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mercoledì 31 dicembre 2014

Strenne cinematografiche horror 2015


Dopo la lunga recensione a "Gone girl", vediamo un pò cosa ci propone il 2015 in fatto di Cinema perturbante. Un tantino di cose interessanti dovrebbero saltar fuori dal cilindro dell'anno che verrà. Ho fatto una selezione misurata, che rappresenta quello che vorrei senz'altro vedere e poi commentare con voi, naturalmente. 

Somnia, di Mike Flanagan (che dopo "Oculus" e "Absentia" si è meritato certamente l'attenzione del sottoscritto) è un thriller sovrannaturale che ci racconta di un ragazzino, orfano dei genitori, il quale durante il sonno produce strani e inspiegabili fenomeni paranormali. Altro non si sa del film, e non è neppure disponibile ancora una locandina. Ma bisognerà senz'altro dargli un'occhiata. Peraltro il processo di produzione lo dà come completed. Speriamo esca presto (la release è per il 5 marzo). 



It follows, di David Robert Mitchell. Per Jay, 19enne sta iniziando la scuola, quando alcuni amici la invitano al lago per il week-end. Dopo un approccio sessuale soft da parte di un ragazzo, le cose cominciano a prendere una piega inquietante. In giro se ne parla piuttosto bene, e ogni tanto le voci della blogsfera occorre pure ascoltarle. Per poi contraddirle o confermarle, e comunque, sempre, contribuire alla dialettica blogghesca.




Crimson Peak, di Guillermo del Toro. Ambientazione ottocentesca per l'ultimo film di Del Toro, diviso tra arte, tragedie familiari in stile Poe, e fantasmi del passato che ritornano ad invadere il presente. Dopo il molto dibattuto viraggio fantascientifico effettuato con "Pacific Rim", Del Toro torna ad indagare l'area gotico-perturbante, il che mi pare una buon revival da parte sua. Stiamo a vedere cosa ci scodella questa volta nel piatto. 



31, di Rob Zombie. Il plot descrive le vicende di cinque persone rapite e intrappolate in un luogo sconosciuto. Qui devono partecipare ad un gioco mortale gestito da un gruppo di clown assassini. Trama un pò flaccida, di uno Zombie che viene da un altrettanto flaccido "The Lords of Salem" (2011). Il primo poster però è carino. Diamogli qualche chance al regista di Haverhill, Massachusetts. Nel caso poi ne parliamo tranquillamente male.



Cooties, di Jonathan Millot e Cary Murnion. Si tratta di un virus che attacca una isolata scuola d'infanzia, trasformando degli innocenti (?) bambini in selvaggi capaci di tutto. Una nuova, iper-moderna versione di "Il Signore delle Mosche"? Staremo ben a vedere. In realtà il film è uscito negli States nel 2014, ma da noi ancora nessuna traccia.



Trick 'r Treat 2, di Michael Dougherty. Dopo il primo, interessante, profondo Trick 'r Treat (2007), ecco che il regista di Columbus, Ohio, ci sforna un sequel che non possiamo certo perderci per la strada. Non si sa ancora se uscirà nel 2015 o nel 2016, ma noi speriamo il prima possibile.  



Non citerò qui per esteso, ma solo per cenno: Poltergeist, remake del celeberrimo film di Tobe Hooper del 1982 per mano di Gil Kenan sotto la supervisione di Sam Raimi, nonchè il nuovo film announced di Dario Argento (The Sandman) che non si sa ancora perché non abbia cambiato mestiere, dopo gli ultimi suoi circa 20 precedenti fallimenti totali. Ma lo cito solo per la cronaca, naturalmente, e solo per quello. 

Intanto a tutti Buon Anno, consigliando estesamente e intensamente nel frattempo la lettura del romanzo di Gillian Flynn "Gone Girl", dopo la visione del film omonimo di Fincher. 

Pausa musicale in attesa delle strenne cinematografiche 2015



Time to pretend (MGMT)

I’m feeling rough, I’m feeling raw, I’m in the prime of my life.
Let’s make some music, make some money, find some models for wives.
I’ll move to Paris, shoot some heroin, and fuck with the stars.
You man the island and the cocaine and the elegant cars.
This is our decision, to live fast and die young.
We’ve got the vision, now let’s have some fun.

Yeah, it’s overwhelming, but what else can we do.
Get jobs in offices, and wake up for the morning commute.
Forget about our mothers and our friends
We’re fated to pretend
To pretend
We’re fated to pretend
To pretend

I’ll miss the playgrounds and the animals and digging up worms
I’ll miss the comfort of my mother and the weight of the world
I’ll miss my sister, miss my father, miss my dog and my home
Yeah, I’ll miss the boredom and the freedom and the time spent alone.
There’s really nothing, nothing we can do
Love must be forgotten, life can always start up anew.

