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mercoledì 17 novembre 2010

Psicosi e televisione



“Fino a non molto tempo fa, ve lo ricorderete, tenevamo la televisione accesa e nel frattempo ci facevamo un caffè, rammendavamo un calzino, facevamo del sesso; oggi noi siamo seduti lì, davanti immobili e dentro lo schermo si fanno un caffè, rammendano un calzino e fanno del sesso
                Sabina Guzzanti (Reperto Raiot, Rizzoli, 2005).

Perché esiste un parallelismo netto tra psicosi e televisione? Innanzitutto perché la caratteristica principale, il parametro, l’invariante funzionale che caratterizza entrambi i fenomeni (uno più psicopatologico-individuale, l’altro più sociale-gruppale) è quello di porsi in conflitto distruttivo con il pensiero. Se, come afferma Bion, la “mente è un apparato per pensare i pensieri” (Bion, 1967), la malattia psicotica è una ribellione permanente, onnipotente e onnipervasiva contro tale apparato. Anzi, diciamo che la psicosi desidera distruggere, tale apparato, sostituendolo con un altro, fatto di immagini alternative alla realtà (l’allucinazione), e di convinzioni erronee (il delirio).  Tale sostituzione avviene innanzitutto confendondo l'esterno con l'interno, capovolgendone funzioni e ruoli, intime connessioni, distinzioni e confini. L’uso che si fa della TV è isomorfo a tale struttura, nel senso che la TV si è da tempo ormai immemore, completamente sostituita alla realtà, alterandone  i confini come sua mission (il concetto delirante di "reality-show" è una evidente dimostrazione di questa strategia dereistica): la TV è una realtà “altra” cui consentiamo di entrare in casa nostra, 24 ore su 24, molto più della realtà in carne ed ossa delle relazioni umane. Una realtà (quella propagandata dalla TV) fatta di desiderio sempre allucinato, mai reale, e che tende a generare convinzioni, ideali e valori totalmente svincolati dall’asse temporale su cui si fonda la memoria, e di conseguenza il pensiero, e di conseguenza l’identità. Il “pensare”  parte da (e mette in scena un) distacco, da un’assenza, da una separazione; proprio in funzione di tale “vuoto”, si dà pensiero, altrimenti assistiamo semplicemente a un amorfo, liquido e continuativo scorrere di immagini (come accade in TV) che portano il segno di un atto feticistico, dove l’immagine è lì per se stessa, e non si pone come evocazione, metafora, rimando, ma come statico peso autoreferenziale. E’ lecito dunque domandarsi come sia possibile che la tv possa diventare generatrice di pensiero (nel caso del “pubblico” ricevente) se questo sfondo depressivo-luttuoso del distacco (il “lutto originario” di cui parla lo psicoanalista e psichiatra francese Sassolas) è forcluso psicoticamente dalla fruizione televisiva. E’ una domanda centrale. Infatti la in-cultura post-moderna tende, come sua strategia di base, a nascondere artatamente questo aspetto, che è come dire cancellare la memoria (le immagini sono sempre, per così dire “in diretta”) per cancellare-non soffrire-il lutto di ciò che è assente, di ciò che non-è-più-in-diretta. La TV-come-psicosi tende a sostituire il lavoro continuo del lutto, attraverso cui, nel corso del tempo, decanta l’atto di pensiero , con “superfici” piatte e liquide, generando l’illusione onnipotente dell’assenza del dolore, cioè del piacere continuo. E’ un illusione, appunto feticistica, che a voler ben guardare, ha somiglianze incredibili con una configurazione tossicomanica, psicotica dove “la droga” assume un significato di feticcio, che garantisce l’illusione di una potenza sempre perennemente ai massimi livelli, la cui “dose” deve essere continuamente aumentata. Per ottenere tale effetto, la cultura televisiva, lavora malignamente sul confine delicato e soffuso tra lutto e creazione, operando principalmente attraverso gli strumenti difensivi individuali della scissione, della scotomizzazione e dell’iperstimolazione, estendendoli dall’individuo alla massa. Nel prossimo editoriale studieremo più da vicino tali meccanismi patologici (Articolo pubblicato sulla rivista online "Agli Incroci dei Venti").

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