poche cose che ho detto, per rendere "It Follows" un film che è poco definire "degno di essere visto". In realtà il film parla di molte cose, anche eminentemente sul piano del puro Perturbante, quindi non mi fermo qui, anzi andrò avanti a tediarvi ancora per molto, ahimè.  Perché questo film si merita molte parole.


Intanto apriamo una parentesi - come preannunciato - sulla colonna sonora dei Disasterpiece, che ritengo la vera protagonista indiscussa di questa pellicola. Che un Original Soundtrack abbia un suo peso in un film lo sanno anche i sassi. Tuttavia Rich Vreeland, musicista synth è uno che ha molto pensato, elaborato, sedimentato le musiche richiestegli da Mitchell (come potete leggere  qui sul suo esaurientissimo blog: Disasterpiece Blog). Sentite qua, ad esempio: 

"My inspiration comes from everything. I have a strong desire for each of my projects to be different from the last. The variety keeps me creative. I relish the challenge and the opportunity to strike out in new directions. My exposure to horror was minimal. I don’t think I could name more than five horror films that I’ve seen in my entire life. Despite that, I had a curiosity about the aesthetic and the form. I wanted to take part in the process".

oppure

"We wanted the music to play an active role, as if it was a character. The music demands the attention of the audience in scarier moments. In calmer scenes, I think it helps engage the moviegoer by adding emotional weight. We tried to pick our spots. We always took care to give the film and its dialogue the space it needed.
The music tries to build empathy for the characters. They seemed quite real to me already, but I tried to help how I could. In the scarier moments, I was more focused on creating a twisted landscape.
I tried to be loud, wild, and unpredictable.
For a lot of the cues, I tried to use my synth chops to make weird, dark, obnoxious pieces of music. I find that thru-composing to picture feels natural. I enjoy the freedom it provides in making subtle, time-sensitive adjustments. The elephant in the room for me was the FEZ soundtrack. That music was a direct influence on many of the melodic pieces. I tried to honor those and make David happy while also doing something fresh. It was tough! I think I managed, for the most part.
Don’t be afraid to do weird, unorthodox things. Make unpleasant sounds. Timing and dynamics are crucial to the music but also in its correlation to the screen. At some point, the process became more about intuition than anything. I’d watch the same scene over and over and its connotation to me would change. The visceral reaction subsided, and it became more about the intellectual aspect. It becomes a matter of analysis. Why is this scary? What could push that emotion even further?"

Cioè Vreeland sostiene come sue poetica musicale l'idea della colonna sonora come "personaggio", "as it was a character". Il punto è che il nostro Rich realizza davvero questo obiettivo estetico, magari ispirandosi all'anima musicale di Carpenter e ai suoi interessi in materia, ma utilizzandola solo come mero punto di partenza evocativo, e costruendo un'architettura musicale sulla quale si appoggia tutto il tessuto emozionale del film. Fotografia (Gioulakis) e sonoro (Vreeland), diventano quindi due aree centrali, due assi portanti, vera tela e cornice di ottima, ineguagliabile qualità perché il pittore Mitchell possa solo pensare di muovere il suo pennello-macchina da presa lungo il corso di tutta la pellicola. Senza questa tela (fotografia e sonoro) Mitchell sarebbe riuscito a fare un writer painting sul muro di un sottopassaggio ferroviario. Magari gli sarebbe venuto pure bene, ma mai così come gli è venuto. 

Veniamo ora al Perturbante in quanto tale. Qui Mitchell, ad avviso di chi scrive, avrebbe tranquillamente potuto pigiare l'acceleratore molto ma molto più a fondo, ma non lo ha fatto appositamente: altre sono le sue mire narrativo-visive. Questo credo, tuttavia,  possa essere indicato come unico "difetto" del film. Perché, voglio dire, non "spremere" sequenze come quella (geniale!) della spiaggia più a fondo aumentando il dosaggio di adrenalina, proponendo twist più drammatici, ultimativi, spiazzanti? Non avevamo iniziato, sempre in spiaggia con quell'icona sanguinolenta della ragazza dalle gambe orribilmente spezzate all'indietro? (Inquadratura da vedere, rivedere e ancora rivedere perché sembra un quadro di Francis Bacon, e io infatti appenderei quell'inquadratura in qualche museo d'arte moderna, per davvero). Perché quindi non andare avanti su quella linea, cioè non spingersi su un registro più barocco, perverso-polimorfo, ad esempio nella sequenza della morte di Greg? Mitchell, ti chiedo, perché non l'hai fatto? Perché non drammatizzare molto di più la meravigliosa, epocale sequenza finale della piscina, facendola virare su un piano ancor più rosso sangue? Sono tutte, io credo, legittime domande che è giusto porsi. Tuttavia è molto probabile che, come dicevo, le mire estetico-filmiche di Mitchell siano altre. Innanzitutto quella di disegnare un gruppo di adolescenti soli, abbandonati a se stessi, fragilissimi, quasi bambini più che adolescenti in quanto tali, riuniti insieme in una sorta di comunanza auto-consolatoria mentre il Tempo li insegue inesorabile per falciare di netto le loro speranze. 