The models will have children, we’ll get a divorce
We’ll find some more models, everything must run it’s course.
We’ll choke on our vomit and that will be the end
We were fated to pretend
To pretend
We’re fated to pretend
To pretend

Yeah, yeah, yeah
Yeah, yeah, yeah
Yeah, yeah, yeah
Yeah, yeah, yeah


Traduzione

Mi sento rozzo, mi sento grezzo, sono nel fiore della mia vita.
Facciamo musica, facciamo soldi, sposiamoci delle modelle.
Mi trasferirò a Parigi, mi sparerò dell’eroina, mi scoperò le star.
Tu uomo l’isola e la cocaina e la auto eleganti.

Questa è la nostra decisione, di vivere veloci e morire giovani.
Abbiamo la visione, ora divertiamoci.
Sì, è opprimente, ma cos’altro possiamo fare.
Lavorare in ufficio, e svegliarsi la mattina per fare i pendolari.

Dimentichiamoci delle nostre madri e degli amici
Siamo destinati a fingere
Fingere
Siamo destinati a fingere
Fingere

Mi mancheranno i parco giochi e gli animali e lo scavare per cercare i vermi.
Mi mancherà il conforto di mia madre e il peso del mondo.
Mi mancheranno mia sorella, mio padre, il mio cane e la mia casa.
Sì, mi mancheranno la noia e la libertà e il tempo trascorso da solo.

Non c’è davvero nulla, nulla che possiamo fare.
L’amore deve essere dimenticato, la vita può sempre iniziare daccapo.
Le modelle faranno figli, divorzieremo.
Ci troveremo altre modelle, tutto deve fare il suo corso.

Soffocheremo sul nostro vomito e quella sarà la fine
Eravamo destinati a fingere
A fingere
Eravamo destinati a fingere
A fingere

Yeah, yeah, yeah
Yeah, yeah, yeah
Yeah, yeah, yeah
Yeah, yeah, yeah


lunedì 29 dicembre 2014

Gone Girl, di David Fincher (2014)


Tratto dal bestseller di Gillian Flynn, il thriller vede protagonista Nick Dunne (Ben Affleck) un uomo che decide di tornare nella sua città natale, in Missouri, per aprire un bar. Poco dopo, nel giorno del quinto anniversario del loro matrimonio, sua moglie Amy scompare misteriosamente e Nick diventa il sospettato numero uno della sua sparizione

Di solito quando scrivo recensioni dopo aver visto un film, mi si organizzano spontaneamente delle idee dapprima galleggianti nella mente, poi sempre più aggregate tra loro a formare la struttura dello scritto, che butto giù direttamente sul template. Quasi mai prendo appunti durante la visione per non disturbare l'esperienza che vado facendo, e mai scrivo schemi preparatori alla recensione. 

La visione di "Gone girl" di David Fincher questa volta mi ha spinto inspiegabilmente a scrivere una sorta di sinossi, come quando si scrive un libro (un libro l'ho davvero scritto e un'altro è in uscita l'anno prossimo, scritto con alcuni colleghi, questo per dire che sto imparando a capire cos'è una "sinossi"). Credo che tale fenomeno mai occorsomi derivi dal fatto che Fincher dispiega una tale quantitá di materiale da "processare", da obbligare a fermarsi un attimo per raccogliere bene le idee nero su bianco in modo sufficientemente strutturato da poter essere espresso con dovuta proprietá

Ecco la sinossi, una specie di indice cioè, di quello che dirò sul film: 

1) L'orologiaio di Denver: note tecniche generali sul film.
2) Sceneggiatura. Specularitá e asimmetrie: la matrice di "Seven". 
3) Declinazioni della folie a deux.
4) Per una rappresentazione plastica del transfert negativo: qualche notazione di ordine psicoanalitico.
5) Gli "Oggetti alienanti" come motore centrale del film.
6) Matrimonio-famiglia: un incontro impossibile?
7) "Gone girl": ovvero sulla morte della curiositá in amore.


