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lunedì 16 marzo 2015

Pausa musicale: "Caravan story"- Jovanotti, 2015



CARAVAN STORY (Jovanotti)

Lei arrivò che si sentiva stanca
entrò in quel bar come se fosse in fuga
la vita capita che a volte arranca
cerca una strada per dimenticare
ordinò un tè ma senza averne voglia
e vide lui con quel giubbotto orrendo
tutto il contrario di ogni suo percorso
c’era qualcosa però in quella sua posa da orso
pensò al suo uomo pieno di contegno
alla sua aura a quel suo grande impegno
che non gli aveva mai detto ti amo
col tono giusto che una donna sa
decise subito in mezzo secondo
quello che da una vita già sapeva
che non esiste proprio niente al mondo
paragonabile alla sensazione
di essere importante per qualcuno
di avere quell’amore
che una si sente dentro
lui stava zitto
ma accennò un sorriso
non era il massimo della prestanza
ma aveva addosso certe sue ferite
che si capiscono a chi sa cos’è
presero un autobus per la rotonda
che lui quel giorno aveva casa lì
gestiva un tagadà nel lunapark
l’idea le piacque e se ne impadronì
adesso vivono in un caravan
roba di lusso parabola satellitare
che prende internet e le TV
ma non la guardano quasi mai
le venne confermato nel profondo
quello che da una vita già sapeva
che non esiste proprio niente al mondo
paragonabile alla sensazione
di essere importante per qualcuno
di avere quell’amore che una si sente dentro
il suo ex marito la disprezza molto
parla di lei con commiserazione
ma certe volte gli ci va il pensiero
e sente un brivido di ammirazione
per quello spirito che non capiva
per quella donna che non tornerà
e a volte pensa di riconquistarla
comprando fabbriche di caravan
ma lei ora vive con il suo vagabondo
che le conferma ciò che già sapeva
che non esiste proprio niente al mondo
paragonabile ad un po’ d’amore
ma lei ora vive con il suo vagabondo
che le conferma ciò che già sapeva
che non esiste proprio niente al mondo
paragonabile alla sensazione
di essere importante per qualcuno
di avere quell’amore
di aver quell’amore
di essere importante per qualcuno
di avere quell’amore che una si sente dentro
(2015)


venerdì 13 marzo 2015

Clown, di Jon Watts (2014)




Un padre molto affettuoso trova in un vecchio baule un costume da clown inutilizzato da tempo, e decide di travestirsi lui stesso, in occasione della festa per il sesto compleanno del figlio. Al termine della festicciola l'uomo scopre con terrore di non riuscire più a togliersi di dosso il costume, che è praticamente diventata una sorta di seconda pelle collocata adesivamente sulla sua. Ma quel che è peggio consiste nel fatto che la sua personalità sta cambiando inesorabilmente, fino al punto da fargli compiere azioni terribili...

"Clown" è un film dalla scrittura piuttosto semplice, che può apparire quasi ingenua per certi versi. Mette sul tavolo ingredienti molto comuni, poco ricercati: rimanda subito a "It" di Stephen King, alla mitopoiesi perturbante del clown cattivo, allo stevensoniano Dr. Jekill che contiene in sè la parte scissa ma attivissima (e cattivissima) di Mr. Hide (Mister "Nascosto"). Tutti elementi di primo acchito molto banali, quasi noiosi, superflui, superati. Tuttavia Watts sa mescolare e dosare con una certa perizia estetica questi elementi, producendo un complessivo effetto straniante e insieme cinematograficamente nostalgico. 

L'ambientazione quotidiana, che descrive l'esistenza di una famigliola middle-class quale potrebbe essere anche la nostra, soprattutto se abbiamo figli (e solo i genitori sanno quanto possano essere estenuanti le festicciole di compleanno dei propri figli piccoli...), è il vero enzima catalizzatore di inquietudine di tutto il film. Infatti questo "mulino bianco" familiare è rotto in mille pezzi da una causalità banalissima, da un dettaglio (il ritrovamento casuale del baule contenente il costume), che però genera pura entropia, disastro, cambiamento - gradualmente - catastrofico. Il povero Kent è un padre qualunque, la quintessenza dell'impersonalità anonima, tutta spesa tra famiglia e lavoro: perché mai un demone dovrebbe infiltrarsi under the skin per rovinargli radicalmente l'esistenza? E invece è proprio così, accade, e Jon Watts sembrerebbe portarci giustappunto, a passi felpati, proprio nel territorio dell'imprevedibilità, di quella casualità che ci fa mettere poi inavvertitamente il piede sul burrone, facendoci precipitare di sotto, nostro malgrado. 

