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domenica 9 dicembre 2012

The Grey, di Joe Carnahan (2012)



L'aereo su cui viaggia un gruppo di lavoratori di un un oleodotto, precipita in una zona sperduta dell'Alaska. I pochi sopravvissuti, tra cui il protagonista Ottway, si ritrovano ben presto a dover lottare non solo contro la rigidità del clima e un ambiente ostile, ma soprattutto contro un branco di lupi famelici. Ottway e i suoi compagni decidono di abbandonare il luogo dello schianto e di dirigersi verso i boschi, nel tentativo disperato di salvare le loro vite...

Ad una prima, superficialissima lettura, "The Grey" è un survival drama che ci racconta di un gruppo di superstiti di un incidente aereo alle prese con una natura ostile e con un destino che più cinico e baro non si può. Tale lettura si autodemistifica però immediatamente: dopo poche, essenziali sequenze Joe Carnahan ci conduce subito nei sotterranei di una profondità filosofica che, lo confesso, non mi sarei aspettato dal regista di "A-Team" (2010). Carnahan ci parla subito della morte, non appena imbracciata la cinepresa, e della sua costante, imprevedibile presenza all'interno della vita di ogni uomo, e lo fa mediante l'interpretazione intensissima di un Liam Neeson che non è mai stato un attore da me molto amato, con quella sua faccia da anziano cameriere di trattoria del Michigan. Qui invece Neeson si riscatta completamente, subisce una metamorfosi psicofisica incredibile. Già da una delle prime toccanti sequenze in cui tiene la mano di un compagno che sta per morire e lo guarda con infinita commozione, si capisce che il film ce ne farà vedere delle belle, anzi, ci farà pensare, ci obbligherà a pensare, soprattutto al tema della perdita. Ma non solo, scopriremo poi. Il film è molto lungo (117 minuti) ma non ti lascia mai un secondo, non ti permette di abbandonare questi rozzi e bizzosi operai statunitensi a se stessi. Carnahan ti chiede di seguirli, di stare con loro, e tu lo fai, semplicemente, perché la loro storia è metaforicamente, anche la tua. Non lo vuoi ammettere, ma è così. Carnahan ci parla dell'impietosa verità che l'esistenza ha un limite, e che per molti esseri umani essa è molto più dura di altri, più drammatica, più faticosa e ostile, sebbene cerchiamo spesso di non vedere e accettare tale verità.  Il film ricorda molto lo stile di Malick, soprattutto negli eterei flashback in cui Ottway si rivede nel letto con la defunta moglie, cui scrive lettere perché non ha mai accettato questa terribile prova luttuosa. Ma Carnahan è un Malick decisamente meno metafisico, e che soprattutto non usa l'immagine come metafora o suggestione simbolica che rimanda ad un Altro-da-sè inattingibile. In "The Grey" il regista attinge invece ad un substrato filosofico che potremmo definire, se ce ne fosse bisogno, esistenzialista, là dove, sartrianamente "l'inferno è la Natura", al posto di "l'inferno sono gli altri". Una Natura leopardiana, darwiniana, insensata dal punto di vista dell'uomo, e che obbliga l'uomo stesso ad un costante, sempiterno lavoro di scarto e fuga verso ciò che si definisce come "umano" rispetto a ciò che si definisce come "animale". In tal senso la bellissima sequenza del bosco in cui vediamo il gruppo di superstiti ascoltare gli ululati lontani dei lupi che non vedono l'ora di poterli aggredire nel buio della notte, è un esempio di grandissima poesia cinematografica della quale dobbiamo ringraziare l'ispirazione di Carnahan. "The Grey" è un film sulla fragilità umana, su quella hilflosigkeit (impotenza) su cui Freud si è soffermato più volte, e che fonda la relazione, il legame affettivo tra gli individui, la loro etica. E' il gruppo, il legame, appunto, tra operai superstiti,  l'unico strumento utile a sopravvivere alle intemperie e agli attacchi dei lupi. Legame anch'esso fragile, naturalmente, che si spezza facilmente per via della conflittualità, del Caso, della stessa Natura. Non è un fatto fortuito, credo, che il film sia tutto al maschile. Le uniche presenze femminili consolatorie sono la moglie morta di Ottway che compare però come miraggio fantasmatico, nonché la piccola figlia di uno dei protagonisti, che arriverà a "visitarlo" un attimo prima che muoia. In questo film, cioè, non c'è spazio per la speranza, non c'è spazio per l'illusione: nessuna evasione è possibile. Impotenza e caducità sono le uniche categorie kantiane possibili e passabili per un regista e sceneggiatore che, aiutato da una fotografia asciutta e scarna (dell'ottimo Takayanagi), ci racconta un'altrettanto scarna e beckettiana storia nella quale vivere è sinonimo di sopravvivere. Sopravvivere alla continua perdita che costituisce il tratto distintivo della vita. In questo senso Carnhan non ci dà tregua nel sottolineare tale aspetto (si veda ad esempio una delle ultime sequenze, quella del torrente, in cui Ottway si getta in acqua nel tentativo di salvare un compagno dall'annegamento), e questa insistenza è forse l'unico elemento criticabile del film, ma che non scalfisce, anzi accentua la solida coerenza della sua poetica. Molte possono essere, naturalmente le letture possibili di questa pellicola così densamente popolato di fantasmi mortiferi. Da un vertice di osservazione psicoanalitico, ad esempio, tutta la vicenda può essere anche vista come l'azione distruttiva di un Super-Io sadico proiettato sulla Natura Matrigna che "mangia" i suoi figli, invece di nutrirli e ricompensarli delle loro fatiche. "Proiezione" determinata probabilmente da aspetti profondamente depressivo-pessimistici che albergano nella sceneggiatura e in chi l'ha così ideata, ma che trovano almeno espressione e rappresentazione (figurabilità) nel corso di tutta la pellicola. Aldilà delle possibili letture, il film è un'opera tutta centrata sulla solitudine assoluta dell'uomo rispetto alle proprie responsabilità esistenziali, e sulla assoluta necessità di un lavoro costante circa queste responsabilità. "The Grey": film poetico, struggente, filosofico in senso malickiano. Da vedere assolutamente pur facendo attenzione ad avere i bioritmi a un buon livello mentre lo si guarda. 
Regia: Joe Carnahan Soggetto e Sceneggiatura: Joe Carnahan, Ian Jeffers Fotografia: Masanobu Takayanagi Montaggio: Roger Barton, Jason Hellmann Musiche: Marc Streitenfeld  Cast: Liam Neeson, Dermot Mulroney, James Badge Dale, Dallas Roberts, Joe Anderson, Frank Grillo, Nonso Anozie, Ben Bray  Nazione: USA Produzione: Open Road Films, Inferno Distribution, LD Entertainment  Durata: 117 min. 
  