* * *

1) L'orologiaio di Denver
Fincher è come un orologiaio svizzero d'altri tempi, con l'unica differenza che è nato a Denver, Colorado. "Gone girl" è un meccanismo visivo-narrativo senza l'ombra di una sbavatura. Ogni inquadratura, a partire da quelle dei titoli di testa è pensata, studiata, trasuda poesia ma sempre misurata, una poesia zen, un haiku giapponese, per intenderci. Chi sarebbe capace di rendere poetico un cavalletto segnaletico stradale semplicemente cogliendolo nella parte di destra dell'inquadratura di un ambiente suburbano statunitense? E per un tempo giusto, spaccato al millimetro, non un secondo di più, non un secondo di meno? Lui ci riesce, con la complice fotografia del fido Jeff Cronenweth

La fotografia, appunto. Fincher vuole alitarci addosso l'atmosfera soffocante di una relazione matrimoniale autodistruttiva e quindi, da orologiaio maniacale fino al manierismo quale è, presta un'attenzione altrettanto maniacale alle oscillazioni continue tra luci, ombre e penombre, illuminando il tutto di una luce leggermente sgranata, concava, avvolgente ma non per alleggerire e/o confortare la vista, al contrario per far entrare il più rapidamente possibile del puro vetriolo emotivo nei nostri coni e bastoncelli. I legni della casa di Nick e Amy sono scuri, ne sentiamo la pesantezza, che è metafora di una relazione avvitata su se stessa, ormai come un nodo scorsoio, tanto per fare un esempio di come la fotografia parli qui di molte più cose di quante ne illumina.

Il film funziona come un orologio perfettamente oliato ovviamente anche a causa di un montaggio (di un Kirk Baxter da Oscar) che scandisce gli avvenimenti successivi alla misteriosa scomparsa di Amy in modo fluido e insieme incalzante, giustapponendo un colpo di scena dopo l'altro, sempre calato sulla nuca dell'ignaro spettatore con la precisione di un karateka. Il sottoscritto è rimasto ad esempio letteralmente basito dalla tempistica narrativa dell'improvvisa apparizione di Andie, personaggio centrale della storia (di cui non dirò oltre per non svelare nulla dell'intreccio), proprio in quel punto preciso del plot, proprio in quel momento. Un orologio perfettamente sincronizzato, anche con le musiche, infiltrative, metalliche, estenuanti, in sintonia karmika con l'orologiaio di Denver, e messe a punto da Trent Reznor.

.2) Sceneggiatura. Specularità e asimmetrie:la matrice di "Seven"
Ulteriore associazione generata in me dal film è la sua perfetta specularitá con "Seven". Senza rivelare angoli segreti della storia tratta dal romanzo di Gillian Flynn, possiamo infatti dire che anche nel film del 1995 abbiamo un matrimonio, quello tra il detective Mills e sua moglie, e anche lì la coppia è attraversata (a partire dall'esterno verso il suo intimo interno) da emozioni selvagge e devastanti che la distruggono. In "Gone girl" abbiamo lo stesso attraversamento di emozioni potenti e distruttive, ma il movimento è uguale e contrario, cioè procede dall'intimo interno di una coppia e si sposta verso l'esterno, coinvolgendo poi anche la realtá amplificata dei mass media, oltre che le famiglie dei due sposi. 

È possibile che Fincher sia stato colpito da questa caratteristica morfologica del romanzo della Flynn e vi abbia ritrovato un rispecchiamento, cioè un Doppio narcisistico, un "sosia" da studiare con cura? Può essere e può anche non essere, ma rimane a mio avviso il fatto che la matrice (narcisistico-strutturale) di "Gone Girl" sembra essere proprio "Seven": stesso andamento indiziario, stesso avvitamento convergente verso il tragico finale, stesso sviluppo dialogico con coinvolgimento di detective, declinati questa volta però al femminile (altro aspetto speculare non secondario). Anche in "Fight Club", certo, risuona il tema del Doppio dissociato e proiettato, ma lo sviluppo è più lento, discorsivo, mentre in "Gone Girl", tanto quanto in Seven, l'andamento è rapido, sussultorio e ingravescente, fino al finale ad incastro perfetto, annodato da mani più che esperte e per di più inestricabilmente irrisolvibile.

3) Declinazioni della folie a deux
Flynn e Fincher raccontano una storia che potrebbe essere definita come la rappresentazione di una possibile declinazione di folie a deux inconscia, generata cioè da inconsapevolezze reciproche da parte di entrambi i membri della coppia. Nick è un ragazzone provincialotto, proveniente dal Missouri, facilmente seducibile da parte di una bella, ricca intellettuale newyorkese, molto disinvolta, disinibita, iper-postmoderna, post-emancipata, che parla senza problemi della propria vagina al tavolo con amici durante la festa in onore della mamma scrittrice. 