In alcuni punti del film  infatti questa "ingenuità", sembra ricercata maniacalmente da Mitchell, al punto da fa sembrare Jay e i suoi amici una sorta di gruppetto da cartone animato tipo "Scooby-Doo", una enclave che sta assieme per provare a sconfiggere il mostro di turno. E' un'accentuazione ricercata da Mitchell, che guida un cast perfetto alla bisogna (soprattutto un Keil Gilchrist che nella sequenza finale della passeggiata mano nella mano con Jay sembra un personaggio post-apocalittico, tragico, alla Cormac McCarthy). Ragazzi soli, perseguitati da fantasmi che derivano dall'assenza delle generazioni precedenti, dall'assenza di uno sguardo che li sappia accogliere, che li sappia davvero capire e amare. 

Dove sono infatti gli adulti in questo film?

Gli adulti sono "eccentrici": tutto lo script li pone come in una lontana periferia del soggetto adolescente e delle sue vicissitudini. Si tratta di qualche sparuto poliziotto di colore che trova per caso una borsetta nel luogo dove Jay ha avuto il suo primo rapporto. Si tratta dell'infermiera inquadrata velocemente mentre la nostra eroina è in ospedale con il braccio ingessato. Sono adulti sfocati, lontani, che Mitchell appositamente non inquadra. 

"It Follows" è un film denso di rimandi ad un Perturbante inteso come sogno sedimentativo ricorrente nel trapasso generazionale che investe l'adolescenza vista in quanto emblema della fragilità dell'essere umano. E' per questo che Mitchell sceglie un'ambientazione nel luogo dell'"antico" filmico perturbante, nel luogo dell'idioma nascente della mitopoiesi horror, luogo del più arcaico teen-slasher, ovviamente, poiché sa che solo quel sottogenere è disseminato di tracce mnestiche preziose per capire (a partire da un passato mai davvero, completamente "pensato", "sognato") il presente in cui versa lo stato mentale e sociale delle nuove generazioni. Tracce mnestiche che hanno bisogno di un "sognatore" (lo spettatore, cioè noi) per essere colte, ripensate e trasformate. Il Cinema, in fondo, ha questa funzione. Il Cinema Perturbante in particolare, come oggetto estetico che pone al centro della sua attenzione l'adolescenza come dimensione-spia dei tempi che viviamo. 

"It Follows" film da vedere e rivedere, in pensoso, riflessivo, meditativo silenzio.

Regia: David Robert Mitchell Soggetto e Sceneggiatura: David Robert Mitchell  Fotografia: Michael Gioulakis    Montaggio: Julio C. Perez IV    Musiche: Disasterpiece  Cast: Maika Monroe, Keir Gilchrist, Daniel Zovatto, Jake Weary, Olivia Luccardi, Lili Sepe    Nazione: USA   Produzione: Northern Lights Films, Animal Kingdom  Durata:  100 min.  


venerdì 1 maggio 2015

Found., di Scott Schirmer (2012)



Marty è un ragazzo di 12 anni con la passione per i film e per i fumetti horror, che anche lui disegna, e nei quali si rifugia per sfuggire ad un ambiente scolastico vessatorio e pieno di bulli che non lo lasciano in pace. Marty ha un fratello maggiore, circa ventenne. Un bel giorno, entrando nella stanza di Steve, Marty scopre in uno sgabuzzino una borsa di plastica contenente una testa mozzata. Il ragazzo scoprirà così che il supereroe vendicatore delle angherie subite non deve cercarlo nel suo immaginario, perché ce l'ha in casa, è suo fratello ed è per giunta un efferato serial-killer...