11 commenti:

  1. Oh! Interessante scoperta fuori dal "filone"... avevo letto di un film poco attrattivo, ma siccome di te mi fido corro a recuperarlo. Grazie.

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  2. Fidati, fidati, Eddy. Il film è davvero notevole, almeno a mio avviso :)

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  3. @ Eddy: dove hai letto di questo film come "poco attrattivo"? Mi piacerebbe leggere altre recensioni. Grazie.

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  4. Mah...
    Lo vidi al tempo in lingua originale e lo trovai un matrimonio malaccorto e pasticciatissimo fra "Alive", "Into the wild" ed un qualsiasi cazzo di survival sulla falsariga di "Deliverance" (tre pellicole -per inciso- infinitamente superiori), in cui la sospensione dell'incredulità (massì, limitiamoci a quella) ha vita dura ALMENO quanto i protagonisti stessi.
    Soprattutto, è di una pretenziosità irritante.
    Chi ne tesse le lodi -e non sono pochi- ci scorge un qualche chissà quanto ben reso affresco d'indomabile Natura, belluini fulgori, epifanie silvestri, ancestrali contrasti in&out l'animo umano e patapim e patapam, m'è sembrato di capire.
    Minestra riscaldata, secondo me. In salsa lupesca.
    "Ma è un film profondissimo!" sbotterà qualcuno. "E che interpretazioni!". Eh, si, il colonnello Kurtz gli fa una pippa, a Liam Neeson mezzo assiderato (come se inespressivo non lo fosse gia' di suo!).
    E la sottotrama della poesia, poi... Ma ne vogliamo parlare?
    Per banalità ed assoluta gratuità gli spetterebbe di diritto un grand prix per il ridicolo involontario, se solo ce ne fosse uno (oddio, per quello c'e' l'Oscar, ma non divaghiamo).
    Poi boh, se basta una bella fotografia (e con quelle locations grazie tante!) malaccompagnata ad una serie pressoché infinita d'espedienti da asilo nido come il suddetto sottotesto lirico, a nobilitare quest'estenuante caduta nel baratro del masochismo cinematografico (e quello sì che non ha fondo, sempre per chi guarda, eh), allora io non ci ho capito mai una minchia e non solo di Cinema.
    Il mio unico, sentitissimo elogio, va agli attori migliori del cast: i lupastri, of course.
    Spiace rendersi conto che in rete diversi cinefili (ma forse nella fattispecie sarebbe meglio parlare di cinofilia) abbiano apprezzato un'opera tanto inverosimile, sgangherata, banale, noiosa e, lo ripetero' fino alla nausea, AFFETTATA ED ESTREMAMENTE PRESUNTUOSA, nonché inconsapevolmente ridicola.
    Sarò all'antica, ma quando ho certi pruriti mi riguardo "Grizzly man".
    Limite mio.