Sì, perché Amy Abbott ha ispirato le gesta di molti libri per bambini, scritti dai suoi due genitori, la famosa saga di "Amazing Amy". D'altr'onde Amy é figlia unica, con una madre che tuttavia sembra aver amato di più il suo alterego cartaceo che non sua figlia. La madre di Amy é a sua volta un'intellettuale newyorkese, che non può permettersi a nessun costo di fare "semplicemente" la madre. Amy entra dunque, piano piano, nel personaggio di "Amazing Amy", ritagliato dai genitori per costruire la bambina dei loro libri molto venduti. Amy deve indossare quel vestito, pena la perdita dell'amore della mamma e del papá, cioè la deprivazione affettiva assoluta, che per un bambino equivale alla morte. 

Amy e Nick si incontrano, si amano, poi perdono il lavoro -la recessione economica li incalza- sono costretti a trasferirsi in Missouri, nella casa della defunta madre di Nick. Qui Amy subisce una prima ferita narcisistica non da poco: deve abbandonare il suo status intellettuale, traslocando le difficili, tormentate identificazioni con i genitori, in questo ragazzotto di campagna, così prevedibile, così american middle class. Nick non é ovviamente in grado di contenere tali difficilissime identificazioni, tutto quel dolore inespresso, tutto quel non essere mai stata amata come figlia in quanto tale ma come sosia di un personaggio di libri per l'infanzia. Nick non è consapevole, non si "rende conto" di tutto questo. Ma anche Amy non "si rende conto" che non ha sposato un deserto, ma un uomo con una sua storia "semplice", e soprattutto diversa dalla sua. Intanto non é un figlio unico, ma ha una sorella gemella: ti par poco, Amy? 

Niente da fare: l'inconscio dilaga, prende via via il sopravvento, e nessuno dei due ha consapevolezza della rete di frustrazioni traumatizzanti e di coazioni deprivanti che l'inconscio sta tessendo a loro insaputa. La comparsa di Andie trasforma la ferita narcisistica in squarcio insanabile, in delirio puro, in folie a deux che implacabilmente segue le sue strade dereistiche. La strada principale è segnata dal masochismo vendicativo, che infiltra entrambi, allo stesso modo, sebbene in quantitá davvero differenti. Non si tratta di folie a deux in senso stretto, naturalmente, ma di una sua variante sado-masochistica. Non c'è infatti reale uccisione dell'oggetto (o del soggetto=suicidio), ma intrappolamento psicotico senza via di uscita, quasi una realizzazione assoluta del famoso aforisma di Sartre ,"l'enfer sont les autres". Il tutto è amplificato dalla reazione parassitaria dei mass media nazionali, che si buttano sulla vicenda come delle pulci su un cane.  

4) Per una rappresentazione plastica del transfert negativo: alcune notazioni di ordine psicoanalitico.
La storia di Amy e Nick appare così, se la vediamo da un vertice di osservazione psicoanalitico, come una rappresentazione plastica, virata su un piano psicotico, di un transfert negativo. Si tratta di situazioni in cui l'inconscio della coppia (anche analitica) lavora con finezza distruttiva alla distruzione del legame stesso, pur mantenendolo in vita. In alcuni casi tale situazione si trasforma in folie a deux, finché, sperabilmente non accade qualcosa che genera un seme di trasformazione possibile. Nick e Amy sono in questa situazione. Una situazione di vero e proprio ingranamento psicotico, di indifferenziazione narcistica: non si capisce mai, nel film, dove, come e quando tutto ciò che accade davanti ai nostri occhi sia cominciato. Però è cominciato, e soprattutto prosegue avvolgendo la coppia e noi che la osserviamo in un'ammorbante sauna emotiva dal sapore acido e sulfureo. Proprio quello che accade in un "transfert negativo". Perchè Amy si è trasferita nel Missouri? Perchè Nick non ha capito che tipo di donna avesse sposato? Perché Nick ha deciso di dipendere economicamente da Amy? Tutte domande inutili: la trappola inconscia del legame ha già posizionato le sue bombe ad orologeria. L'orologiaio di Denver non può fare altro che mostrarcene il diabolico funzionamento nonchè l'effetto psicologicamente devastante.