Chi mi legge sa quanto  il tema del fraterno declinato come aspetto del Perturbante sia molto apprezzato da queste parti. Non a caso a suo tempo ho concentrato la mia attenzione su un film come "Oculus", di Mike Flanagan (2013), oppure su "We are what we are" di Jim Mickle (2013) (non voglio tuttavia aprire qui parentesi storiografiche su questo interessantissimo tema, parentesi che ci porterebbero via molto tempo, basti pensare allo stilema "gemellarità" in ambito horror, che ci rimanderebbe subito a "Inseparabili" di Cronenberg (1988), e a molto altro ancora). Scott Schirmer, giovane esordiente che ha studiato (e assai bene) Teoria del Cinema, Sceneggiatura e Metodologia della Videoproduzione all'Università dell'Indiana, da perfetto Carneade prende di petto il tema del "fraterno" e lo descrive nel suo "Found" con attenzione, cura, potremmo dire con vero amore. Un amore che è prima di tutto rivolto al genere Perturbante, alle sue consonanze e vicinanze col periodo adolescenziale e preadolescenziale, ambiente emotivo, "terreno" ideale alla nascita di un interesse estetico di questa natura. Immagino innanzitutto che molti di noi spettatori si siano identificati subito con il giovanissimo Marty, un Gavin Brown perfettamente colto e raccontato da Schirmer alle soglie di un'adolescenza che ci immaginiamo turbolenta e super complessa fin dai subitanei primi piani delle sue lentiggini, dei suoi fluenti capelli rossi che attraversano una grigia casa di provincia, banalissima tanto da diventare inquietante solo per questo. 

Ma è il rapporto tra Marty e il fratello Steve a diventare il cuore pulsante del film, rapporto di naturale idealizzazione spostata sull'hobby del disegnare fumetti horror, genere molto amato anche da Steve medesimo. Marty è però "ancora piccolo". Frequenta una scuola media nella quale non sono possibili le libertà idealizzate del fratello maggiore, nella quale Marty è costretto a subire le angherie dei suoi fastidiosissimi amichetti, bulli di provincia senza alcuno spessore che non sanno fare altro che chiamarlo "pussy-boy". Il vuoto affettivo che gli presentano quotidianamente i due genitori, del tutto assenti pur nella loro presenza fisica, fa sì, poi, che l'immaginario di Marty si diriga ben presto a cercare di trovare un fondamento emotivo, un modello di identificazione alternativo, un punto di riferimento cui ancorare il traballante scenario della propria crescita, proprio nel fratello maggiore. Schirmer concentra tutta la sua attenzione su questa famiglia completamente alla deriva di un quotidiano provinciale privo di qualsiasi stimolo, a parte il paesaggio industriale rugginoso e decaduto che circonda tutto quanto. Non c'è sogno, non c'è speranza per queste nuove generazioni cresciute a pop-corn nel ventre molle della profonda, isolata, inutile provincia americana. Marty e Steve rappresentano questo e a loro non rimane che il legame fraterno, un legame scarnificato e scollegato da ogni altro elemento vitale. Tanto più che Steve è un giovane serial-killer. 

Un serial-killer, potremmo dire, alle prime armi, che sta facendo esperienza, che sta costruendosi un curriculum tutto suo, non come quelli da mandare al solito call-center allo scopo di farsi assumere per due dollari all'ora. Al contrario stiamo parlando di un curriculum che gronda di onnipotenza e sadismo, perfetto corollario di un'esistenza che ha insterilito alla sua base qualsiasi "spinta ad esistere" (Gaburri, Ambrosiano, 2008). 

Schirmer è capace, capacissimo, con soli 8000 dollari di budget, di organizzare un discorso e un pensiero su elementi socio-psicologici ed estetici di tale portata, muovendo la macchina da presa con una maestria dolente, sofferta, e ponendo al centro di tutta la storia il rapporto tra due fratelli. 