Tutto il resto in questo film lo riterrei relativo. Make up, fotografia, sonoro, locations, sono tutti aspetti coreografici. Ho visto "mostri" molto più inquietanti del pagliaccio demoniaco disegnato dallo script di questa specifica pellicola. Il cuore dell'opera sembra invece consistere nella descrizione degli effetti di una serendipità perturbante. Kent ha cioè trovato il famoso ago nel pagliaio. Ma non solo l'ago, ma anche chi ce l'ha messo, e tutta la sua cattiveria, tutto il male che si cela sotto la punta dell'iceberg che quell'ago rappresenta, tutto l'impeto distruttivo che alberga "sotto la pelle".  

Aldilà di questi elementi drammaturgici essenziali, semplici fino all'estremo, risultano a mio avviso interessanti anche le scelte registiche in quanto tali. Ad esempio l'inquadramento delle uccisioni dei bambini da parte del clown trasformatosi in demone, appaiono molto pensate e ben costruite. La sequenza della sala giochi per bambini è poi molto suggestiva, perché con pochi agili tocchi di montaggio sa trasmettere tensione a partire da un luogo che usualmente ha invece grande attrattiva per un bambino (un luogo cioè che di solito allontana il bambino da quelle che sono le sue più tipiche paure). E' come se Watts sapesse rappresentare una Gardaland che improvvisamente si trasforma in un covo di terroristi dell'Isis, all'insaputa dei turisti ivi riuniti per divertirsi. Anche la sequenza dello scivolo con le palline colorate (altro must di ogni bambino) mi è parsa inedita, originale, venata da un'ispirazione non facilmente reperibile in altri prodotti di genere. E non vorremmo certamente trovarci nei panni del bimbo che cammina carponi nei cunicoli dello scivolo alla ricerca del suo amico Dave...

In sintesi "Clown" è un film decisamente "minore", artigianale, ma che non manca di rimandi suggestivi, per esempio al mitico ed ineguagliabile "The funhouse-Il tunnel dell'orrore" di Tobe Hooper (1981). E quand'anche solo questo aspetto me lo ha reso piuttosto apprezzabile.
Da vedere. 


Regia: Jon Watts    Soggetto e sceneggiatura: Jon Watts, Christopher D. Ford    Fotografia: Matthew Santo    Montaggio: Robert Ryang  Musiche: Matthew Veligdan    Cast: Eli Roth, Peter Stormare, Laura Allen, Elizabeth Whitmere, Christian Distefano, Andy Powers, Sarah Scheffer     Nazione: USA, Canada   Produzione: Cross Creek Pictures, PS 260, Vertebra Films    Durata:  100 min.   

     

lunedì 2 marzo 2015

Exists, di Eduardo Sànchez (2014)



Cinque ragazzi decidono di trascorrere qualche giorno presso la baita dello zio di uno di loro. Il luogo è davvero selvaggio e desolato, ma immerso in una natura davvero incontaminata nella quale rilassarsi tuffandosi in torrenti dalle acque cristalline, oppure facendo gite in mountain-bike. Nel corso della loro permanenza diverranno tuttavia, loro malgrado, vittime di una creatura mostruosa che abita nei boschi, che ha tutte le caratteristiche del leggendario e crudele Bigfoot...

Avevo letto alcune recensioni non molto entusiastiche dell'ultimo lavoro di quello che potremmo definire uno dei padri fondatori del genere mockumentary, e cioè di Eduardo Sanchez, vedi ad esempio l'interessante articolo di Simone Corà a tale proposito. Avevo lasciato dunque il film in salamoia per qualche mese, meditando tra me e me se meritasse il tempo di una recensione. Lascio alla lettura della bella recensione di Simone i precisi e imprescindibili riferimenti ai precedenti lavori di Sanchez (e cioè The Blair Witch Project, 1999, Lovely Molly, 2011 e uno dei corti di V/H/S 2, 2013), e passo ad esprimere il mio parere su un film a mio avviso importante, poiché appartiene comunque alla storia di un filone perturbante che ha inciso parecchio nel tessuto dell'immaginario di noi spettatori.

Penso che "Exists" sia un film importante essenzialmente per motivi drammaturgici. Nel senso della drammaturgia del Perturbante, intendo dire. Sembra intanto voler calcare la mano, non tanto sul tema del "realismo" (aspetto molto sottolineato in "TBWP", ad esempio), quanto su un pessimismo nella risoluzione della vicenda, cioè sulla costruzione del Terzo Atto drammaturgico, che secondo me è magistralmente evocato, dosato e "cucinato" dal regista. 