    5) Gli "Oggetti alienanti" come motore centrale del film.
    Come ci ricorda Lenny Nero nella sua come al solito stimolante recensione, il film di Fincher è stato curiosamente tacciato di misoginia. Concordo perfettamente con lui sul fatto che non sia per nulla questo il motore centrale del film. Ben altri sono i piani di lettura. Ben altre le origini dell'ispirazione di Fincher. Almeno secondo il mio modesto parere. Una di queste origini (probabilmente non tanto consapevole in Fincher, ma chi può dirlo?), credo coincida con il concetto di "identificazione alienante", concetto psicoanalitico che deriva da Ferenczi, per poi essere lavorato finemente in epoca contemporanea da Bollas (1987), Käes (2009), Kanciper (2002), e in Italia da Borgogno (1999), Molinari (2007) e altri. Si tratta dell'idea secondo cui esistono individui in cui gli oggetti d'amore primari, invece di costituirsi come modelli positivi di identificazione, diventano parassiti interni che fin dalla primissima infanzia si installano nella mente del bambino invadendola di richieste e pretese di adesione ai propri ideali narcisistici, generando un processo di alienazione da se stessi, che successivamente si cronicizza in una personalitá che si perde nella dipendenza dall'altro per non sentire il vuoto della mancanza d'amore originaria. Fincher a mio avviso vuole sottolineare proprio questo: l'impossibilitá da parte di Amy di accettare anche solo un'ipotesi di separazione da Nick, perché letteralmente invasa e colonizzata dagli oggetti alienanti costituiti dai suoi genitori e dal personaggio-feticcio di "Amazing Amy". È da quel punto che origina tutto il film: da quel maledetto libro scritto dai genitori di Amy sulla sua pelle, da bambina. Ecco il vero motore del film.
     
    6) Matrimonio-famiglia: un incontro impossibile? La riflessione di Fincher (e della Flynn) si rivolge, al fondo dell'ispirazione artistica che la muove, alle modalitá, spesso, spessissimo venate di patologia alienante allo stato puro, della trasmissione generazionale dei valori familiari, valori che possono invadere l'intimità dell'amore di coppia, trasformandolo in una Reazione Terapeutica Negativa, in un transfert maligno, imponendo cioè il dominio di un inconscio trans generazionale sullo scorrere vitale e trasformativo del tempo.
    È possibile cioè un incontro felice tra matrimonio e famiglia, in senso lato? sembra domandarsi Fincher. E' possibile, cioè amare senza perdersi nella relazione con l'altro?

    7) "Gone girl": ovvero sulla morte della curiositá in amore.
    Alcune considerazioni finali su questo film che, credo, in sintesi vuole descrivere cosa succede quando istanze mortifere provenienti dalla storia di entrambi i membri di una coppia, tendono verso l'obiettivo di uccidere per soffocamento uno degli aspetti vitali fondamentali del legame di coppia, e cioè la CURIOSITA' CREATIVA RECIPROCA. Tale curiosità è infatti uno dei pochi ed efficaci antidoti all'insediarsi di stereotipi coattivi che si sedimentano nelle pieghe del tempo a formare sacche mute di rancore in azione.  

    Potrei proseguire per molte cartelle parlando di cast, interpretazione, caratterizzazione dei personaggi. Molto altro ancora ci sarebbe da scrivere, ma mi fermo qui, molto contento di giungere proprio sulla soglia del 2015, anno che si apre con questa sana, profonda boccata d'ossigeno rinvigorente le speranze circa la salute e la fecondità del Cinema contemporaneo. 
Regia:David Fincher    Soggetto e Sceneggiatura: Gillian Flynn  Fotografia: Jeff
Cronenweth    Montaggio: Kirk Baxter     Musiche: Trent Reznor    Cast: Ben Affleck, Rosamund,  Pike, Neil Patrick Harris, Tyler Perry, Carrie Coon, Kim Dickens, Patrick Fugit, David Clennon, Lisa Banes, Missi Pyle, Emily Ratajkowski  Nazione: USA  Produzione:  Twentieth Century Fox, Recency Enterprises, TSG Entertainment  Durata:  149 min. 

 


giovedì 25 dicembre 2014

Buon Natale 2014



In attesa di entrare in un 2015 sperabilmente denso di cose nuove e di cose antiche rinnovate (Ulteriorità Precedenti), auguro a tutti un Felice Natale, sulle note dell'Hallelujah di Leonard Cohen

lunedì 22 dicembre 2014

[Rec]4 - Apocalypse, di Jaume Balaguerò (2014)


La giornalista Angela Vidal è sopravvissuta agli spaventosi eventi narrati nel primo film, [REC]. Quello che lei stessa e i soldati che l'hanno salvata e portata via dal condominio contaminato, non sanno è che nel corpo della ragazza si nasconde un parassita che si è subdolamente insediato dentro di lei. Dopo il salvataggio Angela si sveglia all'interno di una nave che sta solcando i mari di una zona isolata e sconosciuta. Nonostante la nave sia apparentemente un luogo sicuro e lontano dalla terra ferma, Angela e i superstiti dell'infezione non riusciranno facilmente a tenere a bada il contagio...

