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martedì 30 giugno 2015

We are still here, di Ted Geoghegan (2015)




In una zona isolata del New England, durante un inverno che copre di neve tutto quanto, una misteriosa casa cela segreti incofessati, e soprattutto, ogni trent'anni chiede a gran voce un sacrificio umano...

"We are still here" di Ted Geoghegan si apre con due inquadrature fisse in campo lungo, anzi lunghissimo che ricordano le inquadrature finali del kubrickiano "The Shining" (1980): ci viene cioè mostrata la campagna del New England attraversata da una tempesta di neve nella quale potremmo benissimo veder vagare il folle Jack Torrance alla ricerca della sua amata Wendy. Tutto il film segue impeccabilmente questa linea estetica, a cominciare potremmo dire dal casting, con una Barbara Crampton che sembra appena uscita da un set del grande Stuart Gordon, per proseguire con un uso dello splatter in modalità filologicamente riferibile agli anni '80 (in particolare i rimandi sono ad autori quali Sam Raimi, e Peter Jackson) e '90 (qui i riferimenti possono essere Stuart Gordon stesso, nonchè decisamente Lucio Fulci e la modalità visionario-caotica che lo ha sempre contraddistinto, almeno per quanto riguarda la sua produzione cinematografica horror di quegli anni). 

L'obiettivo poetico-filmico perseguito da Geoghegan è semplicemente quello, sembra di capire, di un ricalco vintage di tutta la produzione cinematografica perturbante degli anni '80-'90, e qui, subito, si pone una domanda a mio avviso essenziale per cercare di comprendere la "trama profonda" del film e le sue soluzioni estetiche: cosa spinge Geoghegan a riportare sul palcoscenico dell'epoca moderna che viviamo, ad esempio l'estetica horror anni '80, cioè quell'estetica anti-edonistico-reaganiana volta a ribaltare l'idea di un corpo come simbolo di bellezza e ricchezza, mostrandone invece il lato fragile e soprattutto frammentabile, così come la Guerra del Vietnam aveva ispirato negli anni '70 registi molto "sociali" come George A. Romero? Cosa spinge un giovane regista al suo primo vero lungometraggio a ristudiarsi tutto il cinema perturbante slasher, gore, splatter prodotto negli USA nell'arco di un trentennio memorabile, per poi scrivere e girare un film che sembra girato esattamente in quegli anni, compresa la ritmica del montaggio (lenta, centrata molto sui campi lunghi, o su inquadrature fisse degli interni), i dialoghi, le musiche, e ovviamente le scenografie? 

Questa è la domanda che mi è girata nella testa durante tutto il corso della visione di "We are still here". Anzi, a un certo punto mi è parso che il titolo stesso nascondesse le motivazioni inconsce che hanno spinto il regista a girare questo film: "Siamo ancora qui", cioè negli anni '80-'90. Motivazioni nostalgiche, verrebbe da dire, ma talmente nostalgiche da non volersi discostare di un millimetro dai canovacci originali. Non si tratta cioè di un cosiddetto "omaggio" al genere di quegli anni. Un "omaggio", sul piano cinematografico è uno spunto, un'atmosfera, una serie di sequenze, un cameo, che stanno all'interno di un film che nella sua originalità prospettica ed estetica vuole dire delle cose sue, pur "omaggiando" i giganti sulle cui spalle sente di appoggiarsi. Ma in ogni caso un film dovrebbe, credo, mantenere una sua identità, una sua "soggettualità" intrinseca, aldilà degli omaggi. Al contrario, tutto al contrario, Geoghegan è come se volesse scomparire, autoannullarsi come regista (e pensatore), ponendosi ai margini assoluti, estremi della materia che va modellando, come a voler girare un film già girato mille volte, proprio per sottolieare che non l'ha girato lui, ma un altro. A tale scopo tutta la crew viene impiegata a sottolineare pesantemente questo aspetto, e in tutti modi possibili: la fotografia di Karim Hussain, che aveva già ottimamente lavorato in Antiviral di Brandon Cronenberg (2012) e in The ABC's of the Death di Andrews, Betties e altri (2012), rende qui tutto polveroso e massimamente fulciano (vedi sequenze della cantina); il make-up, di Oddtopsy non va molto lontano da un mihalkiano My Bloody Valentine (1981); le musiche di Wojciech Golczewski mirano semplicemente a sottolineare i momenti di jump scare più significativi, nonchè a tenere viva la tensione che sale vieppiù a partire dalla seconda parte del film, che comincia con l'arrivo del figlio dei Lewis all'interno della casa; il cast rivisita in modo pedissequo e piatto la filmografia di riferimento (anche il pur ottimo Larry Fessenden sembra voler imitare le performance di Linda Blair ne L'esorcista (1973) di William Friedkin, scomparendo così anche lui ai margini della pellicola). 