    p.s.
    Mentre lo guardavo, da un certo punto in poi (piu' o meno al 50esimo avvenimento inspiegabile secondo le normali leggi chimico-fisico-psichiche), ho cominciato a sperare con tutto me stesso che l'intero film fosse in realtà una sorta di "descensio ad inferos" dei bifolchi trapanaghiaccio, periti (giustamente) nello schianto dell'aereo. Che il film fosse, in pratica, un viaggio mistico oltremorte in cui affrontare -e vincere, possibilmente- le proprie paure piu' profonde onde potersi finalmente godere l'eterno riposo.
    Cosi' non e' stato.
    O forse forse???
    Scherzi a parte, non che un twist del genere (capirai l'originalita', poi) l'avrebbe reso un capolavoro.
    Ma almeno una buona meta' delle stronzate inverecondamente propinateci dal regista avrebbe acquisito un qualche senso.

    Perdonate le chiacchiere.

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  5. @Anonimo: Caro Anonimo, non sono affatto d'accordo con te, e cercherò di spiegarne i motivi: intanto mi sembra che nella tua visione del film tu non veda il tema (centrale) della PERDITA, da me più volte sottolineato. E' presente un lutto iniziale, cui seguono i lutti continui dei compagni del gruppo: aleggia in tutto il film un'atmosfera di precarietà dell'esistenza a mio avviso molto commovente (ma questo è soggettivo, certo), per cui non capisco come tu possa etichettare "The Grey", che tocca temi spinosi e molto dolorosi come "un'opera tanto inverosimile, sgangherata, banale, noiosa e, lo ripetero' fino alla nausea, AFFETTATA ED ESTREMAMENTE PRESUNTUOSA, nonché inconsapevolmente ridicola". Affrontare temi come quello della morte di una persona cara, in un film "d'azione", come può anche essere visto "The Grey", non è cosa così lineare come può apparire a prima vista. Non mi sembra che tu colga questo aspetto "affettivo" veicolato da Carnahan, il quale non fa nulla per strizzare l'occhio al pietismo o all'emotività holliwoodianamente intesa. Sull'inverosimiglianza del plot, anche qui non sarei così drastico: le sequenze sono ben legate, ed è del tutto comprensibile che esistano branchi di lupi famelici in una zona sperduta dell'Alaska. O no? Sono inoltre presenti richiami a Jack London, che non ho citato nella recensione, ma che tu non vedi neppure, parlando invece del paesaggio come una banalità totale che rende superflua la fotografia (a parte che questo da parte tua è un errore tecnico, infatti la fotografia è sempre fondamentale in ogni film, senza andare a citare "Barry Lindon", voglio dire). Citi anche il sottotesto poetico che, anche qui, non cogli affatto, dici di volerne parlare, ma non ne parli, in verità, dicendo solo che è un film banale. Ma cosa vuol dire "banale"? Se me lo spieghi in modo più articolato te ne sarei gratissimo, perché non ho capito. E' la tua critica invece, mi sembra, ad essere banale, troppo rapida e tranchant, poco pensata, anche quando parli di "masochismo cinematografico". In che senso? A me sembra invece che "The Grey" sia invece un film sulla lotta, sul "vendere cara la pelle", vedasi l'ultima sequenza, ancora una volta molto poetica che ci fa vedere Ottway da bambino col padre che gli legge, appunto, poesie. Personalmente quell'inserzione io l'ho trovata molto molto bella, poetica, appunto, malickiana, e ci parla della Vita come Lotta, non come "masochismo". In sintesi mi sembra che la tua analisi sia superficiale, preconcetta e un pò miope, ma naturalmente ognuno ha le sue opinioni che sono del tutto rispettabili e accoglibili. A presto.