Il primo [REC] (2007) di Balaguerò e Plaza, è stata un'opera assolutamente innovatrice del genere mockumentary perturbante, genere fondato nel 1999 da Daniel Myric ed Eduardo Sanchez con The Blair Witch Project. Più volte ho descritto l'uso geniale della tecnica mocku come osservabile in una parabola storica molto ben delineata, a mio avviso, i cui punti di svolta, le cui pietre miliari sono ovviamente la Strega di Blair, e poi [REC], di Balaguerò e Plaza,  Cloverfield (2008) di Matt Reeves, il primo Paranormal Activity (2007) di Oren Peli, il notevolissimo, imperdibile The Bay (2013) di Barry Levinson, per poi giungere a quel capolavoro horror che porta il nome di Megan is missing (2011), di quel genio chiamato Michael Goi. Lungo questa parabola cinematografica sono presenti alcune varianti minori, non certo "pietre miliari", ma comunque interessanti, che ho peraltro segnalato qui, come ad esempio Afflicted (2013), di Lee e Prowse.

Il percorso sedimentativo, generativo, operato dal genere mocku percorre dunque il perturbante cinematografico contemporaneo da ormai molti anni, aprendo a sprazzi orizzonti emotivo-visivo inediti, squarci immaginativi e di linguaggio mai sperimentati prima, tutte evoluzioni che hanno preso varie forme più o meno riuscite (vedi l'ultimo, interessante e di cui prossimamente parlerò su questi schermi Exist -2014, di Eduardo Sanchez). Ora Balaguerò, allontanatosi da Paco Plaza per motivi suoi che non ci interessa qui ulteriormente indagare, decide di continuare la saga cominciata nel 2007, rompendo radicalmente con il mocku, quasi a voler dire: "basta, adesso facciamo cinema vero". A differenza dalla recensione della mia amica Lucia a [Rec]4, personalmente ritengo che l'errore più grosso del film di Balaguerò consista appunto nell'essersi allontanato dalle origini proprio nel momento in cui re-introduce Angela Vidal nel tessuto immaginifico filmico che va costruendo. Perbacco, Angela Vidal è una giornalista, che fa tutt'uno con il suo videoreporter, il quale per giunta ci lascia le penne nel primo film. Angela è una vera e propria icona del mocku. Che ci fa su una petroliera rugginosa in mezzo al mare, e in un "vero" film? Questa è la prima domanda che mi sono posto visionando questa pellicola. 

Quello di Balaguerò è dunque un tradimento, sventolato ai quattro venti come trasgressione e/o emancipazione da un genere (forse) da lui ritenuto ormai non più percorribile, fuori moda, fuori tempo massimo, o non so. Ecco quindi che riagguanta lo scettro del "vero" regista e muove la macchina, certo, con una certa scioltezza e insieme fermezza, ma per raccontare una storia che proprio come una barca in mezzo a flutti pericolosi, fa acqua da tutte le parti. Il primo buco, a prua, enorme, è costituito dal casting, che più scialbo e grigio non si poteva condurre. Un gruppo che ha una funzione esattamente contraria a quella coreica che dovrebbe avere, considerato che al centro del coro c'è lei, Angela, mica noccioline! L'equipaggio, invece, affossa le esigue capacità interpretative di una Manuela Velasco che era così vitale, fresca, autentica, giustamente cocciuta, nel primo [Rec], quanto è vuota, prevedibile, finta, in questa quarto capitolo. 

Neanche la storia gira come uno si aspetterebbe. Anzi prende subito strade di involuzione somma: e pensare che tra il primo e il secondo lungometraggio, Balaguerò e Plaza avevano disseminato negli script sufficiente materiale perturbante da poter poi far nascere alberi robusti, aldilà della parentesi anomala e a se stante di [Rec]3 Genesis (del solo soletto Plaza). Nasce invece un fragile Ficus Benjamin chiuso dentro una stanza senza luce. Ma vi ricordate la prima sequenza dell'attacco da parte della grassa signora nella camera da letto dell'appartamento in [Rec]? Se vogliamo continuare ad utilizzare metafore botaniche, quella sequenza era un'orchidea tropicale colta nella luce albeggiante della foresta pluviale brasiliana. Qui invece troviamo solo stereotipi coattivi dei soliti zombie che abbiamo visto in mille salse, forse ripresi dal noto videogame per bambini "Piante contro Zombies", appunto (al quale mio figlio che ha 9 anni gioca molto spesso con gran divertimento). Niente pathos, niente sorprese, tutto già visto.  