E' tutto il prefinale e soprattutto il finale a spingermi a dire questo: scusatemi se parto dalla fine, ma tutta la sequenza dei cadaveri distesi sul prato nel bosco incenerito, con l'unico superstite di cui seguiamo (identificandoci) le vicende finali, è degno di una rappresentazione scenica da tragedia greca. Con la differenza che non sono le Erinni ad essere chiamate in scena dal tragediografo, bensì una creatura primitiva iperbolica, insensata, neanche inscrivibile nella mitopoiesi antropologica statunitense classica del Bigfoot. Il registro retorico dell'"iperbole" mi sembra infatti la tecnica principe utilizzata da Sanchez in questo film: a partire dalla sequenza dell'ingresso invasivo del mostro dalla porta semidistrutta del cottage, assistiamo ad un'escalation disegnata appunto attraverso l'uso dell'amplificazione. Ad un mostro ne segue un altro ben più spaventoso, ad un colpo di scena un altro ancor più catastrofico (vedi la sequenza della roulotte, girata in un modo assolutamente ottimo, nella quale il senso di uno "sconquassamento" materiale, concreto riverbera in maniera straniante la perdita di senso ineluttabile cui vanno incontro i protagonisti).

Il pessimismo, non solo "storico", ma "cosmico" cui potremmo dire un film perturbante si dirige nel suo incedere verso le angosce più profonde di uno spettatore, e che il più delle volte è caratteristica estetica che lo rende un'opera psicologicamente interessante, nonchè "sonda" esplorativa importante per indagare il tessuto delle angosce umane più inconsce, è qui sparso a piene mani, con un'amplificazione detonante nelle ultime scene. Tale aspetto estetico-filmico dell'opera di Sanchez me lo ha fatto molto apprezzare. 

Sanchez viene da una prova come "Lovely Molly", nella quale lascia stare la camera amatoriale e si addentra nel "cinema puro" producendo effetti molto positivi. In "Exits" riprende questo suo grande amore delle origini (peraltro mai dismesso) e usa il mocku come mezzo di riflessione sul Perturbante cinematografico, più che come tecnica in sè. Non gli interessano i protagonisti della storia, non guarda allo spessore psicologico dei personaggi, che potrebbero essere stati scelti anche con un casting del tutto diverso. L'orizzonte di Sanchez in questo film è, potremmo dire, decisamente più "filosofico". 

E si tratta di una filosofia che permettetemi di definire "leopardiana", nel senso che Sanchez in questo film ci sta parlando per l'appunto dell' "infinita vanità del tutto" di una condizione umana dominata dall'"impersonale" che la attraversa. Così come è impersonale la Pulsione, è impersonale anche la Morte, tanto quanto, paradossalmente, il legame familiare che unisce nella loro intrinseca diversità il terribile Bigfoot e lo zio che ospita a sua insaputa il nipote e gli amici tardo-adolescenti nella sua baita. Il mostro dei boschi credo possa essere visto come personificazione di tale aspetto di impersonalità che se ne frega bellamente del soggetto, dell'individuo e del suo desiderio, come accade anche alla Natura circostante, eternamente solo legata a se stessa e ai suoi violenti ritmi di nascita, morte, organicità e putrefazione. Il film si conclude infatti in un'atmosfera cimiteriale, mortifera in modo radicale. Ma è proprio questa radicalità del pessimismo di Sanchez (un'assolutizzazione del concetto di "rimozione originaria"?) che permette un'apertura al costruirsi di nuove storie: e questa è esattamente la funzione narrativa più intrinseca alla drammaturgia propria di un film horror. Infatti Bigfoot, l'Impersonale non muore mai (è pura mitopoiesi), è sempre lì nei boschi, e proprio perchè non muore mai consente la possibilità di un rilancio narrativo, di una nuova storia, di un nuovo film nel quale (chissà?) magari un giorno sarà davvero sconfitto come "lato oscuro della forza".

"Exists" parla di tutte queste cose, attraverso la creazione infiltrativa e tendenzialmente esponenziale di un mood pessimistico che apre a riflessioni molto interessanti. Per questi motivi è da considerare come una nuova declinazione del mocku che non può mancare nella collezione degli amanti del genere. 


Regia: Eduardo Sanchez  Soggetto e Sceneggiatura: Jamie Nash   Montaggio: Andrew Eckblad, Andy Jankins   Fotografia: John W. Rutland   Musiche: Nima Fakhrara    Cast: Brian Steele, Dora Madison Burge, Samuel Davies, Roger Edwards, Chris Osborn, Denise Williamson  Nazione: USA   Produzione: Court Five, Haxan Films, Miscellaneous Entertainment  Durata: 81 min.