Dicevamo che si tratta di una relazione, quella tra Marty e Steve, considerata da Schirmer come "valore assoluto". Non è presente in Schirmer alcun intento romanticheggiante. Siamo lontani mille miglia da una rappresentazione dell'adolescente del tipo "Gente comune" (Robert Redford,1980), tanto per intenderci. Qui la distanza tra Steve e Marty rimane siderale, vive cioè solo in un antro psicotico-allucinatorio di idealizzazione la cui unica motivazione profonda è la deumanizzazione della vittima. Ma il dramma sta proprio qui: la "fratria" si da solo in questa bolla, l'amore fraterno è un collante fondamentale per Marty, anzi, l'unica boccata d'ossigeno in un mondo schizoaffettivo. Ma perché vi sia ossigeno, paradossalmente occorre incontrare la morte.

La genialità di Schimer consiste nel lavorare sul piano filmico questo tipo di tematiche relative al legame fraterno: un legame "di sangue", reso concreto dal sangue reale che scorre sotto le mani di Steve, un intreccio inestricabile, potentissimo, violento, ma sul quale, allo stesso tempo si fonda il processo di soggettivazione identitaria.

Detto ciò (che mi premeva dire, considerato il mio interesse nei confronti delle declinazioni del fraterno in ambito Perturbante) occorre anche sottolineare che le modalità narrative che Schirmer mette in atto per descrivere tale  tessuto relazionale, appaiono molto raffinate pur nella loro semplicità di esecuzione. Penso ad esempio alla bellissima sequenza in cui vediamo Steve rincorrere Marty su e giù per i vagoni dismessi fino alla vasta campagna verde, e in particolare all'inquadratura di Steve che allunga la sua mano a Marty per farlo alzare da terra: poche pennellate, nessun trucco o effetto speciale di sorta, solo due fratelli che si inseguono e poi s'incontrano ri-generando un'alleanza profonda, inscindibile, aldilà del Bene e del Male. Una sequenza a mio avviso da tenere in mente e da studiare con attenzione perché assume un senso radicalmente fondamentale in tutta l'economia del film. Quell'abbraccio finale, commovente, tra Marty e Steve, in quella sequenza, è sufficiente a rendere "Found" un'opera perturbante da ricordare e che ci mostra quanto siano le idee, le persone, a conferire a un film un valore estetico significante, aldilà del fatto che sia etichettato nella cornice del cinema indipendente. Anche la sequenza della rissa familiare, nella quale Steve aggredisce il padre per difendere il fratello dalle percosse, possiede una sua grande forza che mi verrebbe da definire "neorealista": molte assistenti sociali credo si occupino di situazioni di questo tipo quotidianamente, voglio dire. 

Sul piano della sceneggiatura, il tragico avvitamento finale coglie inoltre lo spettatore da una parte impreparato e dall'altra lo fa sentire come liberato dalla colpa di poter (finalmente!) "tifare" per i due fratelli, diventati due Caini senza alcuna traccia di Abele, che insieme uccidono il Dio-Padre che li ha messi al mondo a loro insaputa. E' come se Schirmer ponesse tutto il sapore del Perturbante in questa ultima parte della sceneggiatura, rallentando la storia appositamente lungo il corso di tutta la pellicola, fino a fare esplodere catarticamente,  ma soprattutto tragicamente (nel senso della tragedia greca classica) solo alla fine tutte le contraddizioni. Lo spettatore rimarrà solo, davanti ad una violenza, ad una tragicità che Schirmer decide saggiamente di lasciare lungamente fuori scena, accompagnato da una musica tribale martellante (di Johson, Wright e Velasco) , inquadrando il volto sofferente di Marty, legato al letto e imbavagliato.

Opera pensata, ben elaborata  sul piano della scrittura, interpretata con gran profondità e grazia da parte dei due giovani protagonisti, "Found" è certamente un film importante, degno di essere visto, ma soprattutto di essere studiato e meditato a lungo, in particolare sul versante del suo approfondimento molto originale della relazione fraterna nella sua dimensione perturbante. 

Regia: Scott Schirmer   Soggetto e Sceneggiatura:  Todd Rigney (novel), Scott Schirmer      Montaggio: Scott Schirmer    Fotografia: Leya Taylor     Musiche: Magician Johnson,  Greg Wright, Lito Velasco   Cast: Gavin Brown, Ethan Philbeck, Phyllis Munro, Louie Lawless, Alex Kogin, Addy Alphonse, Shane Beasley, Angela Denton, Kitsie Duncan, Kate Brown, Edward Jackson, Adrian Cox-Thurmond     Nazione: USA    Produzione: Forbidden Films   Durata: 103 min. 

(Qui sotto i titoli di testa, disegnati e illustrati da Lowell Isaac)