Pagine
sabato 8 gennaio 2011
Un caso archiviato, di Arnaldur Indriðason (2010)
Anno: 2007 Tr. It.: 2010 Editore: Guanda Traduzione: Silvia Cosimini Pagg. 304, brossura ISBN: 978-88-6088-108-3
In una fredda sera d’autunno, in Islanda, una donna viene trovata impiccata nella sua villetta estiva di Ðingvellir. Tutto sembra confermare l’unica ipotesi plausibile: suicidio. Ma quando Erlendur Sveinsson, detective della polizia di Reykjavìk, viene in possesso della registrazione di una seduta spiritica alla quale la donna aveva partecipato poco prima di morire, prova il bisogno irrefrenabile di conoscere la sua storia e di scoprire perché la sua vita si è conclusa in maniera tanto tragica e improvvisa.
“A dire la verità non ho più provato un momento di serenità da quella volta” disse Tryggvi guardando il pullman in partenza per Keflavik. “Ho sempre la sensazione di dover andare da qualche parte, come se aspettassi qualcosa, o se qualcuno mi aspettasse, ma non so dove e non so chi sia e non so dove sto andando”. “Che cosa pensi che sia quello che aspetti?”. “Non lo so. Tu pensi che io sia matto. La gente crede che sia strambo”.
“Ho conosciuto gente più stramba” disse Erlendur.
Tryggvi continuò a guardare il pullman per Keflavik.
“Non hai freddo?” chiese di nuovo.
“No” disse Erlendur.
“E’ una strana sensazione guardare la gente che parte” continuò Tryggvi dopo un lungo silenzio. “Guardarli salire sul pullman, e il pullman se ne va, C’è gente che parte dalla mattina alla sera”.
“Non ti viene mai voglia di salire e andare da qualche parte?”
“No, io non vado mai da nessuna parte” disse Tryggvi. “Figuriamoci. Io non mi faccio portare via da un autobus. Dove andrà questa gente?Dimmelo.Dove sta andando tutta questa gente?”.(pagg 152, 153).
Uno scambio di battute di questo tipo ha un sapore quasi filosofico, dialogico-platonico, oserei dire, e non è cosa da poco se consideriamo che il dialogo avviene nel bar di una stazione di pullman, alla periferia di Reykjavìk, in una sera d’autunno. Il romanzo si dipana seguendo fili narrativi plurimi, che si intrecciano e annodano sempre intorno al tema (quasi ossessivo) della scomparsa, della “sparizione” dell’oggetto più amato (che sia un figlio, o un fratello, o un padre, non importa). L’infanzia e i suoi traumi impensabili e impensati fanno sempre da sfondo alla scrittura di Indriðason e la sostanziano e la intridono fino al fondo delle sue ossa. L’umanità nordica descritta dal nostro islandese è un’umanità dolente, attraversata da passioni shakespeariane, ma vissute in minore, fatte di gelosie, competitività meschine, adulteri consumati nella casa di campagna sul lago Ðingvallavatn, oppure all’interno del gruppo di cinici studenti universitari di medicina che vogliono divertirsi facendo “esperimenti” di induzione della morte sul povero, giovane Tryggvi. Piano piano, pagina dopo pagina, vedremo sfumare i fantasmi dello “spiritismo” che avevano rese perturbanti le prime pagine del libro, facendole virare verso un improbabile tema “soprannaturale”, e Indriðason, con la sua solita razionale maestria nordica, ci farà scendere coi piedi sulla terra dei sentimenti umani, unici “fantasmi” capaci di distruttività e odio. Essenziale in questo lento, inesorabile viraggio verso la realtà, diventerà il personaggio-chiave di Leonòra, l’autoritaria madre di Marìa, divorata dalla gelosia e depositaria, insieme alla figlia di un terribile segreto che Erlendur si ostinerà a cercare di svelare, alfine riuscendovi. Sebbene meno compatto, lineare dei precedenti, quest’ultima fatica dello scrittore islandese, si propone come lettura necessaria per sistemare un ulteriore tassello dell’epopea erlenduriana. Tassello che riempie di senso anche le vicende “storiche” della vita del protagonista, in particolare il rapporto travagliato coi due figli, Sindri e Eva Lind. Dopo tanto penare, almeno questo rapporto troverà nel romanzo una sua riconciliazione, raccontata con rara poeticità nella lunga sequenza narrativa del pic-nic consumato sul lago con la figlia. Libro frastagliato e cangiante, modulato e contrastato come il paesaggio islandese che ne fa da sfondo, “Un caso archiviato” è un’opera di cui si consiglia la lettura, non prima, però, di aver gustato a fondo l’aroma inconfondibile dei romanzi precedenti.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Forse è davvero inusuale consumare certi dialoghi nel degrado urbano.
RispondiEliminaChe un clochard tagliato fuori dal mondo industriale raggiunga tali vette, non ci deve stupire, è autentico, semplice, profondo, privo di ampollose parole o ridondanti concetti.
Un disadattato, certo.
Come - Purtroppo - Chi schiavo di orologi o autobus che regolano vite ai margini, passate in chissà quale ditta.
Disuguaglianze.
Cristian
Dimenticavo:
RispondiEliminaA recensione conclusa, la piattaforma ne ha impedito messa in opera.
Era il 2 di Gennaio.
@ Cristian: sì, Arnaldur Indriðason è un maestro dei dialoghi. In ques'ultimo romanzo ce ne sono altri, oltre quello citato con Tryggvi, altrettanto, se non ancor più pregnanti. Per esempio quello (ambientato ancora una volta in un bar) tra Erlendur e la ex moglie Halldora. Poi quello tra lui e la figlia Eva Lind, alla quale chiede, a modo suo, di farsi perdonare. Toccante.
RispondiElimina@ Cristian: Molto strano che Blogger non ti faccia postare. Se hai scritto la recensione su Word, devi solo fare copi-incolla sul format dei post, e se vuoi puoi anche inserire una foto-poster, come ti avevo spiegato qualche post fa. Se non ci riesci ancora, se vuoi, incollami la recensione qui in un commento. Poi io la prelevo e provo a postarla su CineGuardrail, e cancello il commento. Fammi sapere.
RispondiElimina