E' chiaro che Balaguerò vuole emanciparsi dall'ambiente che lo ha generato e fatto crescere, ma lo fa senza curare affatto il cambio di scena, cioè quella scena "altra" che è, a differenza del mocku, il Cinema classicamente inteso. Ma non si può uscire dalla serra in cui si è maturato un proprio "carattere" estetico, un proprio "idioma", pensando inopinatamente di lasciarsi indietro tutto, ma proprio tutto, quasi rinnegando questo "tutto", senza correre il rischio di avventurarsi su terreni che non si sono ancora ben coltivati, perdendo così, completamente, quella magia che l'antica serra manteneva in vita con le giuste temperature. Questo è ciò che succede a Balaguerò: perde con [Rec] 4 la "giusta temperatura emotiva" che era stato in grado di mantenere dal primo all'ultimo minuto nel primo, mitico, magico film. 

Ci troviamo quindi, semplicemente, dalle parti di un piatto film zombesco come tanti. Grigio com'è grigia l'inutilmente verdognola fotografia di Pablo Rosso, bidimensionale come lo sono tutte (tutte!) le interpretazioni degli altrettanto bidimensionali attori. 

Tacerò sul prefinale con il verme-demone che passa da un corpo all'altro come una Tenia improbabile quanto ridicola.

Un vero peccato.

E anche, in verità, una presa in giro grossolana non solo di fan e sotto-fan che tanto attendevano questa quarto capitolo della saga, ma dello spettatore genericamente "normotipico", neanche tanto acculturato, ma quanto meno alla ricerca di una sensazione perturbante che questo film non sa dare nemmeno per un secondo. 

Torniamo al mockumentary classico. Torniamo a Sanchez e compagni, grazie. 

Regia: Jaume Balaguerò   Soggetto e Sceneggiatura: Jaume Balaguerò, Manu Dìez  Fotografia: Pablo Rosso   Montaggio:David Gallart   Musiche:Arnau Bataller   Cast: Manuela Velasco, Hèctor Colomè, Marìa Alfonsa Rosso, Mariano Venancio, Ismael Fritschi, Crìspulo Cabezas, Paco Manzanedo Nazione:Spagna  Produzione: Filmax, Somnium Films  Durata: 96 min.  

sabato 6 dicembre 2014

Tusk, di Kevin Smith (2014)


Il dj radiofonico Wallace Bryton è in viaggio attraverso il Canada allo scopo di intervistare persone interessanti che possano raccontargli storie originali e avventurose: i suoi piani non vanno per niente bene a partire da quando Wallace incontra un uomo misterioso di nome Howard Howe, il quale ha in effetti molte storie marinare da raccontare al giovane dj. Wallace si sveglia il giorno dopo nella grande casa isolata di Howe, per scoprire che il suo ospite non è affatto la persona che pensava fosse: il vecchio Howe ha infatti in programma di trasformare Wallace in un tricheco...


Confesso di aver nutrito qualche aspettativa su questo film di Kevin Smith, se non altro per il mistero che lo ha circondato fino al suo release, e per i trailer, che facevano immaginare grandi cose. Aspettative deluse, invece, purtroppo, nonostante alcuni spunti indubitabilmente interessanti che tuttavia non sono in grado di imprimere struttura e coerenza alla pellicola: stiamo parlando della fotografia, di James R. Laxton, che fa risplendere i colori di un suopermercato canadese come forse nessun altro aveva mai fatto (e che dire poi dell'inquadratura a piano medio delle due stolide commesse adolescenti, con quella divisa rossa fiammante?).

Il secondo aspetto interessante del film è l'interpretazione di Michael Parks, il vecchio Howe, completamente pazzo, rintanato nel suo bunker-magione in mezzo ai boschi, tragicamente infantile, satanico ed inesorabile nel perseguire il suo progetto chirurgico-naturalistico. L'avevamo visto reggere parti non da poco in Kill Bill (I- 2003 e II-2004) (Djiago Unchained, 2012), e in molti altri film, quindi ci aspettavamo buone cose da lui. Parks non ci delude, in effetti. Tutta la lunga sequenza del tè davanti al camino acceso con un Wallace ignaro del suo futuro destino, è suggestivamente lenta, teatrale, dialogata con vellutata sapienza da parte di attore (Parks) e regista. Memorabile anche la sequenza della cena, con quell'incredibile, surreale schiaffo "paterno" che il vecchio Howe infligge al suo Frankenstein-Wallace.

