Pagine

mercoledì 9 ottobre 2013

Gravity, di Alfonso Cuarón (2013)


La brillante dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) è alla sua prima missione spaziale, insieme all'esperto astronauta Matt Kovalsky (George Clooney) che è al suo ultimo viaggio prima della pensione. Quella che doveva essere una tranquilla passeggiata spaziale di routine per la manutenzione del telescopio Hubble, si trasforma in una esperienza catastrofica: una pioggia di detriti derivanti da un satellite russo che è andato distrutto, li investe improvvisamente mentre stanno ultimando il loro lavoro fuori dallo Shuttle. Vengono così a trovarsi soli nel silenzio dell'universo, in totale assenza di gravità. Fluttuanti nell'oscurità, non hanno apparentemente chance per salvarsi, anche per via dell'ossigeno che va via via esaurendosi. Forse l'unico modo per sopravvivere è avventurarsi nello spazio alla ricerca della salvezza...

Nella lingua inglese "gravity" possiede come in italiano diversi, ambivalenti e "primordiali" significati tra cui quelli di "gravità, serietà, austerità", ma anche quello di "gravità" in senso fisico e di "peso specifico" (Grande Dizionario Hazon Garzanti Inglese-Italiano Italiano-Inglese). Alfonso Cuarón condensa tutti gli aloni semantici che gravitano (anche linguisticamente!) intorno a questo sostantivo, in un'opera di grande spessore estetico, in un film che è anche un grande generatore di domande irrisolte, di riflessioni insature sulla condizione umana. Appartenente a tutti gli effetti al recente filone di quella "fantascienza esistenziale" di cui "Moon" di Duncan Jones (2009) è uno splendido esempio, "Gravity" si avvale di un comparto tecnico che si sposa magistralmente con una regia degna di Kubrick, quanto ad ossessività e attenzione al visivo inteso come veicolo primario dei sentimenti umani più profondi. Un visivo panoptico, dagli orizzonti onnicomprensivi e onnipervasivi, dove la luce è protagonista indiscussa e creatrice insieme di forma e sostanza del racconto. Certo, occorre avere dalla propria parte un direttore della fotografia maniacalmente dedito al suo mestiere perché il risultato sia coerente con le aspettative della regia. E Cuarón ha in questo caso dalla sua parte lo stesso Emmanuel Lubezki che aveva lavorato alle luci di "The Tree of Life" di Terrence Malick nel 2011, nientemeno. Dopo una tale esperienza, che immagino esistenziale, catartica, più che solo professionale per Lubezki, arrivare sul set di "Gravity" deve essere stata una vetta non molto ardua sebbene impegnativa per il direttore della fotografia che Cuarón ha saggiamente preso a bordo della sua ciurma. Le sequenze iniziali della pioggia di detriti che sconvolgono schizofrenicamente la calma della "passeggiata nello spazio" della dottoressa Stone e dell'astronauta Kovalski, sono un esempio mirabile dell'importanza essenziale della fotografia in qualsiasi film, e a maggior ragione in un film di cosiddetta "fantascienza". Dato a Cesare quel che è di Cesare relativamente all'uso della luce e della palette cromatica, passiamo a dire qualcosa circa la qualità del costrutto narrativo dello script, che è essenzialmente suddiviso in due parti. I due tempi stanno tra loro in un equilibrio non sempre perfettamente stabile, e questo va detto senza se e senza ma. Nella prima parte domina il senso di vuoto, della perdita dei punti di riferimento essenziali alla sopravvivenza, della precarietà assoluta dell'individuo posto di fronte a un universo sconosciuto e ostile che è anche, metaforicamente, l'universo dell'Incoscio, l'In-cognitus, ciò che ci attraversa impersonalmente sia fuori che dentro di noi fin dai primi istanti del nostro venire al mondo. In questa prima parte il film si presta egregiamente a rappresentare infatti le emozioni travolgenti implicate in ciò che la psicoanalisi usa definire "cambiamento catastrofico", e che ha come suo prototipo il trauma della nascita, momento esiziale per il successivo sviluppo del soggetto. Le sequenze iniziali in cui la dottoressa Stone precipita nel vuoto roteando su se stessa rimandano infatti a quel tipo di trauma iniziale che poi la sceneggiatura sviluppa come conflitto interno alla protagonista tra l'abbandonarsi alla morte oppure lottare per la vita tornando coi "piedi per Terra". E qui capiamo meglio anche l'uso che il regista fa del titolo, "Gravity", così denso di chiaroscuri perturbanti e ambivalenti (resi assai bene dalle inquadrature del volto sfondato e amorfo di uno degli astronauti della missione, crivellato dalla pioggia di detriti). La seconda parte del film, per certi versi più debole, riecheggia alcuni stereotipi cinematografici peraltro egregi, come "Alien" di Ridley Scott (1979), con la protagonista femminile che riesce miracolosamente a trovare rifugio nel nulla dell'universo che la circonda, lottando disperatamente per la salvezza, come la Ripley di "Alien". Aldilà degli stereotipi Cuarón riesce tuttavia a virare verso confini sconosciuti del genere fantascientifico e ad esplorarli con cipiglio quasi filosofico, senza mai sfiorare il concettoso o il facilmente leopardiano, ma rimanendo sempre entro il perimetro di un intrattenimento, sempre molto pensato e che "da da pensare". Molti gli spunti del film che fanno riflettere (a partire dalle vicende dei due protagonisti intesi come individui) sulla condizione umana intesa come situazione universale in cui il soggetto esiste solo in quanto in relazione ad un legame umano che lo costituisce. La coppia Stone-Kovalski, legata al cavo delle tute da astronauta, nelle sue imprevedibili fluttuazioni nell'oscurità dello spazio, evocano l'idea della precarietà dell'uomo e del suo bisogno assoluto di legami affettivi e relazioni intersoggettive. Il film prende una piega molto "d'azione" nella sua seconda parte, fino al concitato finale al cardiopalma, che però "atterra" catarticamente su radure di speranza, imprevedibilmente, potremmo dire, considerata l'odissea cui è sottoposta la dottoressa Stone. Apprezzabile questo finale, perché apre al futuro, non ripiegandosi su una masochistica e sterile autocommiserazione. Il consiglio, se possiamo chiamarlo così, visto che non sono certo qui per dare consigli a nessuno, è quello di andare senza dubbio a vedere questo film, vera esperienza estetico-visivo-emotiva molto intensa, molto simbolica.
Regia: Alfonso Cuarón   Soggetto e Sceneggiatura: Alfonso Cuarón, Jonás Cuarón, Rodrigo Garcia   Fotografia: Emmanuel Lubezki  Montaggio: Alfonso Cuarón   Cast: Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris, Orto Ignatiussen, Paul Sharma, Amy Warren Nazione: USA, UK Produzione: Warner Bros., Esperanto Filmoj, Heyday Films   Durata: 90 min.   

  

2 commenti:

  1. Ok, ne abbiamo parlato da me, quindi sai cosa ne penso. Però è bellissimo vedere come un unico film possa creare tanto movimento. A sto punto, solo per questo, è un buon film ;)

    RispondiElimina
  2. @ Eddy: grazie Eddy, ne abbiamo parlato anche (molto a lungo almeno il sottoscritto) anche da Simone, al cui dibattito ha partecipato anche Lenny Nero, di cui nutro grande stima, come anche per te, of course. A me sembra che gli spettatori cui "Gravity" sono stati, come dire, irritati da aspetti inconsueti, non-narrativi di un film, che comunque secondo me solleva domande, come anche tu noti nel tuo commento qui. E dibattere fa bene. A presto.

    RispondiElimina