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venerdì 6 maggio 2011

Delitti sulla Senna, di Tito Topin (2010)


Anno: 2006 Editore: Librairie Arthème Fayard, Paris, Tr. it. Giunti, Milano. 2010 Traduzione: Federica Trotta Pagine: 275  ISBN: 978-88-09-75027-2  Euro: 10,00


Proseguiamo nella nostra lenta e pacata indagine pre-estiva dei titoli thriller-noir d'oltralpe.  Dopo esserci dedicati al disastroso "Sezione Suicidi" di Antonine Varenne, buttato ben presto nella spazzatura, ecco che ci imbattiamo in questo "Delitti sulla Senna", di Tito Topin, scrittore franco-marocchino nato a Casablanca nel 1932 e insignito del prestigioso Prix Polar, proprio per questo romanzo. Ci troviamo qui di fronte (e finalmente) a ben altro spessore, rispetto a un Varenne, soprattutto rispetto a una modalità di scrittura davvero fresca e scoppiettante, inserita molto bene nell'attualità di una Parigi globale e globalizzata, e all'interno del cui tessuto romanzesco si staglia un luminoso personaggio, quello del commissario Benchimoun, detto Bentch, sbirro kosher che si aggira per le strade di Parigi a bordo di una vecchia Jaguar dai finestrini rotti. Bentch sta indagando su un serial killer che sconvolge la capitale uccidendo prostitute agganciate sulle rive della Senna. E' il primo romanzo di Topin che leggo, consigliatomi dal mio librario di fiducia pavese, Andrea, la cui sensibilità ed empatia relativamente ai gusti dei suoi clienti, sono semplicemente somme. Un primo romanzo che mi ha lasciato molto favorevolmente stupito, non tanto per l'intreccio, in alcuni punti lievemente sgarruppato per le mie papille, quanto per la scrittura in sè, peraltro magistralmente tradotta da una Federica Trotta che in alcuni momenti sembra guidata da ispirazione estatica. Ma vediamo alcuni esempi di questa scrittura:

"Il marito dell'ispettore Consuelo Sanchez era esposto dentro una bara imbottita di seta bianca sotto la luce cruda della stanza quando Inès venne a unirsi a sua sorella e ai membri della famiglia. Erano arrivati in gran parte da Valence, dove i genitori di Consuelo possedevano una calzoleria fin da quando si erano trasferiti in Francia dopo che un dittatore li aveva cacciati dal loro paese. Era l'unico laboratorio artigianale della città non gestito da armeni, altre vittime di quella stronzaggine umana che spesso si agghinda di uniformi bardate di ciondoli per meglio riunirsi fra stronzi" (pag.152).

Non so se siete d'accordo, ma qui io intravvedo in filigrana lo spirito e l'arte di Simenon, in quel tratteggio rapido e profondo, capace di aprirci squarci storici della famiglia e delle vicende generazionali di un personaggio. Per giunta, qui, secondario (Inès). Inoltre in queste poche righe Topin è in grado di evocare tutta una fantasmatizzazione storico-sociale relativa all'eccidio degli armeni, eccidio a lungo rimosso, mai sufficientemente citato e che in questo romanzo trova uno spazio culturale leggero, intermedio, eppure profondo, per ritornare alla luce. Ma vediamo insieme un'altra chicca tra le sequenze narrative che più mi hanno emotivamente toccato: 

"Lei si inebriava, le piaceva far festa, uscire, cenare al ristorante, adorava i posti alla moda dove s'incontrano persone famose, dove c'è luce, viavai, dove una conoscenza si ferma giusto il tempo di dire 'Come va?' e di darti un bacio, dove ritrovi gente che hai conosciuto durante una vacanza di una settimana a Creta e che si installa al tuo tavolo per prendere un caffè e raccontarti l'ultimo viaggio fatto a Santo Domingo. Dieci giorni a pensione completa, dovreste proprio andarci, la gente è adorabile ed è molto meno costoso delle Antille. Le piaceva il movimento, la testa che gira, i tipi con i capelli lunghi e possibilmente tinti a colori vivaci, gli artisti, gli avventurieri, tutto il contrario di quello che era lui" (pag.192). 

Ditemi voi se uno stile discorsivo simile non vi avvolge in un vento di vita caldo e fascinoso, che vi fa andare da Creta a Santo Domingo nel giro di tre righe, dispiegandosi in tre sole proposizioni delle quali la prima è lunga e densa di coordinate, capaci di darvi il senso di una vera e propria corsa della spirito di questa donna che fugge sempre via da ciò che è il suo uomo, per incontrare in un luogo che è sempre un altrove magico, la sua desiderata e impossibile felicità. Il libro è tutto così, dalla prima pagina all'ultima, sia che descriva le gesta orribili del serial killer nel momento in cui non sa decidersi se buttare il cadavere della prostituta di turno in un cassonetto, oppure nelle placide acque della Senna; sia che si immerga nella descrizione della famiglia ebrea di Bentch e dei suoi quadretti di vita esilaranti quanto vibranti di vitalità; sia che racconti l'appartamento di Violette con il cane morto sgozzato dall'assassino, insieme alla sua padrona, in camera da letto. Avrete dunque capito che consiglio senz'altro la lettura di questo libro. Un libro che va letto in quei giorni placidi in cui vi coglie il richiamo di una primavera interiore, come certe epifanie dell'essere che si mostrano a noi senza cercarle, magari poi sotto un albero in riva al fiume, in una tranquilla domenica di sole tiepido di fine aprile.

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