A parte i due elementi di cui sopra, il film comincia a decomporre il suo senso e la sua estetica (ben costruite fino alla sequenza della cucitura chirurgica, nella quale Howe è ben disegnato come un Geppetto perverso davvero molto inquietante), a partire da circa metà del minutaggio, proprio quando cioè, del tutto improvvidamente Smith decide di farci vedere il monstrum. Più che di un'azione registica pensata, si tratta invece di un vero e proprio agito, un acting out masochistico sotto vari profili. Vediamo quali: 1) Sul piano della sceneggiatura Smith aveva costruito un plot fatto di flash back ben collocati che diluivano un climax che nel frattempo cresceva bene, alimentato dalla colonna sonora di Christopher Drake. Le musiche erano ben centrate a commentare il viso in lacrime di Ally, la fidanzata di Wallace. Questa costruzione viene di colpo smantellata dalla visione improvvisa di Wallace trasformato in tricheco. Quando dico "di colpo", voglio dire che non ci aspetteremmo di vederlo lì così presto, dopo tutto il climax precedente. Si tratta a mio avviso di un grave errore di costruzione narrativa, che rovina tutto, ma proprio tutto; 2) Il masochismo di Smith raggiunge apici da manuale nella scelta di un responsabile del make-up (Robert Kurtzman) che personalmente non sceglierei neppure per organizzare il travestimento per la festa di Halloween di mio figlio di 8 anni. 

Decidere di aprire presto il sipario per farci vedere il monstrum implica essere sicurissimi di se stessi e del proprio lavoro. Implica pensare che tutto il resto del minutaggio si reggerà sulle spalle del mostro, e che tale entità trainerà tutto il film (pensiamo ad esempi ben più mirabili quali i mostri di "Cloverfield" (Matt Reeves, 2008), oppure lo stesso "The Human Centipede" (2009) Di Tom Six, bizzarro film ma pur costruito con dovuta proprietà di linguaggio perturbante-filmico. Oppure pensiamo a mostri più classici come l'anfibio di "The Host" di Joon-ho Bong (2006).

Kevin Smith, da questo punto di vista,  è vittima della sua presunzione: ci presenta infatti un mostro ridicolo, che più che un Frankenstein o una Helena nel suo box (vedi le suggestioni sottilmente derivative, ma del tutto inutilizzate, di "Boxing Helena", di Jennifer Lynch, 1993), è una specie di Gabibbo sotto forma di tricheco che non irradia nessuna vibrazione animale e tanto meno nessuna sensazione perturbante. Il responsabile di un simile obbrobrio è il tremendo, tremendissimo Robert Kurtzman (si può usare un superlativo assoluto per l'aggettivo "tremendo"? Spero di sì perché sarebbe appunto il caso) , il quale delude sommamente, soprattutto perché non sono due giorni che fa il suo mestiere. Aveva lavorato addirittura a "Vampires" di John Carpenter già nel lontano 1998, e poi in "All Cheerleaders Die"(2003). Qui sembra aver preso del Valium in dosi massicce mentre costruiva il costume da carnevale che fa indossare al povero Justin Long. 

Ma naturalmente,  non è solo questa tragica performance di Krutzman a mandare in rovina l'idea così surrealmente originale che fonda lo script (l'ossessione di trasformare un uomo in tricheco) . E' ciò che avviene dopo la sequenza dell'apparizione del mostro. Lo script si accortoccia velocemente su se stesso, e tale accartocciamento è introdotto dal personaggio (improbabilissimo) del detective canadese (interpretato da un inutile, tedioso Johnny Depp), personaggio che è una sorta di deus ex-machina tirato giù dal cielo da un Kevin Smith probabilmente in preda alla disperazione per il fatto che la Produzione gli sta urlando nelle orecchie che deve affrettare i tempi. 

Script mal costruito, sfilacciato, dalle tempistiche sgangherate e non pensate. Prefinale appiccicato come carta velina con lo scotch in un giorno di vento. Finale inutile, insensato come pochi altri ho visto così rimaneggiati. E non mi si venga a dire che si tratta di un plot che si fonda sull'autoironia o che ha l'intento di ironizzare volutamente sul genere "trasformazione" umano-animale nel cinema horror contemporaneo: non mi è sembrato questo il taglio del film. Proprio per niente. Il tutto con un'ottima interpretazione di Parks gettata letteralmente nella spazzatura. Ma perché tutto questo, caro Kevin Smith? Spiegacelo, per favore.
"Tusk": evitatelo, mi raccomando.  
Segnalo qui recensione di Love Is The Devil al film, parere che condivido in toto.

Regia: Kevin Smith     Soggetto e Sceneggiatura: Kevin Smith   Fotografia: James R. Laxton   Montaggio: Kevin Smith   Musiche:Christopher Drake   Special make-up effects: Robert Kurtzman    Cast: Michael Parks, Justin Long,  Haley Joel Osment, Genesis Rodriguez, Johnny Depp   Nazione: USA Produzione: Demarest Films, Phase 4 Films, SModcast Pictures     Durata: 102 min.