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  6. Il film l'ho visto ieri e l'ho trovato davvero forte, in tutti i sensi. Come tematiche, come impatto emotivo, come rappresentazione grafica. Anche io da un cazzaro come Carnahan non mi sarei mai aspettato alcune finezze tipo la scena in cui i sopravvissuti sentono i lupi ma ne vedono solo la condensa del loro respiro. Grande film, con un finale grandiosamente lasciato a metà (ovviamente il pubblico lì ha sbottato con "che merda", ma non mi sorprende). Ovviamente ottimissima recensione che condivido per intero!

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  7. @ Death: grazie per il commento, mi fa piacere che siano qui presenti opinioni diverse, come la tua, così come quella dell'Anonimo, più sopra. Attendo nuove recensioni sul tuo blog :)

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  8. io ce l'ho in rampa di lancio e questa tua recensione, come anche le riserve dell'Anonimo, mi hanno stuzzicato ancora di più alla visione...

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  9. Di questo commento me n'ero scordato. Pensare che ero anche curioso di conoscerne l'effetto. Ma ho la memoria di una carpa koi e sono spudoratamente pigro, quindi mi auguro perdonerai il colpevole ritardo col quale rispondo.
    Dunque. Nella mia estemporanea, goliardica e -ammetto- pure un po’ cialtrona (ma grazie del tranchant, ché en française fa sempre figo) "recensione", speravo si capisse quanto più di tutto mi premesse restituire a quest'aborto, che dando a me del miope tu scambi per esempio fulgido di "profondità filosofica", la sua reale dimensione. Che –ci tengo ad essere chiaro- rimane la stessa di "A-team" e per Weltanschauung (ahimè, ho fatto anch'io le "scuole alte") e, conseguentemente, per target di riferimento.
    Ora, a dare peso alla prolissa sicumera con la quale lo descrivi, e che fra l'altro immantinente salta all'occhio per la sua insulsaggine, si corre seriamente il rischio di farlo sembrare un film di Haneke, e questo non è bene.
    Citare a sproposito Sartre (perché non il Sisifo camusiano, già che c’eri?), Leopardi (manco fosse sinonimo tout court di “pessimismo”), Freud (che da buon psicanalista sai di poter ficcare impunemente dappertutto), Kant (!!!) e neanche oso ricordarmi chi altro, in nessun modo renderà quest’indigesta ciofeca al gusto di merda surgelata un delizioso semifreddo al cacao. Ragion per cui se fossi tu ad argomentare un pelo meglio certe baggianate ti sarei infinitamente grato.
    Voglio dire, i “temi molto dolorosi” presenti in "The grey", oltre che essere piuttosto universali -ed in quanto tali, ti piaccia o no, scontati per definizione- non sono poi così diversi da quelli che troviamo nella quasi totalità dei drammoni hollywoodiani, nonché in altri capolavori senza tempo come Bambi o nei film di VanDamme. Devo dedurne che si tratti di pietre miliari del cinema esistenzialista, forse?
    Ché poi il problema non è certo il “cosa”, ma il “come”, e per la distinzione un’adeguata cultura (stavolta cinematografica) aiuterebbe alquanto a sopperire alla bisogna.
    Riguardo Jack London; ti è passato per la testa che con “banale” mi riferissi al cumulo dei cliché sul “Grande Nord” resi celebri proprio da questo autore?
    Va da sé che “masochistica” è stata la sofferenza provata DA ME nello sforzo di finire la visione di cotanto becero pattume travestito da poesia.
    Fermo restando che poi i gusti sono gusti, ovvio.

    L'Anonimo di un mese fa.

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  10. p.s.
    Se per poesia s'intende quella specie di haiku anaforetico misto flashback che il trapanaghiaccio si ripete di continuo come un mantra, allora beh...
    Direi che Carnahan se la prende con la letteratura, oltre che col cinema. ;)

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