Qual'è, in sintesi, l'effetto complessivo di tutta questa operazione da amanuense certosino messa in scena da Geoghegan? Sul piano del Perturbante direi piuttosto scarso. Certo, l'intento del regista è chiaramente e appositamente derivativo. Si tratta vorrei dire di un'"estetica pura del derivativo", che tuttavia, visivamente, emotivamente, a mio avviso, non va molto aldilà del vintage, perchè, per motivi che definirei di percezione gestaltica della forma, l'effetto e solo quello, e da lì non si scappa. Non c'è bisogno di citare Kant e le sue categorie a priori della percezione per dire che se confeziono un film "come se" fossi un regista che gira negli anni '80, ne uscirà un film esattamente "come se" fosse stato girato in quegli anni, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. E soprattutto l'effetto finale è quello di un anacronismo fuori luogo e fuori tempo ("We are STILL here") che nulla, assolutamente NULLA aggiunge al genere Perturbante cinematografico. 

Quella di Geoghegan, al termine della visione del suo film, appare come un'operazione di ricalco, un "trasferibile" che si sviluppa in variegati e molteplici rimandi ad altre opere e ad altri, polimorfi stilemi (la visionarietà sgangherata di Fulci, il corpo trasformato in zombie di Romero, il corpo posseduto di Friedkin, la casa isolata da tutto di Raimi, etc.). Ma questo ventaglio cromatico ipertrofico non trova da nessuna parte una sua sintesi. In nessun punto del film Geoghegan afferra la materia visiva su cui sta operando per imprimergli un guizzo, un movimento che attesti la sua mano di Autore, di Regista di questo film. E' come se Geoghegan ci raccontasse ripetitivamente il sogno (i sogni) sognato (sognati) da altri, ma mai il suo, mai il suo visioning. Trovo che questo sia l'aspetto maggiormente negativo di questo film, peraltro molto ben recensito da altri blogger, cui rimando per cogliere pareri anche molto lontani dal mio (vedi Lucia, oppure Midian).

"We are still here" perde una grande occasione, che ad esempio non perde affatto un film come "It Follows" di Robert David Mitchel, del quale abbiamo a lungo già parlato.

Come in psicoanalisi, anche nella costruzione di un film, non è sufficiente essere empatici, bisogna anche saper "interpretare", cioè far entrare in relazione il passato (nostalgico) con il presente, per generare un senso di un futuro. 

Regia: Ted Geoghegan    Soggetto e Sceneggiatura: Ted Geoghegan, Richard Griffin (based on a concept by)    Fotografia: Karim Hussain    Montaggio:  Aaron Grozier, Josh Etnier    Musiche: Wojciech Golczewski Special Effects Make Up: Oddtopsy    Visual Effects:  Eli Dorsey     Cast: Barbara Crampton, Andrew Sensenig, Larry Fessenden, Lisa Marie, Monte Markham, Susan Gibney, Michael Patrick Nicholson, Marvin Patterson  Nazione: USA   Produzione:  Snowfort Pictures, Dark Sky Films  Durata:   84 min. 


6 commenti:

  1. la tua rilettura è altamente suggestiva ma a me il film è piaciuto molto, mi ha fatto immergere in ricordi bellissimi...

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  2. @ Bradipo: si, lo so, il film è molto ben fatto. Ma personalmente non ho mai avuto grande interesse per nostalgie di nessun tipo. Perchè la "nostalgia" è capace di risvegliare anche l'ideologia del "si stava meglio quando si stava peggio", che è poi, al fondo, la strategia règia di Salvini e dei suoi compari. La nostalgia nasconde quindi un lato pericoloso, anche, e quindi è secondo me da evitare come la peste bubbonica. Questo film invece la erige a sistema. Ciò non mi piace affatto.

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  3. Capisco il tuo punto, ma credo che Geoghegan si avvicini più al pensiero di un Ti West del The House of the Devil, e cioè quello di ripescare precisi modi di girare e replicarli tali e quali rendendoli comunque attuali e godibili senza che l'effetto nostalgico sia quello che prevale. La personalità per me c'è, ed è quella di chinarsi e scansarsi di fronte a chi ha fatto la storia, omaggiandoli, prendendone spunto e costruendo il primo passo di una - spero - bella carriera. Geoghegan è partito dalla materia che meglio conosceva, e il risultato è discreto, vedremo cosa uscirà dal prossimo lavoro :)

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  4. @Simone: non so se è vero che Geoghegan si è scansato tanto da chi ha fatto la storia. Non so davvero. Comunque la mia è naturalmente una delle letture possibili :)

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  5. Come ti ho accennato su Twitter, in 140 caratteri, mi rispecchio completamente in quel che hai scritto. Per gli stessi motivi ho sempre odiato fin dall'inizio Ti West (che si è rivelato essere il nulla fatto sedicente artista). Ci sono un paio di refusi ;) (...scrisse quello che ne trova nei suoi post a mesi di distanza...) Lenny Nero (commento via Google perché via iPhone il sistema di commenti non mi fa usare Wordpress)

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  6. @ Lenny Nero: concordo con il tuo tweet. Film che non va (purtroppo) oltre il vintage, come giá detto. Buona Estate.

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